La morte è dovunque la stessa. Ma
varia la vita, fino al momento della morte. Sulla maschera di un volto spento,
cerchiamo le tracce della vita vissuta; non è la morte, che ci fa paura nel
volto di un trapassato, ma la vita che lo aveva animato. È quella vita che noi
cerchiamo, che tentiamo di visualizzare, quella vita la cui assenza ci riempie
di paura.
Yehiel De-Nur, La
casa delle bambole, 1955
Se sei consapevole della morte,
essa non arriverà come una sorpresa, non ne sarai preoccupato. Percepirai che
la morte è esattamente come cambiarsi d’abito e, di conseguenza, in quel
momento riuscirai a mantenere la tranquillità mentale.
Tenzin Gyatso (Dalai Lama), La via della tranquillità, 1998
La via dalla morte alla vita e viceversa
Sherlock
si sveglia tre volte e altrettante si riaddormenta prima che lei passi a
trovarlo. Intorpidito dall’anestesia, impiega più tempo del necessario a riconoscere
l’ambiente che lo circonda. Una stanza d’ospedale. Genericamente bianca,
adeguatamente pulita, rigorosamente impersonale.
Oltre
le persiane abbassate della finestra, è notte inoltrata. Fredda, conferma la cute
pallida di Molly, arrossata là dove la borea l’ha morsa - guance e punta del
naso e orecchie.
Molly
è seduta rigidamente sulla scomoda poltroncina di plastica. Ha le braccia
raccolte attorno al busto, alla borsa che tiene sulle ginocchia.
Non
dorme, anche se le palpebre sono chiuse. Le ciglia fremono, sono umide di
lacrime fresche. Le spalle non sussultano, ma devono averlo fatto.
Sherlock
decide di ignorare l’evidenza di ciò che osserva.
Deve
avere completato il suo turno da poco. Non è tornata al suo appartamento. Non ha
avuto modo di farsi una doccia o cambiarsi. Sa ancora di formaldeide, oltre
l’odore superficiale del sapone al limone che utilizza per coprirla. Sotto
entrambi c’è la fragranza di lei, peculiare ed esclusiva. Qualcosa che combina alcuni
dei suoi aromi preferiti.
Caffè. Quello che ha bevuto
appena prima di entrare.
Agenti
chimici. Quelli
del fissativo che viene iniettato nelle salme. Alcool. Glicerina. Formalina. Acido
fenico. Acetato di potassio. Nitrato di potassio. Cloruro di sodio.
Lavanda.
“Hai
intenzione di fingere di non notarmi ancora per molto? È una pratica inefficace.
Non saresti qui se non fosse per me, il che implica che tu abbia già preso atto
della mia presenza.”
Un
altro minuto. Nessun cenno, nessuna risposta.
Sherlock
rotea gli occhi che zigzagano, perlustrando la camera e che ritornano dopo un
istante sul punto focale che è la figura a colori di lei. Il resto dilata, forma
un contorno trascurabile di grigio e piattezza comune.
“È
un modo come un altro per dare sfogo alla rabbia?”
Interrogativo
inutile. Sherlock ne riconosce lo squallore mediocre.
Ciò
nonostante sarebbe quantomeno gradito che Molly mostrasse un minimo di
partecipazione. Qualcosa che non sia il lieve corrugamento di sopracciglia che ha
seguito le sue parole.
Invece
del brusio delle sue chiacchiere o anche dei suoi pensieri mulinanti - opzioni
più che gradite a paragone -, in questa occasione Molly gli oppone la forza
puntigliosa del suo silenzio.
Un
silenzio effimero che grida e stride, dato il contesto.
“Lo
sciopero del silenzio di Molly Hooper.”
Un
altro sbuffo. Sherlock picchietta con fastidio crescente le dita contro le
sbarre del letto. “Molly”, la richiama, impaziente.
Lei
finalmente lo degna di un’occhiata. Ed è fugace e turbata come quella di un animale
imprigionato e ingannato, poi acquisisce spessore, una sua consistenza.
“Sta’
zitto, Sherlock”, ordina, brusca, alzandosi di scatto. Sembra che stia
soffocando; è in iperventilazione. “Sta’ zitto, okay? Dammi solo un attimo. No,
anzi, non farlo. Parla pure quanto ti pare. Lo preferisco.”
Si
sposta su e giù per la stanza, agitata, tracciando ampi cerchi nel ricircolo d’aria.
Tiene le mani premute sul viso, ma non sta piangendo. È uno spettacolo
spiacevole e impietoso di cui, dopo anni di conoscenza reciproca, è in grado di
distinguere i sintomi – si manifestano di rado.
“Cosa
c’è che non va, Molly?”
Lei
si volta con un’espressione sbigottita e rabbiosa al contempo.
Molly
non è mai netta nei sentimenti. Il suo provare
è un mare agitato, smanioso e turbinante. “Sono terrorizzata”, dice e inghiottisce
a vuoto una, due, tre volte. Con voce rotta, aggiunge: “Stavi per morire.”
Sherlock
solleva un angolo di bocca in un sorriso disarmonico e disagevole, si indica con
platealità, ma la voce rimane arrochita, se ne rende conto, così come ha
coscienza del fatto che le sue percezioni risultino stordite e lente. “Come
vedi non mostro nessuno tra i principali fenomeni abiotici, inclusa la triade del
Bichat. Temo che dovrai rinviare l’esame post-mortem. Certo, un trauma
balistico sarebbe stato-”
Sherlock
si interrompe, confuso.
Come e quando è successo? Ma soprattutto: per quale sacrosanta ragione?
Fatto
sta che Molly, l’imprevedibilità fatta a persona nella figura insospettabile della
prevedibilità, Molly ora lo sta abbracciando con l’impeto e il furore di una
vecchia emozione.
Le
braccia le tremano tanto che lui considera un miracolo che la ferita chirurgica
non si sia già riaperta.
Sherlock
è tentato di farglielo notare. Un pensiero formulato nell’istante successivo lo
frena. La reazione di lei sarebbe scontata. Si tirerebbe indietro, lo lascerebbe
andare, trattandolo come epidermide ustionata dal fuoco.
Incerto,
le sfiora la nuca con il pollice e l’indice, percorre la porzione di pelle morbida
tra l’attaccatura dei capelli e il retro del collo in una carezza calma, che ha
fiducia essere rassicurante. Non si lascia sfuggire un verso. Molly sarebbe fin troppo rapida a
fraintenderlo.
Il
suo naso e la bocca, contro la clavicola, respirano piano, trattenuti dalla
volontà di lei di non provocargli dolore.
“Non
sono morto.”
Davvero,
è la serata delle ovvietà desolanti.
Molly
sfrega la fronte contro il camice. “Non sarei dovuta entrare”, la sente
bisbigliare. “Non sono in me.”
Rimangono
così per un tempo incalcolabile: Molly ferma sul bordo del letto, la faccia
affondata nella sua spalla; Sherlock che le massaggia l’arco percepibile delle
vertebre nella schiena incurvata, respirando in linea retta da lei che li emana
tutta la serie di fragranze che maggiormente apprezza.
“È
solo per questo?” domanda con una sottile, perniciosa irritazione.
Molly
si scosta. “Solo?” chiede in tono severo.
Sherlock
la fissa gravemente. Ora che la sua mano è tornata vuota e disimpegnata,
assomiglia a un’appendice strana e amorfa contro il tessuto delle lenzuola. “Non
mi hai perdonato.”
Molly
non si dà pena di smentire. “Sai che significato hanno per me le droghe. Inoltre
lo avevi promesso,” lo affronta franca, dura. “No, lo avevi giurato.”
“Lo
ricordo bene.”
“Non
è da te rompere una promessa, altrimenti non sprecheresti tempo a farla. Che
genere di caso stai seguendo?”
Brillante. Davvero brillante.
Sherlock
non contesta, non adduce attenuanti.
“Deve
trattarsi di un caso pericoloso”, persevera Molly. “Uno di cui non puoi o non
vuoi parlare. O entrambe le cose. Ed è un caso per cui ti sei fatto sparare.”
Alla
riconoscibile vena di accusa e preoccupazione nella voce di lei, Sherlock reagisce
con un moto di dispetto. Molly non ci bada. Continua i suoi ragionamenti a testa
bassa, concentrata. “John deve esserne al corrente. Era sul posto con te. Non
ha voluto dirmi nulla. Questo dimostra che oltre ad essere un caso rischioso minaccia
indirettamente anche noi, il che lo rende ancora più problematico per te. Quando c’è in ballo la sicurezza
dei tuoi amici diventi avventato e no, non azzardarti a dire il contrario.”
Non
ne aveva il proposito.
Molly
sospira, si passa una mano sul viso. Contrae i muscoli delle spalle e si morde
le labbra, nel ritratto che dovrebbe appartenere al dubbio. Alla fine, come se
le costi un certo sforzo e una buona dose di audacia, si allunga di nuovo verso
di lui.
Sherlock
si limita a fissarla, senza muoversi.
Molly
lo sonda con uno sguardo preciso, schietto. Poi con delicatezza, piano, gli depone
un bacio sulla guancia. È un bacio tiepido, che racconta molto della notte
esterna che tra poco dovranno affrontare separatamente.
Quindi
si alza, prende la borsa dal pavimento e la sciarpa variopinta dalla
poltroncina su cui l’ha appoggiata.
“Non
hai intenzione di chiedermi di abbandonare il caso?”
Molly
si volta per rivolgergli un ultimo scorcio della sua espressione da giocatore
di dama. “Lo faresti?”
Non
gli da possibilità di replica. È già uscita, lasciandosi dietro uno, dieci
profumi e l’eco sfuggente di quello che ha detto.
Molly Hooper. La trasposizione
di tutto ciò che non è anodino.
“Quando si ama qualcuno
si fanno tante cose che in circostanze diverse non ci si sognerebbe mai di
fare. Gli schiaffi che ti ho dato lo dimostrano. A presto Sherlock. Spero
davvero che tu ti rimetta il prima possibile.”
N/a:
La
leggo, la rileggo, cancello metà delle frasi, le riscrivo dapprincipio. Provo a
fare tabula rasa. Non ci riesco. Si è fossilizzata questa immagine nella testa
e non si scolla, non spianta le sue radici. Ormai è attecchita.
E
la voce di Sherlock mentre pensa: “Clever, really clever”, durante le deduzioni
di Molly. (Sì, l’ho pensata in inglese e ho dovuto tradurla nella penosa traslitterazione:
Brillante, davvero brillante, che non
rende neanche la metà dell’originale.)
L’ultima
scena è emblematica e tributa, spero almeno in piccola parte, a Molly la reale
portata di ciò che prova per Sherlock. Molly lo ama e lo ammira per la sua mente
analitica, la sua capacità intuitiva, l’inusitata intelligenza matematica e
certosina. Stima il suo lavoro e malgrado la preoccupazione non gli chiederebbe
mai di abbandonare un caso. Di essere prudente? Di prestare maggiore attenzione?
Di agire con cautela? Certo. Ma rinunciare all’adrenalina e al brivido della
caccia? Sarebbe come privare d'acqua un assetato, equivarrebbe a togliergli il
sangue dalle vene. Sarebbe come chiedere a Sherlock di non essere Sherlock.
Molly
lo sa e per questo non si sognerebbe mai di farlo. Una cosa è essere arrabbiati
per la poca cura che ha di se stesso, un’altra è sgridarlo per la sua predisposizione
a fare cose pericolose e potenzialmente mortali. La prima riguarda la sua
salute, la seconda non dipende solo da lui. È il suo lavoro e il suo lavoro
prevede avere a che fare con soggetti complessi.