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Autore: Sam E Soer    06/02/2014    1 recensioni
"Era sempre stato così, James mi conosceva meglio di quanto io stesso riuscissi a conoscere le profondità della mia anima. Era come se lui fosse capace di addentrarsi nei recessi del mio essere, in quelle parti da cui io stesso rifuggivo e lo faceva senza indugio, ma soprattutto, lo faceva senza paura."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James Carstairs, William Herondale
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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{Nota: questa storia è stata scritta circa un anno fa, prima dell’uscita di Clockwork Princess per cui gli eventi di seguito riportati si svolgono, a livello temporale, dopo la fine di Clockwork Prince. xx
Sam

 

Era il tempo migliore e il tempo peggiore,
la stagione della saggezza e la stagione della follia,
l'epoca della fede e l'epoca dell'incredulità,
il periodo della luce e il periodo delle tenebre,
la primavera della speranza e l'inverno della disperazione.
 
[Charles Dickens – Racconto di Due Città]

Londra, 1878

Di tutte le cose che ammiravo di James una mi lasciava particolarmente stupito, il modo sereno con cui riusciva ad accettare ciò che io, con tutte le mie forze, continuavo a negare: la sua imminente morte.

Non capivo come facesse, come riuscisse ad affrontare con una tale disposizione d’animo il fatto che ben presto non ci sarebbe stato più. Io non ci riuscivo, io non ci sarei mai riuscito. Nonostante sapessi come stavano le cose, fin dapprincipio, mi risultava impossibile chinare il capo davanti a quella dura verità. Non potevo perdere James, perché James era tutta la luce che avevo e che avrei sempre avuto. Io non ho luce, ne sono privo, ma è una cosa con cui ho imparato a fare i conti fin da bambino, ma il problema delle persone come me, è che quando incontrano persone come Jem, sanno di non poterne fare più a meno. Sono come pozzi d’acqua in un deserto: una volta trovati, è impossibile abbandonarli, impossibile tornare a patire la sete.

Come ogni sera ero steso sul mio letto con una copia del Fantasma di Canterville poggiata sul petto mentre mi lasciavo coccolare dalle note del violino che rendevano l’Istituto meno macabro e in qualche modo, mi facevano sentire meno solo. Fin dal primo momento quel suono aveva accompagnato le mie notti insonni, coccolandomi e cullandomi spingendomi delicatamente verso le soglie del sonno tanto sperato, tanto ricercato. Quel violino era sempre stato una delle poche certezze della mia vita, come le mani che lo sfioravano. Mi voltai di lato socchiudendo gli occhi lasciandomi accarezzare dal raggio di luce della luna che penetrava attraverso la finestra aperta. L’aria portava gli odori tipici della Londra che amavo, quella che sotto, sotto nascondeva un’anima nera, oscura e persino un po’ maledetta. Londra si sposava bene con ciò che ero, mi abbracciava perché amava le mie angosce ed io accoglievo ben volentieri le sue. Strinsi il cuscino tra le dita strofinando un pò il naso sulla federa ruvida prima di decidermi ad alzarmi. Senza curarmi di mettere gli stivali uscii dalla camera facendo quanto meno rumore possibile, fino a raggiungere quella di Jem, la cui porta, come spesso accadeva, era socchiusa. Sbirciai dallo spiraglio poggiando lentamente le dita sul legno dello stipite vedendo la sua figura longilinea che si stagliava davanti alla finestra. Mi stava dando le spalle, per cui non mi vide, ma certamente neanche mi sentì. Conoscevo perfettamente il modo in cui Jem si perdeva nella sua stessa musica e le note di quella sera erano allegre, ma lente e in qualche modo avevano un qualcosa di malinconico, sul fondo, che non compresi. Tutti sapevano che Jem era in procinto di sposare la donna che amava e quindi ci si aspettava da lui che suonasse qualcosa che per una volta lasciasse in disparte tutta la tristezza. Persino io, nei suoi panni, forse avrei smesso di leggere Wilde (anche se ero convinto che fosse uno scrittore di quelli che avrebbero fatto la storia) forse mi sarei dilettato in letture che lasciavano fuori tutto, fuorché l’amore.

Ma d’altronde in letture del genere mi ero già sollazzato diverse volte e tante altre mi ero reso conto di come comprendessi appieno quei sentimenti, come se li provassi anche io, solo che non sapevo come fosse possibile provare qualcosa ma non saper definire a chi fosse indirizzata.

“Hai intenzione di stare lì ancora per molto, William?”

Il tono di Jem mi fece sussultare. Perso nei miei pensieri non avevo fatto caso al modo in cui l’Istituto era improvvisamente piombato nella quiete, lasciandomi sull’uscio della porta, senza alcuna protezione, nudo. Scrollai un po’ le spalle spingendo la porta per sgattaiolare all’interno della camera, lasciando che il silenzio restasse aldilà della soglia.

“Controllavo che non infastidissi la sposa prima del grande giorno.” Ghignai leggermente fermandomi sul tappeto assaporandone il calore sotto i piedi.

James si voltò a guardarmi con quella che, lì per lì, trovai un’espressione con una singolare punta di rabbia, ma che in seguito avrei riconosciuto come una nota di profonda tristezza. Si lasciò scivolare il violino lungo il fianco, poggiandolo sull’anca e mi fissò con i suoi occhi argentati. Non potei analizzare oltre la sua espressione dal momento che la sua figura controluce non mi permetteva di vederlo bene, tuttavia non mi spostai, né chiesi a lui di farlo. Sembrava un po’ un angelo con il bagliore della luna alle spalle e la tunica infilata nei pantaloni solo fino ad un certo punto, dal momento che poi ricadeva a coprire parte dei calzoni sul fianco dove aveva lasciato scendere la mano le cui dita erano ancora strette attorno all’archetto che quasi toccava il pavimento.

“Hai bisogno di qualcosa, Will?” Il suo tono era più dolce adesso e fece qualche passo avanti a riporre il violino nella sua custodia.

Mi sentii in colpa per averlo interrotto, mi piaceva vederlo suonare, mi piaceva l’estetica di quella scena, il modo armonico in cui le sue mani si muovevano delicate ad accarezzare le corde, o come le dita si stringevano attorno all’archetto lasciandolo scivolare lentamente.

“Non esattamente.” Sussurrai corrugando la fronte e poggiandomi a sedere sul letto.

Non avevo mai veramente bisogno di qualcosa, ma Jem assumeva sempre il contrario e molto spesso dovevo ammettere che aveva ragione lui e non io. Era sempre stato così, James mi conosceva meglio di quanto io stesso riuscissi a conoscere le profondità della mia anima. Era come se lui fosse capace di addentrarsi nei recessi del mio essere, in quelle parti da cui io stesso rifuggivo e lo faceva senza indugio, ma soprattutto, lo faceva senza paura. Poggiò l’archetto accanto alla custodia del violino e incrociò le braccia al petto passandosi una mano tra i capelli, molto lentamente. Aveva sempre un’aria stanca, ma quella sera era qualcosa che andava aldilà del suo problema con la malattia, era una sorta di afflizione che percepii osservando bene il suo volto. La percepii al punto che per un attimo fui certo di star provando anche io la medesima angoscia. Portai la mano al petto sfiorando delicatamente la tunica che indossavo, avvertendo persino attraverso la stoffa, la runa incisa sul mio cuore. A volte avevo come la sensazione che bruciasse, che mi dicesse che qualcosa di orribile e imminente dovesse accadere, ma il più delle volte la ignoravo. Notai che James seguì con lo sguardo il mio gesto stringendosi un po’ nelle spalle. Chiuse gli occhi di scatto e girò il volto verso la finestra. Ancora una volta la luce della luna illuminò i suoi lineamenti perfetti lasciandomi attonito. Se avessi saputo dipingere, James sarebbe stato senza ombra di dubbio il mio soggetto preferito; aveva i lineamenti delicati, sottili, ma in particolar modo erano gentili, tutte qualità adorate dai pennelli quando sfioravano la tela, tutte qualità che io avrei riprodotto con piacere, nonostante fossi anche consapevole del fatto che la bellezza di Jem era data dalla sua essenza così pura. E l’essenza non poteva essere riprodotta. A ben pensarci, era quasi triste.

“Cosa vorrebbe dire, non esattamente?” Mi chiese tornando a guardarmi con un singolare sfavillio negli occhi che per un istante mi fece temere semplicemente che non gradisse la mia presenza nella sua camera, non quella sera.

“Non lo so, James. Dimmelo tu.”

Non avevo mai compreso cosa cercassi ogni volta che andavo da lui. Egoisticamente, probabilmente cercavo me stesso, cercavo di catturare un po’ della sua luce per custodirla per quel lasso di tempo in cui non saremmo stati insieme. La notte, al buio, solo con le mie paure e le mie angosce che si divertivano a torturarmi.

Jem sospirò stancamente passandosi una mano sulla fronte, prima di fare qualche passo verso di me e inginocchiarsi, poggiando delicatamente la mano sul mio ginocchio, mentre io mi stringevo l’altra gamba al petto su cui poggiai il mento osservando il suo viso da quell’angolazione, lasciandomi estasiare dalla sublime perfezione della sua anima. Mi ero spesso chiesto cosa fosse che ci attirasse in quel modo, così diversi e così uguali, cosi imperfetti e al contempo esseri perfettibili, così vicini eppure spesso, estremamente distanti.

Perché era questo che sentivo quando mi trovavo con lui. L’unico essere capace di comprendermi e soprattutto, dal quale avevo deciso di farmi capire, eppure l’unica persona a cui mi era vietato avvicinarmi più di tanto. Avevamo fatto un errore anni prima. E lo stavamo pagando. Tornai a sfiorare la runa dei parabatai che aveva trovato il suo posto sul mio cuore, impressa con lo stilo ma che spesso bruciava come un marchio a fuoco.

“William, devo farlo.” Mormorò poggiando un mento sulla mano che ancora giaceva sul mio ginocchio. Sentivo il calore della sua pelle attraverso la stoffa del pantalone e strinsi le dita dei piedi nel tentativo di ostacolare in qualunque modo quello che sentivo pizzicare in fondo al mio stomaco.

Come sempre, lui sapeva perché mi trovavo lì, mentre io, ancora una volta, brancolavo nel buio. Quel buio che mi apparteneva, quel buio che mi ero ricercato e dove mi ero nascosto per tanto tempo per rifuggire alla verità, e la verità era che sulle mie spalle gravava il peso di una maledizione. O almeno, questo era ciò che avevo creduto fino a poco tempo prima. Le cose ora erano cambiate, ma non davvero. Non come avrei voluto. Sfregai lentamente il mento sul ginocchio in movimenti lenti e strinsi gli occhi ad osservare quella camera che mi era così familiare, da sentirmi più a mio agio lì, tra le note di un violino e un ragazzo dai capelli argentati, piuttosto che tra l’odore di carta e pelle dei miei libri, nella mia stanza.

“No James, non dovevi.” Sussurrai scuotendo la testa. Avrei voluto trovare qualcos’altro da dire, qualcosa impregnato nel mio solito umorismo nero che creava una barriera tra me e gli altri, ma con Jem era impossibile. Con Jem non c’erano barriere. Non c’erano mai state.

Mi strinse il ginocchio per richiamare la mia attenzione, quindi mi voltai lentamente verso di lui che sorrise appena. Non potevo accettare che stesse sacrificandosi lui, per allontanarci completamente. Avrei dovuto farlo io. Avrei dovuto sposare io Tessa e andarmene dall’Istituto con lei, in un luogo lontano, fingendo felicità. D’altronde quello era un compito che non mi risultava difficile. Fingere di essere felice, fingere di essere allegro, menefreghista. Erano tutte cose semplici per me dal momento che avevo vissuto in quel modo per così tanto tempo, nella finzione, che stentavo a volte a riconoscere il mio vero io – era diventato così difficile separare la maschera dal mio stesso volto, che a volte temevo di svegliami un giorno senza più riuscire a sapere chi fossi o dove andassi. Andavo da Jem ogni volta che avevo il bisogno viscerale di liberarmi da quella maschera per un po’ di tempo. Ma ora James sarebbe andato via, si sarebbe sacrificato al posto mio, avrebbe sposato una persona che non amava e tutto per far sì che nessuno dei due finisse nei guai. Era tutto estremamente ingiusto e non riuscivo ad accettarlo.

Ma James, ancora una volta, aveva quel sorriso stampato sul volto, quel sorriso di accettazione che io non riuscivo a sopportare perché mi faceva male. Mi faceva male dal momento che le ingiustizie non le avevo mai digerite, le avevo sempre contrastate con ogni singola fibra del mio essere, anche quando sapevo che era impossibile farlo, anche quando ero conscio del fatto che a volte, l’unica cosa da fare, era chinare il capo davanti all’evidenza delle cose. Come la morte imminente di Jem.

Chiusi gli occhi di scatto lasciandomi andare sul letto coprendomi il volto con un braccio nel tentativo di tornare padrone di me. Cercavo con tutte le mie forze di recuperare un briciolo di quella maschera che davanti a James cadeva a pezzi. Avevo bisogno di quella, dovevo proteggermi, dovevo proteggermi dal rischio di crollare davanti a lui, perché non potevo assolutamente permettermi di mostrargli quanto davvero mi facesse male quella situazione, quanto mi consumasse l’infelicità che provavo. Non sarebbe stato giusto. Sentii il fruscio della tunica di James mentre si rialzava e si arrampicava sul letto accanto a me, a pancia in giù. Mi tirò un po’ il braccio che avevo sul viso.

“Non lo fare Will.”

“Hai questo orrendo vizio di non specificare cosa devo o non devo fare. Dici sempre e solo che non devo fare una cosa, o che dovrei farne un’altra.”

Sentii Jem ridacchiare sommessamente, ma non mi voltai a guardare il modo in cui le labbra s’increspavano ai lati della bocca, cercai invece d’immobilizzarmi, come a diventare un tutt’uno con il materasso sotto la mia schiena.

“Lo sai benissimo a cosa mi riferisco, William. Tu lo sai sempre.”

Il sussurro con cui lasciò uscire le ultime parole mi convinse a spostare il braccio e a voltarmi leggermente verso di lui. Aveva poggiato la testa su un gomito e si era adagiato su un lato. Mi stava fissando aspettandosi qualcosa, o forse, dal momento che mi conosceva fin troppo bene, non aspettandosi proprio un bel niente, perché io non avevo nulla da offrirgli.

“Lo dovevo fare io.” Mormorai chiudendo lentamente gli occhi. “Toccava a me farlo, James. Dovevo sposarla io.”

Jem sbuffò lentamente un po’ d’aria fuori dai polmoni che arrivò a solleticarmi le ciglia. Lo sentii spostarsi un po’ e mettersi a pancia all’aria ad osservare il telo bianco sul suo baldacchino, più o meno la stessa cosa che stavo facendo io. Sentii il calore del suo corpo e il profumo della sua pelle, leggermente speziato, che Jessamine aveva definito spesso una conseguenza della droga che prendeva, ma io ero perfettamente conscio del fatto che non fosse così. Jem aveva sempre avuto quel profumo, persino la prima volta che lo vidi potei assaporarne la delicatezza sotto la lingua. Era suo. Gli apparteneva. E gli apparteneva al punto che quando vagavo per Londra e mi capitava di poter avvertire qualcosa di simile – nonostante sapessi perfettamente che non era lo stesso odore – provavo un moto di fastidio all’idea che qualcosa osasse profumare alle stesso modo, ma soprattutto, provavo orrore nel rendermi conto che la mia Londra mi tradiva e che dopo la dipartita di Jem mi avrebbe sbattuto sotto al naso tutto quello che gli era appartenuto, diluendolo con qualcos’altro, qualcosa che non era suo, infangandone il ricordo. Era questo che intendevo quando dicevo che Jem aveva un’essenza tutta sua, era questo che intendevo dicendo che era triste che non potessi riprodurla il alcun modo. Perché sapevo che un giorno l’avrei persa per sempre. Avrei perso la sua luce, e avrei perso la sua essenza. Non potevo immaginare uno scenario peggiore, forse perché non c’era.

“Non posso permettere che tu soffra ancora Will. Non dopo tutto quello che hai già dovuto passare e subire. Io morirò presto, quindi non mi pesa andarmene.”

Risi sommessamente a quelle parole mentre un sapore agrodolce mi si riversava in bocca e l’amara sensazione di perdita che avevo già provato in passato, mi si aggrappava alle spalle impedendomi di dare una risposta abbastanza veloce, per far sì che il mio tono non mi tradisse.

“Quanta insensibilità James. Potresti almeno far finta che ti dispiaccia mollarmi con Henry che se Charlotte non lo tiene d’occhio darà fuoco pure a suo figlio, probabilmente.” Scossi la testa nel tentativo di mettere un qualche accento umoristico sulle mie parole.

Jem si voltò verso di me così velocemente che per un attimo temetti di prendermi un altro pugno in bocca, come quella volta fuori dall’oppieria quando pensava vi fossi entrato per ferire lui, quando invece, come sempre, tentavo solo di scappare da me stesso. Ma questa volta Jem si limitò a poggiare un braccio sul mio petto, stringendo un po’ la camicia tra le dita affusolate.

“Non puoi dirmi questo.” Mormorò con voce rotta che mi fece pentire di ogni azione perpetuata da quando lo conoscevo, volta a nascondergli qualcosa - qualunque cosa - che aveva finito col ferirlo.

Io ero assolutamente incapace di prendermi cura di lui, questa era un’altra cosa che avevo sempre saputo. Era Jem che si prendeva cura di me, ma io non capivo perché lui continuava a restare, non capivo perché ogni giorno mi salvasse, senza chiedere nulla in cambio. Mi voltai lentamente a guardarlo portando una mano al petto fino a sfiorare le sue dita che erano ancora intrecciate nella stoffa della mia tunica, senza alcuna intenzione di mollare la presa. Conoscevo bene quel modo di aggrapparsi alle cose, era la stessa presa con cui io tenevo la vita di Jem, perché pensavo mi appartenesse, e dal momento che mi apparteneva, non l’avrei lasciata a proseguire il suo cammino verso la morte. Jem si voltò verso di me guardandomi con un’espressione corrucciata e anche in parte ferita che mi convinse a poggiare la mano sulla sua per spostarla delicatamente, prima di avvicinare la fronte al suo petto, dove la poggiai sentendo il battito lento ma regolare del suo cuore. Jem spostò la mano ad infilare le dita nei miei capelli e io non riuscii a fare a meno di allungare un braccio facendolo scivolare dietro la sua schiena, lasciandomi confortare dall’innaturale calore del suo corpo e cullare dal movimento delle sue dita che accarezzavano lentamente alcune ciocche dei miei capelli.

“Hai la febbre.”

“Io ho sempre la febbre, William.”

Sentì il suo alito sui miei capelli e chiusi gli occhi allungando le gambe per intrecciarle con le sue. Le prime volte ero sempre rimasto particolarmente stupito da come i nostri corpi trovavano il posto l’uno nell’altro come se fossimo fatti per abbracciarci, per stringerci, per appartenerci. Strinsi più forte la presa ancorandomi alla sua tunica soffiando via il laccetto che mi era finito sul naso e inspirando una lunga boccata dell’aroma della sua pelle.

“Sei mio James.” Mormorai lentamente.

“Sono tuo, William.” Confermò lui. “Lo sarò sempre.” Sussurrò strofinando lentamente il naso nei miei capelli.

Il giuramento si sbagliava. Niente mi avrebbe separato da lui, neanche la morte.

Per persone come noi, esistevano per sempre che nessuna parola avrebbe saputo spiegare e nessuna nota avrebbe saputo armonizzare. Noi non avevamo un per sempre. Lo eravamo. Eravamo per sempre.

   
 
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