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Autore: lawlietismine    06/02/2014    2 recensioni
Lo ricordava, lo ricordava bene.
Era lì, nella sua mente.
In ogni singolo istante, non lo abbandonava mai quel ricordo.
Nei suoi peggiori incubi, a occhi chiusi e ad occhi aperti.
Quando mangiava giusto un po’, più per dovere.
Quando camminava, trascinandosi.
Quando era immobile sotto il getto della doccia.
Quando gli altri gli parlavano.
Era lì, sempre.
I suoi occhi, diamine i suoi occhi.
Gli invadevano la mente con quel terrore nello sguardo, già colmi di paura e consapevolezza.
Di lacrime.
Quelle iridi profonde, le due pupille ridotte a due piccolissimi punti.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Daiki Aomine, Ryouta Kise
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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I have nothing if I don't have you

The day has come but I've lost my way around


X
 
 

Non è che fosse sempre stato così. In effetti, se ci avesse pensato anche solo un anno prima, non avrebbe mai creduto di potersi ritrovare in quello stato.
Non così, non lui.

“Sai” gli avevano ripetuto troppe volte “dovrai affrontare questa cosa, prima o poi.”

“Sai”
avrebbe voluto rispondere lui ogni santa volta “dovrai andare all’inferno, prima o poi.”
 
Ma in qualche modo non lo aveva fatto. Con quale forza? Con quale scopo?
Non sarebbe cambiato niente ugualmente, sarebbe stato inutile.

Questo concetto lo applicava oramai ad ogni cosa ed era così che, pian piano, tutto aveva perso il suo significato, era così che alla fine aveva capito che non valeva la pena di fare niente.

Lo avrebbe detto un anno prima? Avrebbe mai potuto dire che la sua vita si sarebbe ridotta ad una tale staticità grigia?
Perché era ciò in cui era finito: uno spazio privo di colore, privo di vita, privo di ogni cosa.

C’era solo lui lì. Lui con la sua pena, lui con la sua sofferenza, lui con il suo tormento.
Solo lui e nient’altro.
Un corpo privato dell’anima, un uomo privato di tutto.

Come poteva una vita andare a finire così? Come poteva stravolgersi tutto in un solo, apparentemente insignificante, istante?
Tu sei lì e pensi a tutt’altro, come ogni giorno, come sempre.
Tu sei lì e non crederesti mai che qualcosa potrebbe succedere.
Perché dovresti? Come biasimarti?

Eppure eccolo.
Destino? Fato? Caso?

E tutto cambia.
E tu… Tu non puoi farci niente.

“Oi!” Il richiamo gli fece giusto perdere l’equilibrio dal filo del dormiveglia su cui era egregiamente posato, scivolando così nel mondo reale. “Oi Ryouta!” Avrebbe quasi finto volentieri di non sentirlo, magari così avrebbe superato quei metri e quei facili ostacoli che li dividevano e lo avrebbe raggiunto. Se avesse avuto davvero bisogno di lui – o voglia di vederlo – lo avrebbe fatto. E allora richiuse gli occhi che aveva socchiuso al suono di quella voce più che familiare, lasciando la luce illuminare di nuovo il resto di ciò che lo circondava.

Non è qualcosa che puoi semplicemente ‘immaginare’.
Non è qualcosa a cui pensi così tanto che poi ci stai attento.

Ma anche se fosse? Potresti evitarlo?

La risposta è no.

Poi ci sono quelli che non lo hanno provato e che ‘vuol dire che doveva succedere’.
Una razza davvero pessima, quella.
Davvero superficiale, davvero stupida.

Non lo avrebbe creduto possibile, comunque.
Ne era sempre più convito: diamine se quel destino lo aveva fottuto.
C’era riuscito anche con lui, che fregatura.

Forse era stato ingenuo? Sarebbe cambiato qualcosa se non lo fosse stato?
In effetti, chi poteva saperlo? Nessuno gli avrebbe concesso quella risposta.

E poi, avrebbe cambiato qualcosa saperlo?

No.

Decisamente no.

“Devi andare avanti.” Tutti a ripetere le stesse cose.
“Lo dico per te.” Tutti a capire i suoi sentimenti.
“Devi farti forza.” Tutti improvvisamente così esperti.
“Non vorrebbe questo.” Tutti così bravi a dare consigli.

Che ipocriti.
 
Quanto li odiava.
Tutti.
Dal primo all’ultimo: ormai non si salvava più nessuno.

Poi ripartivano subito con le loro vite come niente fosse, come se il mondo fosse ancora lo stesso.
Con quale coraggio andavano a dirgli cose del genere?
Come potevano essere così falsi?

Niente, loro non sapevano niente.
Non potevano capire, non potevano sapere come si sentiva.

“Non fare il prezioso” borbottò Aomine, facendo prendere a uno degli angoli della bocca dell’altro una leggera piega all’insù senza che potesse rendersene conto. Kise restò lì in silenzio a bearsi del lieve venticello che lo sfiorava e della quiete piacevole. Non aveva intenzione di salire fin lì per raggiungerlo? Quanto ancora doveva farlo aspettare per fare quei pochi passi? Ma il silenzio che calò non lo preoccupò affatto, ancora con le mani incrociate dietro alla testa a mo’ di cuscino prese un bel respiro, sereno. “Tsk. Che bastardo.” Gli sentì sbottare: un secondo dopo, il rumore che provocò arrampicandosi per raggiungerlo, gli parve come la melodia più bella che le sue orecchie avessero mai sentito. 

Ed era così insopportabile, così fastidioso.

Era come se il suo mondo e quello degli altri fossero due cose ben distinte.
Il suo era così vuoto, così inutile.

Se ne stava lì, in piedi, a fissare quello di cui non faceva parte.
Non poteva ritrarsi, non poteva muoversi.
Come se quella fosse la sua punizione, come se quel maledetto destino, dopo averlo fregato, si divertisse a tormentarlo mostrandogli tutto ciò che non poteva più avere.

“Lo vedi?” Pareva dirgli mentre tutte quelle persone camminavano spensierate da una parte all’altra, come ogni giorno, come da routine, come la vita prevedeva. “Una volta c’eri anche tu con loro.”

Ma lui era così tormentato, così sconvolto dentro, che neanche riusciva a reagire.

Neanche avrebbe voluto farlo, forse. Non aveva senso, non lo avrebbe aiutato.
Si sentiva così prosciugato di ogni singola emozione, eppure in lui ve ne erano così tante.
Le aveva mai provate, quelle?

No.

E mai avrebbe pensato di provarle.

Dolore… Quello era tanto, prevaleva perlopiù sul resto.

Rabbia... Ah, quanta rabbia.

Eppure nessuno lo avrebbe detto, guardandolo.
“È sotto shock.” Bella scusa, complimenti per la balla.

Sotto shock? Lui non era sotto shock.
La sua era vera e propria sofferenza, una sofferenza tanto corrosiva da lasciarlo senza fiato, da fargli bruciare ogni singolo organo nel corpo.
Tanto insistente da fargli venire la nausea, da fargli girare la testa.

Come una sveglia sempre puntuale: era lì quando dormiva, era lì quando apriva gli occhi.

La sentiva in ogni particella, nelle ossa, nel sangue.
La sentiva pulsare nelle tempie, la sentiva nel peso che era incatenato nel suo stomaco, nel petto.

Poteva sentirla bloccata nella gola: ecco perché non riusciva a gridare.

Poteva sentirla trattenerlo a forza, potente come niente al mondo: per questo non riusciva a piangere.

Avrebbe voluto? Oh, se avrebbe voluto.
Diamine se l’avrebbe fatto.
Il suo grido disperato avrebbe girato l’universo intero, infinito anch’esso.
Le sue lacrime avrebbero inondato il terreno.

Il suo corpo allora si sarebbe sgretolato sotto il peso del suo strazio.

“Non fingere di dormire.” Si sentì rimproverare quando quello finì le scalette e con un tonfo si lasciò cadere di fianco a lui. “Cos’è quello stupido sorrisetto?” Ryouta lo espanse non riuscendo a trattenersi, allo stesso tempo scosse lievemente la testa e “niente, lascia stare” ribatté semplicemente con voce bassa, senza accennare un cambiamento: Daiki lo scrutò sospettoso, sistemandosi con le gambe incrociate. Si stava proprio bene, così in pace, così rilassante. Non lo biasimava per essersi rifugiato in quel posto. Kise sbirciò poco con un occhio, mantenendo quel sorriso sulle sue labbra: l’altro si stava guardando intorno con un che di corrucciato, come se non volesse ammettere di stare bene lì, come se avesse scoperto un nuovo modo di vedere i luoghi che ogni giorno visitava. Il biondo, sdraiato, prese un altro gran bel respiro.

Probabilmente erano terminate le lacrime a disposizione, probabilmente erano finite quel giorno.
Eppure aveva quella sensazione tremenda dentro di sé… Come quando sai che starai bene solo nel momento in cui ti sarai liberato di tutto quell’accumulo, eppure non riesci a farlo: puoi solo pensare a come sarebbe, ma quello continua ad essere dentro di te e a non darti pace.

Lo ricordava, lo ricordava bene.
Era lì, nella sua mente.

In ogni singolo istante, non lo abbandonava mai quel ricordo.

Nei suoi peggiori incubi, a occhi chiusi e ad occhi aperti.
Quando mangiava giusto un po’, più per dovere.
Quando camminava, trascinandosi.
Quando era immobile sotto il getto della doccia, la fronte abbandonata contro il muro.
Quando gli altri gli parlavano.

Era lì, sempre.

I suoi occhi, diamine i suoi occhi.
Gli invadevano la mente con quel terrore nello sguardo, già colmi di paura e consapevolezza.
Di lacrime.

Quelle iridi profonde, le due pupille ridotte a due piccolissimi punti.

“È così?” Sembravano chiedergli.
“Aiutami!” Parevano supplicarlo in silenzio.
“Non voglio che succeda!” Volevano pregarlo.

Perché doveva ricordarli così? Perché più si concentrava per rammentare gli attimi migliori, più quell’immagine si presentava con forza distruggendo tutto il resto?

Basta.

Lui non poteva sopportarlo.

Per lui era troppo, era come se ciò che rimaneva della sua anima fosse intrappolato in un corpo che non riusciva più a controllare: mentre dentro di lui vi era un tale caos emotivo e di pensieri, fuori non pareva neanche più vivo.

Dentro di sé gridava.

Dentro di sé piangeva fino allo sfinimento.

“E va bene” soffiò alla fine, capendo che tanto non avrebbe combinato niente: si sdraiò al suo fianco, mettendosi nella stessa posizione, anche lui con gli occhi chiusi, come se in quel modo fosse potuto entrare nel mondo in cui l’altro era immerso. Restarono così per un po’, godendosi il tempo, il vento e la presenza taciturna l’uno dell’altro. Aomine non ci mise però molto a stufarsi: un attimo dopo balzò di nuovo a sedere con una spinta e lo sbuffo spazientito che uscì dalle sue labbra quasi fece ridere Ryouta. Ma Daiki non parlò, riprese a guardarsi intorno con le sopracciglia corrucciate per l’impazienza e per il non sapere cosa fare, torturandosi le mani l’una con l’altra. Kise sbirciò ancora senza poterne fare a meno. Non si rese conto neanche che - a un certo punto - aveva aperto entrambi gli occhi: lo stava guardando perso, quasi ipnotizzato, intontito come solo lui riusciva a renderlo. Neanche si accorse che Aomine prima aveva sbirciato, poi – quando lo aveva beccato con quello sguardo – lo aveva guardato del tutto. “O-Oi…” borbottò incerto Daiki, non sapendo neanche cosa stesse provando precisamente sotto quegli occhi posati su di lui. Ryouta si sentì così leggero quando lui gli sorrise e neanche si accorse di star facendo lo stesso.  

Avrebbe sospirato.
Sentiva il respiro pesante e soffocante, eppure in realtà era normale.

Il cuore gli martellava nel petto con un ritmo tutto impossibile, come ormai d’abitudine.

Sentiva quell’ansia insopportabile alla bocca dello stomaco, gli veniva da vomitare.

In quel momento – seduto al tavolo di casa loro sua – il corpo si muoveva da solo con estrema pesantezza.
Era un cumulo di confusione e sporcizia quel posto, ma non gliene importava proprio.
Con la forchetta, che per miracolo teneva nella mano, rimescolò malamente il contenuto del suo piatto: seduti di fronte a lui, c’erano Midorima e Akashi.

Non aveva nemmeno la forza per mandarli via.
Ma oramai non avrebbe neanche saputo cosa dirgli per farlo.

Erano lì, come ormai da visita abituale, per ‘aiutarlo’.

Shintaro preparava da mangiare, l’altro controllava la situazione.

Stavano cenando insieme, lui che fissava il suo piatto senza neanche vederlo realmente, gli altri che fissavano il loro più che altro pensando a cosa dire o fare.

Poi si lanciavano quegli sguardi d’intesa che lui percepiva e dentro di sé detestava.

Detestare? No, nemmeno.
Ogni sentimento che non c’entrava con quello, veniva buttato da una parte dopo poco averlo provato.

All’ennesimo scambio tra i due, lui si sentì di parlare e lasciare uscire qualsiasi cosa senza prestare realmente attenzione alle parole.

“Come sta Takao?”

Midorima fu quasi sorpreso di sentire quella voce, ora così roca e asettica da sembrare sconosciuta.
Lo guardò un secondo, poi fece lo stesso con Akashi al suo fianco, che ricambiò, e tornò alla fine a fissare quello seduto davanti a lui.

“Bene” rispose dopo aver buttato giù il suo boccone “ti manda i suoi saluti.”

Ma lui non aggiunse altro a riguardo, sistemò ancora un po’ il cibo nel piatto.

“Anche Tetsuya” aggiunse Seijuro, Midorima si unì: “Sarebbe passato volentieri, ma è in America per qualche giorno con Kagami.”

Annuì poco interessato.

Non gli importava.

Era meglio così.
Avrebbe fatto volentieri a meno dei suoi patetici tentativi di farlo ‘andare avanti’.

Quello sguardo sempre privo di sfumature fisso su di lui nel tentativo di capirlo.

Non faceva che infastidirlo di più.

Posò la forchetta, scansò la sedia e tenendosi al bordo del tavolo si tirò su.
Lasciò il piatto lì.
Non per approfittarsi della presenza degli altri due, che avrebbero pensato a quello, ma perché in ogni caso lo avrebbe dimenticato lì, noncurante dell’accumulo continuo.

Camminò fino al divano, vi si buttò sopra e accese la tv, più perché il suo corpo si muoveva ormai da solo che per sua vera volontà.  
 
“Ryouta!” continuò a camminare con le mani immerse nelle tasche, ignorando il richiamo. “Oi Ryouta!” lo sentì correre dietro di lui e quasi rallentò per lasciarlo avvicinare più velocemente. Aomine gli arrivò di fianco dandogli una forte pacca sulla schiena, come scocciato per il suo comportamento (falsamente) evasivo, facendolo traballare. Avrebbe ghignato, Kise, ma si trattenne. “Non te la sarai mica presa per quella tipa, vero?” borbottò fra lo scioccato e il timoroso di un fraintendimento. “Non ho mica detto di sì!” aggiunse prendendo a camminargli davanti, andando all’indietro e spalancando le braccia nell’aria. Ryouta lo guardò con un sopracciglio inarcato, piuttosto divertito, e a quel punto l’altro riprese a camminare normalmente accanto a lui, ruotando gli occhi al cielo. “Che ne dici di un gelato?” proposte Kise guardandolo di sottecchi, lui ricambiò prima di ammiccargli in risposta. Era un sì.

Non si curò del canale, del programma trasmesso: lasciò il primo e continuò a fissare lo schermo, pensando a tutt’altro.

A volte si domandava quanto fosse patetico l’andamento delle cose da quell’accaduto.

Il comportamento degli altri soprattutto.

Ripensò a quel giorno, lì seduto scompostamente.
Ci ripensò come se così potesse trovarvi il perché, come se studiandolo meglio potesse capire.

Ma niente: cosa c’era da comprendere?

Proprio niente.

E li sentiva quegli sguardi fissi sulla sua nuca, li sentiva pungere come aghi affilati.
Li sentiva bene e gli provocavano un tale voltastomaco…

Cosa? Era diventato un caso pietoso?

Non era lui in fondo ad aver subito qualcosa quel giorno, non era toccato a lui, il caso aveva scelto qualcun altro.
L’unico di cui davvero aveva bisogno per uscire dal suo stupido stato di shock, non c’era.
Volevano aiutarlo? Beh, non potevano.

Non erano capaci di fare miracoli dopotutto, no?

Perciò… Che lo lasciassero in pace, almeno loro.
C’erano già i continui ricordi a tormentalo, loro potevano anche risparmiarselo.

Gli bastavano le immagini nella sua testa ogni volta che chiudeva gli occhi.
Gli bastava riviverlo in ogni singolo istante.
Gli bastava rivedere quello sguardo, quelle mille emozioni che gli erano passate nelle iridi in un secondo.
Gli bastava, davvero.

Bastava quello a tenere sveglio dentro di lui il tormento, la sofferenza.

Ed era così insopportabile non riuscire a sfogarsi, dimenarsi, gridare al mondo come si sentiva davvero, liberare le lacrime.
Urlare fino a restare senza voce, distruggere tutto a pugni fino a farsi male.

Chissà se lo avrebbe aiutato a stare meglio.

Sarebbe rimasto così per sempre?
Con il dubbio?
Probabilmente.

Sarebbe finita prima o poi, no?
Così lo avrebbe perfino raggiunto, allora sì che sarebbe stato meglio.

Probabilmente lo avrebbe riempito di insulti l’altro, sentendogli dire qualcosa del genere.
Lo avrebbe distrutto con le sue mani.

Ma quella era la realtà.

“Potremmo restare a casa” suggerì stiracchiandosi sul divano, subito dopo sbadigliò e Kise scosse la testa di fronte al suo essere così pigro. “Sai” riprese però incatenando gli occhi blu nei suoi, serio. “Potremmo passare il tempo in qualche modo” disse, ghignando subito dopo e lanciandogli un’occhiata di intesa: Ryouta rise andandogli in contro e quello si spaparanzò meglio sul divano, occupandolo quasi tutto con le braccia spalancate sullo schienale. Ammiccò in modo spudorato al ragazzo che gli si era fermato di fronte. “Ma davvero? Tipo?” fece quello fintamente ingenuo, massaggiandosi con falsa noia la nuca e trattenendo vistosamente uno sbadiglio altrettanto fasullo. Aomine stette al gioco per poco, anzi, per niente, troppo impaziente per perdere tempo: “adesso ti faccio vedere” sbottò afferrandolo per la mano libera lungo il fianco e tirandolo verso di sé.

Si alzò ancora e senza voltarsi verso gli altri nella stanza, se ne andò nel bagno della loro sua camera.

Sembrava tutto così uguale in quella casa, eppure era tutto così diverso adesso.

Si chiuse dentro e si lasciò cadere sul bordo della vasca, per poi reggersi la testa fra le mani e scuoterla, sospirò piano quando sentì ancora il cuore martellargli nel petto mentre la sensazione di ansia si accentuava.
Non sapeva perché nonostante avesse riportato alla luce quei bei ricordi, ogni volta altri del genere totalmente opposto lo attaccassero all'improvviso facendogli smettere perfino di respirare.

Tutti giorni assai remoti, aveva ricordato.
Giorni passati in cui ancora erano ragazzini che non si preoccupavano di niente e che si godevano la vita senza molti problemi.
Giorni che lo avevano fatto sentire il ragazzo più libero e fortunato dell’intero pianeta.

Sembravano passati secoli, invece erano solo pochi anni.

Che sorrisi, che risate, che momenti.

Una mano scivolò giù fino a trovare il contatto con il ginocchio, l’altra continuò a stringere i capelli per tenere su la testa: quando alzò lo sguardo, si vide riflesso nello specchio sopra il lavandino e rimase immobile a fissarsi senza vedersi realmente.

Cosa avrebbe visto? Sofferenza palese, solo questo.
Un volto segnato dal dolore.

Le suo occhiaie accentuate marcavano gli occhi rendendoli quasi irriconoscibili, la sua espressione stanca era circondata dai suoi disordinati capelli neanche più curati come un tempo.
Era pallido come mai lo era stato prima e il volto era incavato profondamente.
Aveva perso dei chili? Molto probabilmente…

Fissava quella lastra di vetro perso nei suoi pensieri, affatto concentrato sulla sua figura riflessa.

Quante volte si era chiesto il perché di tutto ciò? Infinite.
Quante volte aveva pregato di svegliarsi improvvisamente di soprassalto e di scoprire di aver fatto solo un terribile, orrendo, incubo? Troppe.

Eppure era ancora lì, sembrava essere davvero la realtà.

Una realtà assurda, impossibile da ritenere vera.
Una realtà che non avrebbe mai accettato, per quanto gli altri quasi lo pregassero di farlo.
Una realtà che non valeva più la pena di vivere, ormai. 

Cosa avrebbe fatto da quel momento in poi? Per quale assurdo motivo? Per chi?
Non ne valeva più la pena.

Sentì quell’insopportabile sensazione di stretta allo stomaco che quasi gli fece venire voglia di vomitare.
Sensazione che, tra l’altro, ormai era diventata di routine, eppure non vi si era ancora abituato.

“Aah diamine!” sbottò Aomine, esasperato come al solito quando si ritrovava in quelle situazioni non nuove “è insopportabile quel Bakagami!” si rigirò nel letto più volte apparendo davvero scocciato e a Kise spuntò un sorrisetto divertito. “Dai, mi ha solo riattaccato il telefono, Aominecchi” per poco non rise della sua espressione, lui parve guardarlo con un evidente ‘appunto’ stampato in faccia. “Stavi parlando con Tetsu, che diamine c’entrava lui?!” lo scrutò con le mani incrociate dietro alla testa mentre quello tentava di districarsi dalle coperte, ora seduto in fondo al materasso, e scrollò le spalle. “Sai che è fatto così” si limitò a dire, godendosi la sua goffaggine post-arrabbiatura infantile. “Quel bastardo” continuò fra sé e sé l’altro. Ryouta sapeva – naturalmente – che non lo odiava davvero, quei due erano simili e sarebbero potuti diventare anche buoni amici. Forse lo erano già, sotto sotto. “Pensi di mandargli accidenti tutto il giorno?” lo riprese senza perdere il sorriso, Daiki si rabbuiò. “Tsk” quasi ringhiò fra i denti. “Nemmeno per sogno” rispose prima di tornare a sdraiarsi al suo fianco per approfittare di quella pace un altro po’, prima di alzarsi definitivamente.

E ancora si tirò su, sentendo improvvisamente la testa girare e il bisogno di andare altrove.

Per un attimo si avvicinò al lavandino e vi si poggiò, come fosse l’appiglio sicuro per non cadere, lanciò un ultimo sguardo al suo riflesso, poi tremolante uscì di lì, barcollando incerto.

Arrivò fino alla sua camera e vi si chiuse dentro, ignorando i mormorii degli altri due ancora in salotto a stimare chissà quale verdetto sulle sue condizioni e a decidere chissà quale altra sciocchezza per fare qualcosa.

Sorpassò il letto senza nemmeno guardarlo, non dopo l’ultimo ricordo che era riaffiorato nella sua mente.
Arrivò alla scrivania e senza neanche sapere perché o cosa farci, si accasciò sulla sedia.
Era piena di fogli, ancora bianchi e intatti o accartocciati, di penne, matite, tante cianfrusaglie che non avrebbe saputo dire da dove fossero sbucate, ma poco gli importava.

Per un attimo restò lì, fermo con lo sguardo perso nel vuoto di fronte a tutto quel caos che ormai gli era familiare, poi fu come se il suo corpo avesse iniziato a muoversi da solo: le sue mani afferrarono malamente uno dei numerosi fogli, l’altra una delle penne.

E poi scrisse.
Scrisse senza neanche pensare, fu la mano a muovere la penna, lui neanche se ne accorse.

Aomine

Una parola, un cognome.
Solo quello per il momento, niente di più, niente di meno.
Eppure non appena l’inchiostro cessò di macchiare lo sfondo bianco, lui parve accorgersi di quello che aveva fatto e rimase a contemplare quella semplice scritta, con un blocco in gola.

Qualche secondo dopo, la barrò. Quello dopo ancora, corresse accanto il suo errore.

Aomine Aominecchi

E ancora si perse di fronte a quella catena di lettere che si susseguivano l’una dopo l’altra.
Possibile che fossero così significative?

Ryouta sentì la testa scoppiargli solo nel leggere quel soprannome.

Il suo soprannome.

Ehi Aominecchi

Cancellò di nuovo, sentendosi incredibilmente stupido subito dopo averlo scritto.
Come se avesse potuto ricevere davvero una risposta…Che idiota.
Strinse la penna nella mano fino a far diventare bianche le nocche e fissò quella pagina quasi con terrore.
Ma che stava facendo? Stava proprio impazzendo.

‘Mi manchi’ formulò la sua mente: un secondo dopo era scritto nero su bianco.

Ma che gli prendeva? Ora non era neanche più padrone di se stesso.
Anzi, non lo era più già da un po’, ad essere sinceri.

Cancellò ancora.

Prima che potesse perdersi di nuovo fra i suoi pensieri, un nuovo stimolo arrivò al cervello.
Passò nella mano in un batter d’occhio.

Mi manchi Mi manchi da morire

Quasi si spaventò quando sentì un singhiozzo sfuggire al suo controllo e in un attimo la penna ricadde sulla scrivania. Si guardò le mani con occhi sgranati come se avesse appena commesso un crimine, dopo poco quelli presero a bruciare come da un po’ ormai sperava che facessero.
Quando la prima lacrima gli incise la pelle, marcandola, strinse i denti fino a sentire le orecchie fischiare, come se fosse timoroso di ciò che stava accadendo.

Il suo sguardo si posò nuovamente su quel foglio maledetto.

Aominecchi
Mi manchi da morire


Quando un altro singhiozzo si fece avanti, dovette premersi una mano contro la bocca pur di metterlo a tacere, quasi si morse le labbra pur di non sentire più quel suono.
E gli occhi… Gli occhi sgranati parvero in fiamme, tanto stavano bruciando.

Da quanto non sentiva quel nome? Da quanto non lo leggeva o diceva?
Da quanto non se lo ritrovava di fronte agli occhi in modo concreto, così da non potervi sfuggire?

Lo rilesse ancora e ancora, senza nemmeno volerlo: il suo sguardo vi si posava come se fosse attratto da una calamita e non potesse farne a meno, alimentando il fuoco dentro di lui.

E le lacrime stavano aumentando come un fiume in piena.

Dove erano state nascoste fino a quel momento?
Perché proprio adesso dovevano mostrarsi?

Si sentì frustrato per quell’ammontarsi assurdo di dolore che sentiva dentro, la gola bramava di liberare quell’urlo che teneva bloccato da tempo ma non gli avrebbe permesso di uscire.
La mano strinse la carne intorno alle labbra con furia mentre le lacrime la bagnavano incessantemente, con l’altra si aggrappò al piano in legno quasi fino ad affondare le unghie in esso.

E se gli altri lo avessero visto in quello stato?
Avrebbero cercato di nuovo di mandarlo da quello strizzacervelli buono a nulla?
Avrebbero continuato a tormentarlo ancora di più? Avrebbero detto anche al resto del gruppo di fare lo stesso?
Lo avrebbero guardato maggiormente con quegli sguardi colmi di pietà inutile? Dispiaciuti?

In tal caso non avrebbe resistito ancora a lungo a tutto ciò.

Sentiva il petto sull’orlo dell’esplosione, il respiro era ormai incontrollato e i singhiozzi e le lacrime si erano completamente liberati da tutte le catene che fino a poco prima li avevano trattenuti.

Spostò la mano dalla bocca, fino a stringere i capelli sulla nuca come se volesse strapparli via, le unghie dell’altra inchiodate alla scrivania come per tenersi fermo.
Chinò la testa e fissò il pavimento con occhi sgranati, vedendolo tremendamente sfuocato per il velo bagnato che gli ricopriva le iridi, un attimo dopo li strinse mordendosi il labbro inferiore con i denti pur di non farsi sentire e di non farsi sottomettere da quel dolore lancinante.

C’era una cura per quello? Ne dubitava.

La fitta che lo colpì dritto nel petto gli fece mozzare il fiato.

Perché avevano scelto lui? Perché glielo avevano portato via?
Diamine, quante volte se lo era chiesto.

Perché proprio Aomine? Perché proprio quel giorno si era dovuto far accompagnare fin laggiù?

Avrebbe dovuto andarci da solo, avrebbe dovuto guidare lui quella macchina.
Non si sarebbe dovuto far convincere da lui.

Mai avrebbe voluto vedere quella scena.
Mai avrebbe voluto vedere quel suo sguardo, anche se solo per un istante.
Gli aveva lacerato l’anima.
Si era sgretolata in mille pezzi.

Una frenata. Ruote estranee che scivolavano sull’asfalto.
Neanche il tempo di mettere in moto, mentre salutava il biondo che aveva appena accompagnato. 
Uno sguardo allo specchietto, un altro a lui giusto dopo aver realizzato, troppo tardi.

Già, troppo tardi.

Un piccolo istante che gli era sembrato un’eternità.

E poi lo schianto.
L’urto fatale.

Un corpo intrappolato fra le lamiere dell’auto.

E tutta una vita di progetti si era frantumata davanti ai suoi occhi.

Kise singhiozzò più forte ormai scosso da spasmi incontrollati, dopo che le immagini erano riapparse più vivide che mai nella sua mente. Il pianto quasi lo soffocò e la sofferenza che provava quasi lo uccise, come mani strette intorno al collo, come lamine affondate nel cuore.

Panico, ancora quel panico.
Così lo avevano chiamato, no? Dopo lo shock, c’era l’attacco di panico per lui.

Che idioti, attacco di panico?

Si chiamava dolore, si chiamava dolore tremendo, infinito, incontrollabile.

Il suo pugno si scontrò con rabbia contro la scrivania, mentre ormai, ancora a testa china e con la mano stretta sulla nuca, il controllo lo aveva abbandonato.

Un secondo dopo Seijuro e Shintaro erano dietro la porta chiusa, poteva giurarci.
Ma non sarebbero entrati, lui non voleva che entrassero.
Loro lo sapevano.

Sarebbe stato peggio se lo avessero fatto.
E lo lasciarono lì a sfogarsi, per quanto potesse farlo.

Cosa lo feriva ancora di più? Erano stati così vicini in quel momento.

E la cosa lo faceva così incazzare, diamine.

Come potevano pretendere che per lui fosse tutto okay?

E c’erano ancora così tante cose da dire, così tante da fare. Insieme.
E poi era finita.
Così, nel nulla, era svanito tutto.
Davanti ai suoi occhi.

Come sarebbe stato il loro futuro? Cosa sarebbe successo se ciò non fosse accaduto? Dove sarebbe stato in quel preciso momento se quel giorno fossero rimasti a casa?

Ma lui, per quanto continuasse a tormentarsi, non l’avrebbe mai potuto sapere.






{ HERE I AM }
Sì, dovrei studiare. Sì, semmai dovrei aggiornare o quella su death note o la long su knb.
No, non ho fatto niente di tutto ciò...
Non so da dove mi sia uscita questa cosa, comunque fra le mie OS è la più lunga.
Mi è venuta così, all'improvviso... Ma sono tre giorni che ci lavoro... Un po' alla volta. Stasera ho cercato di pubblicarla in tutti i modi perchè nei prossimi giorni sarò occupata.
Così... Beh! Spero sinceramente che vi sia piaciuta! Bramavo di scrivere qualcosa su di loro da moltissimo e finalmente l'ho fatto, giuro che la prossima volta sarà qualcosa di più felice.
Sarebbe anche l'ora, le mie os hanno bisogno di un pizzico di gioia, me ne rendo conto.
Vabbè, alla prossima! E spero di ricevere qualche parere positivo/negativo per capire se è stata apprezzata o meno!

Lawlietismine. 
  
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