{Nota:
questa
storia è stata scritta circa un anno fa, prima
dell’uscita di Clockwork
Princess per cui gli eventi di seguito riportati si svolgono, a livello
temporale, dopo la fine di Clockwork Prince. xx
Sam
la stagione della saggezza e la stagione della follia,
l'epoca della fede e l'epoca dell'incredulità,
il periodo della luce e il periodo delle tenebre,
la primavera della speranza e l'inverno della disperazione.
[Charles Dickens – Racconto di Due Città]
Londra,
1878
Di tutte le cose
che
ammiravo di James una mi lasciava particolarmente stupito, il modo
sereno con
cui riusciva ad accettare ciò che io, con tutte le mie
forze, continuavo a
negare: la sua imminente morte.
Non capivo come
facesse, come riuscisse ad affrontare con una tale disposizione
d’animo il
fatto che ben presto non ci sarebbe stato più. Io non ci
riuscivo, io non ci
sarei mai riuscito. Nonostante sapessi come stavano le cose, fin
dapprincipio,
mi risultava impossibile chinare il capo davanti a quella dura
verità. Non
potevo perdere James, perché James era tutta la luce che
avevo e che avrei
sempre avuto. Io non ho luce, ne sono privo, ma è una cosa
con cui ho imparato
a fare i conti fin da bambino, ma il problema delle persone come me,
è che
quando incontrano persone come Jem, sanno di non poterne fare
più a meno. Sono
come pozzi d’acqua in un deserto: una volta trovati,
è impossibile
abbandonarli, impossibile tornare a patire la sete.
Come ogni sera
ero
steso sul mio letto con una copia del Fantasma
di Canterville poggiata sul petto mentre mi lasciavo
coccolare dalle note
del violino che rendevano l’Istituto meno macabro e in
qualche modo, mi
facevano sentire meno solo. Fin dal primo momento quel suono aveva
accompagnato
le mie notti insonni, coccolandomi e cullandomi spingendomi
delicatamente verso
le soglie del sonno tanto sperato, tanto ricercato. Quel violino era
sempre
stato una delle poche certezze della mia vita, come le mani che lo
sfioravano.
Mi voltai di lato socchiudendo gli occhi lasciandomi accarezzare dal
raggio di
luce della luna che penetrava attraverso la finestra aperta.
L’aria portava gli
odori tipici della Londra che amavo, quella che sotto, sotto nascondeva
un’anima
nera, oscura e persino un po’ maledetta. Londra si sposava
bene con ciò che
ero, mi abbracciava perché amava le mie angosce ed io
accoglievo ben volentieri
le sue. Strinsi il cuscino tra le dita strofinando un pò il
naso sulla federa
ruvida prima di decidermi ad alzarmi. Senza curarmi di mettere gli
stivali
uscii dalla camera facendo quanto meno rumore possibile, fino a
raggiungere
quella di Jem, la cui porta, come spesso accadeva, era socchiusa.
Sbirciai
dallo spiraglio poggiando lentamente le dita sul legno dello stipite
vedendo la
sua figura longilinea che si stagliava davanti alla finestra. Mi stava
dando le
spalle, per cui non mi vide, ma certamente neanche mi sentì.
Conoscevo
perfettamente il modo in cui Jem si perdeva nella sua stessa musica e
le note
di quella sera erano allegre, ma lente e in qualche modo avevano un
qualcosa di
malinconico, sul fondo, che non compresi. Tutti sapevano che Jem era in
procinto di sposare la donna che amava e quindi ci si aspettava da lui
che
suonasse qualcosa che per una volta lasciasse in disparte tutta la
tristezza.
Persino io, nei suoi panni, forse avrei smesso di leggere Wilde (anche
se ero
convinto che fosse uno scrittore di quelli che avrebbero fatto la
storia) forse
mi sarei dilettato in letture che lasciavano fuori tutto,
fuorché l’amore.
Ma
d’altronde in
letture del genere mi ero già sollazzato diverse volte e
tante altre mi ero
reso conto di come comprendessi appieno quei sentimenti, come se li
provassi
anche io, solo che non sapevo come fosse possibile provare qualcosa ma
non
saper definire a chi fosse indirizzata.
“Hai
intenzione di
stare lì ancora per molto, William?”
Il tono di Jem
mi fece
sussultare. Perso nei miei pensieri non avevo fatto caso al modo in cui
l’Istituto
era improvvisamente piombato nella quiete, lasciandomi
sull’uscio della porta,
senza alcuna protezione, nudo. Scrollai un po’ le spalle
spingendo la porta per
sgattaiolare all’interno della camera, lasciando che il
silenzio restasse
aldilà della soglia.
“Controllavo
che non
infastidissi la sposa prima del grande giorno.” Ghignai
leggermente fermandomi
sul tappeto assaporandone il calore sotto i piedi.
James si
voltò a
guardarmi con quella che, lì per lì, trovai
un’espressione con una singolare
punta di rabbia, ma che in seguito avrei riconosciuto come una nota di
profonda
tristezza. Si lasciò scivolare il violino lungo il fianco,
poggiandolo
sull’anca e mi fissò con i suoi occhi argentati.
Non potei analizzare oltre la
sua espressione dal momento che la sua figura controluce non mi
permetteva di
vederlo bene, tuttavia non mi spostai, né chiesi a lui di
farlo. Sembrava un
po’ un angelo con il bagliore della luna alle spalle e la
tunica infilata nei
pantaloni solo fino ad un certo punto, dal momento che poi ricadeva a
coprire
parte dei calzoni sul fianco dove aveva lasciato scendere la mano le
cui dita
erano ancora strette attorno all’archetto che quasi toccava
il pavimento.
“Hai
bisogno di
qualcosa, Will?” Il suo tono era più dolce adesso
e fece qualche passo avanti a
riporre il violino nella sua custodia.
Mi sentii in
colpa per
averlo interrotto, mi piaceva vederlo suonare, mi piaceva
l’estetica di quella
scena, il modo armonico in cui le sue mani si muovevano delicate ad
accarezzare
le corde, o come le dita si stringevano attorno all’archetto
lasciandolo
scivolare lentamente.
“Non
esattamente.”
Sussurrai corrugando la fronte e poggiandomi a sedere sul letto.
Non avevo mai
veramente
bisogno di qualcosa, ma Jem assumeva sempre il contrario e molto spesso
dovevo
ammettere che aveva ragione lui e non io. Era sempre stato
così, James mi
conosceva meglio di quanto io stesso riuscissi a conoscere le
profondità della
mia anima. Era come se lui fosse capace di addentrarsi nei recessi del
mio essere,
in quelle parti da cui io stesso rifuggivo e lo faceva senza indugio,
ma
soprattutto, lo faceva senza paura. Poggiò
l’archetto accanto alla custodia del
violino e incrociò le braccia al petto passandosi una mano
tra i capelli, molto
lentamente. Aveva sempre un’aria stanca, ma quella sera era
qualcosa che andava
aldilà del suo problema con la malattia, era una sorta di
afflizione che
percepii osservando bene il suo volto. La percepii al punto che per un
attimo
fui certo di star provando anche io la medesima angoscia. Portai la
mano al
petto sfiorando delicatamente la tunica che indossavo, avvertendo
persino
attraverso la stoffa, la runa incisa sul mio cuore. A volte avevo come
la
sensazione che bruciasse, che mi dicesse che qualcosa di orribile e
imminente
dovesse accadere, ma il più delle volte la ignoravo. Notai
che James seguì con
lo sguardo il mio gesto stringendosi un po’ nelle spalle.
Chiuse gli occhi di
scatto e girò il volto verso la finestra. Ancora una volta
la luce della luna
illuminò i suoi lineamenti perfetti lasciandomi attonito. Se
avessi saputo
dipingere, James sarebbe stato senza ombra di dubbio il mio soggetto
preferito;
aveva i lineamenti delicati, sottili, ma in particolar modo erano
gentili,
tutte qualità adorate dai pennelli quando sfioravano la
tela, tutte qualità che
io avrei riprodotto con piacere, nonostante fossi anche consapevole del
fatto
che la bellezza di Jem era data dalla sua essenza così pura.
E l’essenza non
poteva essere riprodotta. A ben pensarci, era quasi triste.
“Cosa
vorrebbe dire,
non esattamente?” Mi chiese tornando a guardarmi con un
singolare sfavillio
negli occhi che per un istante mi fece temere semplicemente che non
gradisse la
mia presenza nella sua camera, non quella sera.
“Non
lo so, James.
Dimmelo tu.”
Non avevo mai
compreso
cosa cercassi ogni volta che andavo da lui. Egoisticamente,
probabilmente
cercavo me stesso, cercavo di catturare un po’ della sua luce
per custodirla
per quel lasso di tempo in cui non saremmo stati insieme. La notte, al
buio,
solo con le mie paure e le mie angosce che si divertivano a torturarmi.
Jem
sospirò stancamente
passandosi una mano sulla fronte, prima di fare qualche passo verso di
me e
inginocchiarsi, poggiando delicatamente la mano sul mio ginocchio,
mentre io mi
stringevo l’altra gamba al petto su cui poggiai il mento
osservando il suo viso
da quell’angolazione, lasciandomi estasiare dalla sublime
perfezione della sua
anima. Mi ero spesso chiesto cosa fosse che ci attirasse in quel modo,
così
diversi e così uguali, cosi imperfetti e al contempo esseri
perfettibili, così
vicini eppure spesso, estremamente distanti.
Perché
era questo che
sentivo quando mi trovavo con lui. L’unico essere capace di
comprendermi e
soprattutto, dal quale avevo deciso di farmi capire, eppure
l’unica persona a
cui mi era vietato avvicinarmi più di tanto. Avevamo fatto
un errore anni
prima. E lo stavamo pagando. Tornai a sfiorare la runa dei parabatai
che aveva
trovato il suo posto sul mio cuore, impressa con lo stilo ma che spesso
bruciava come un marchio a fuoco.
“William,
devo farlo.”
Mormorò poggiando un mento sulla mano che ancora giaceva sul
mio ginocchio.
Sentivo il calore della sua pelle attraverso la stoffa del pantalone e
strinsi
le dita dei piedi nel tentativo di ostacolare in qualunque modo quello
che
sentivo pizzicare in fondo al mio stomaco.
Come sempre, lui
sapeva
perché mi trovavo lì, mentre io, ancora una
volta, brancolavo nel buio. Quel
buio che mi apparteneva, quel buio che mi ero ricercato e dove mi ero
nascosto
per tanto tempo per rifuggire alla verità, e la
verità era che sulle mie spalle
gravava il peso di una maledizione. O almeno, questo era ciò
che avevo creduto
fino a poco tempo prima. Le cose ora erano cambiate, ma non davvero.
Non come
avrei voluto. Sfregai lentamente il mento sul ginocchio in movimenti
lenti e
strinsi gli occhi ad osservare quella camera che mi era così
familiare, da
sentirmi più a mio agio lì, tra le note di un
violino e un ragazzo dai capelli
argentati, piuttosto che tra l’odore di carta e pelle dei
miei libri, nella mia
stanza.
“No
James, non dovevi.”
Sussurrai scuotendo la testa. Avrei voluto trovare
qualcos’altro da dire,
qualcosa impregnato nel mio solito umorismo nero che creava una
barriera tra me
e gli altri, ma con Jem era impossibile. Con Jem non c’erano
barriere. Non
c’erano mai state.
Mi strinse il
ginocchio
per richiamare la mia attenzione, quindi mi voltai lentamente verso di
lui che
sorrise appena. Non potevo accettare che stesse sacrificandosi lui, per
allontanarci completamente. Avrei dovuto farlo io. Avrei dovuto sposare
io
Tessa e andarmene dall’Istituto con lei, in un luogo lontano,
fingendo
felicità. D’altronde quello era un compito che non
mi risultava difficile.
Fingere di essere felice, fingere di essere allegro, menefreghista.
Erano tutte
cose semplici per me dal momento che avevo vissuto in quel modo per
così tanto
tempo, nella finzione, che stentavo a volte a riconoscere il mio vero
io – era
diventato così difficile separare la maschera dal mio stesso
volto, che a volte
temevo di svegliami un giorno senza più riuscire a sapere
chi fossi o dove
andassi. Andavo da Jem ogni volta che avevo il bisogno viscerale di
liberarmi
da quella maschera per un po’ di tempo. Ma ora James sarebbe
andato via, si sarebbe
sacrificato al posto mio, avrebbe sposato una persona che non amava e
tutto per
far sì che nessuno dei due finisse nei guai. Era tutto
estremamente ingiusto e
non riuscivo ad accettarlo.
Ma James, ancora
una
volta, aveva quel sorriso stampato sul volto, quel sorriso di
accettazione che
io non riuscivo a sopportare perché mi faceva male. Mi
faceva male dal momento
che le ingiustizie non le avevo mai digerite, le avevo sempre
contrastate con
ogni singola fibra del mio essere, anche quando sapevo che era
impossibile
farlo, anche quando ero conscio del fatto che a volte,
l’unica cosa da fare,
era chinare il capo davanti all’evidenza delle cose. Come la
morte imminente di
Jem.
Chiusi gli occhi
di
scatto lasciandomi andare sul letto coprendomi il volto con un braccio
nel
tentativo di tornare padrone di me. Cercavo con tutte le mie forze di
recuperare un briciolo di quella maschera che davanti a James cadeva a
pezzi.
Avevo bisogno di quella, dovevo proteggermi, dovevo proteggermi dal
rischio di
crollare davanti a lui, perché non potevo assolutamente
permettermi di
mostrargli quanto davvero mi facesse male quella situazione, quanto mi
consumasse l’infelicità che provavo. Non sarebbe
stato giusto. Sentii il
fruscio della tunica di James mentre si rialzava e si arrampicava sul
letto
accanto a me, a pancia in giù. Mi tirò un
po’ il braccio che avevo sul viso.
“Non
lo fare Will.”
“Hai
questo orrendo
vizio di non specificare cosa devo o non devo fare. Dici sempre e solo
che non
devo fare una cosa, o che dovrei farne un’altra.”
Sentii Jem
ridacchiare
sommessamente, ma non mi voltai a guardare il modo in cui le labbra
s’increspavano ai lati della bocca, cercai invece
d’immobilizzarmi, come a
diventare un tutt’uno con il materasso sotto la mia schiena.
“Lo
sai benissimo a
cosa mi riferisco, William. Tu lo sai sempre.”
Il sussurro con
cui
lasciò uscire le ultime parole mi convinse a spostare il
braccio e a voltarmi
leggermente verso di lui. Aveva poggiato la testa su un gomito e si era
adagiato su un lato. Mi stava fissando aspettandosi qualcosa, o forse,
dal
momento che mi conosceva fin troppo bene, non aspettandosi proprio un
bel
niente, perché io non avevo nulla da offrirgli.
“Lo
dovevo fare io.”
Mormorai chiudendo lentamente gli occhi. “Toccava a me farlo,
James. Dovevo
sposarla io.”
Jem
sbuffò lentamente
un po’ d’aria fuori dai polmoni che
arrivò a solleticarmi le ciglia. Lo sentii
spostarsi un po’ e mettersi a pancia all’aria ad
osservare il telo bianco sul
suo baldacchino, più o meno la stessa cosa che stavo facendo
io. Sentii il
calore del suo corpo e il profumo della sua pelle, leggermente
speziato, che
Jessamine aveva definito spesso una conseguenza della droga che
prendeva, ma io
ero perfettamente conscio del fatto che non fosse così. Jem
aveva sempre avuto
quel profumo, persino la prima volta che lo vidi potei assaporarne la
delicatezza
sotto la lingua. Era suo. Gli apparteneva. E gli apparteneva al punto
che
quando vagavo per Londra e mi capitava di poter avvertire qualcosa di
simile –
nonostante sapessi perfettamente che non era lo stesso odore
– provavo un moto
di fastidio all’idea che qualcosa osasse profumare alle
stesso modo, ma
soprattutto, provavo orrore nel rendermi conto che la mia Londra mi
tradiva e
che dopo la dipartita di Jem mi avrebbe sbattuto sotto al naso tutto
quello che
gli era appartenuto, diluendolo con qualcos’altro, qualcosa
che non era suo,
infangandone il ricordo. Era questo che intendevo quando dicevo che Jem
aveva
un’essenza tutta sua, era questo che intendevo dicendo che
era triste che non
potessi riprodurla il alcun modo. Perché sapevo che un
giorno l’avrei persa per
sempre. Avrei perso la sua luce, e avrei perso la sua essenza. Non
potevo
immaginare uno scenario peggiore, forse perché non
c’era.
“Non
posso permettere
che tu soffra ancora Will. Non dopo tutto quello che hai già
dovuto passare e
subire. Io morirò presto, quindi non mi pesa
andarmene.”
Risi
sommessamente a
quelle parole mentre un sapore agrodolce mi si riversava in bocca e
l’amara
sensazione di perdita che avevo già provato in passato, mi
si aggrappava alle
spalle impedendomi di dare una risposta abbastanza veloce, per far
sì che il
mio tono non mi tradisse.
“Quanta
insensibilità
James. Potresti almeno far finta che ti dispiaccia mollarmi con Henry
che se
Charlotte non lo tiene d’occhio darà fuoco pure a
suo figlio, probabilmente.”
Scossi la testa nel tentativo di mettere un qualche accento umoristico
sulle
mie parole.
Jem si
voltò verso di
me così velocemente che per un attimo temetti di prendermi
un altro pugno in
bocca, come quella volta fuori dall’oppieria quando pensava
vi fossi entrato per
ferire lui, quando invece, come sempre, tentavo solo di scappare da me
stesso.
Ma questa volta Jem si limitò a poggiare un braccio sul mio
petto, stringendo
un po’ la camicia tra le dita affusolate.
“Non
puoi dirmi
questo.” Mormorò con voce rotta che mi fece
pentire di ogni azione perpetuata
da quando lo conoscevo, volta a nascondergli qualcosa - qualunque cosa
- che
aveva finito col ferirlo.
Io ero
assolutamente incapace
di prendermi cura di lui, questa era un’altra cosa che avevo
sempre saputo. Era
Jem che si prendeva cura di me, ma io non capivo perché lui
continuava a
restare, non capivo perché ogni giorno mi salvasse, senza
chiedere nulla in
cambio. Mi voltai lentamente a guardarlo portando una mano al petto
fino a
sfiorare le sue dita che erano ancora intrecciate nella stoffa della
mia
tunica, senza alcuna intenzione di mollare la presa. Conoscevo bene
quel modo
di aggrapparsi alle cose, era la stessa presa con cui io tenevo la vita
di Jem,
perché pensavo mi appartenesse, e dal momento che mi
apparteneva, non l’avrei
lasciata a proseguire il suo cammino verso la morte. Jem si
voltò verso di me
guardandomi con un’espressione corrucciata e anche in parte
ferita che mi
convinse a poggiare la mano sulla sua per spostarla delicatamente,
prima di avvicinare
la fronte al suo petto, dove la poggiai sentendo il battito lento ma
regolare
del suo cuore. Jem spostò la mano ad infilare le dita nei
miei capelli e io non
riuscii a fare a meno di allungare un braccio facendolo scivolare
dietro la sua
schiena, lasciandomi confortare dall’innaturale calore del
suo corpo e cullare
dal movimento delle sue dita che accarezzavano lentamente alcune
ciocche dei
miei capelli.
“Hai
la febbre.”
“Io ho
sempre la
febbre, William.”
Sentì
il suo alito sui
miei capelli e chiusi gli occhi allungando le gambe per intrecciarle
con le
sue. Le prime volte ero sempre rimasto particolarmente stupito da come
i nostri
corpi trovavano il posto l’uno nell’altro come se
fossimo fatti per
abbracciarci, per stringerci, per appartenerci. Strinsi più
forte la presa
ancorandomi alla sua tunica soffiando via il laccetto che mi era finito
sul
naso e inspirando una lunga boccata dell’aroma della sua
pelle.
“Sei
mio James.”
Mormorai lentamente.
“Sono
tuo, William.”
Confermò lui. “Lo sarò
sempre.” Sussurrò strofinando lentamente il naso
nei
miei capelli.
Il giuramento si
sbagliava. Niente mi avrebbe separato da lui, neanche la morte.
Per
persone come noi,
esistevano per sempre che
nessuna
parola avrebbe saputo spiegare e nessuna nota avrebbe saputo
armonizzare. Noi
non avevamo un per sempre. Lo eravamo. Eravamo per sempre.