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Autore: Fragolina84    08/02/2014    0 recensioni
Megatron ha un nuovo piano: impadronitosi di un'immensa fonte di Energon, sta cercando di distruggere tutto quello rimasto. E ha tra le mani un'arma potente, un virus in grado di piegare anche gli Autobots.
Per combatterlo serviranno coraggio, sacrificio e un'antica Reliquia aliena.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bumblebee, Nuovo personaggio, Optimus Prime
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando arrivarono a Diego Garcia, Bumblebee assicurò che si sentiva benissimo e che non aveva bisogno di cure. Destiny non gli badò neanche. Usando una delle potenti lampade a luce bianchissima controllò ogni centimetro di carrozzeria, in cerca di un segno rivelatore che alla fine, purtroppo, trovò sul parafango posteriore sinistro. Era una minuscola macchiolina color ruggine: era davvero piccolissima, ma non doveva trovarsi lì.
Destiny chiamò immediatamente Lennox e Optimus, illustrando loro la situazione. Bumblebee fu subito messo in ricarica e tutti poterono notare che la macchia sparì, lasciando solo una leggera traccia opaca sul metallo lucido.
Il mattino seguente, quando staccarono Bumblebee dalla fonte di Energon, la macchia ricomparve, insieme ad altre due più piccole. L’Autobot fu subito ricollegato all’Energon: ma stavolta scomparvero soltanto le due macchie più piccole, quelle che si erano appena formate. La prima rimase.
Quando Heaven venne a saperlo chiamò Destiny ed entrambe uscirono.
«Dobbiamo fare qualcosa» esclamò. Sembrava strano a dirsi, ma Heaven era innamorata di Bumblebee. A questo si aggiungeva che si sentiva in colpa per ciò che era successo: Bee era intervenuto per salvarla e si era beccato un colpo che era destinato a lei.
«Non so come fare ad aiutarlo» rispose sconsolata Destiny. I tecnici erano ancora al lavoro sui resti di Elita One ma con scarsissimi risultati. «L’Energon al momento sembra riuscire a tenere a bada il virus».
«E quando non sarà più sufficiente?» chiese Heaven e Destiny tacque. «Non posso permettere che Bee…» proseguì l’Autobot rosso, senza riuscire a finire la frase con le terribili parole.
«Che proponi?» domandò Destiny. Anche lei era preoccupata per Bumblebee, ma per quanto si fosse scervellata, non aveva trovato soluzione.
«Andiamo a cercare l’antidoto».
Destiny ricordava bene il colloquio avuto con Seymour, prima che i Decepticons attaccassero in Africa. E ricordava anche che Brains aveva identificato quattro probabili siti.
«Non sappiamo nemmeno dove sia con certezza. Non vorrei che fosse solo una mera leggenda» replicò Destiny.
«Io non starò con le mani in mano. Se non vuoi venire con me, andrò da sola» sbottò Heaven e si voltò per andarsene.
Ma Destiny la fermò. «Aspetta! È ovvio che vengo con te, sciocca. Volevo solo dire che non sarà facile, non che non ci proveremo».
Heaven si rabbonì e la ragazza riprese la parola. «Devo parlare con William perché ci organizzi la cosa».
Destiny andò subito a cercare William che era al telefono con il generale Morshower. «Ti devo parlare» sussurrò, ma lui fece cenno di no con la testa.
«È molto urgente» insistette e lui le fece cenno di andare ad aspettarlo nel suo ufficio.
Quando entrò, Destiny stava versando il caffè per entrambi.
«Che succede?» domandò lui preoccupato. «Bumblebee è peggiorato?»
«No, per il momento è stabile» replicò, porgendogli la tazza. «Ma Heaven è in ansia e anche io».
«Leggo nei tuoi occhi che voi due avete avuto un qualche tipo di idea. E la cosa, te lo confesso, mi spaventa» sogghignò William, bevendo un po’ di caffè che quasi gli andò di traverso alla successiva affermazione della donna.
«Io e Heaven andremo a cercare l’antivirus».
Non era una richiesta. L’aveva semplicemente informato della cosa.
«È escluso. Stiamo organizzando un team e saranno i miei uomini ad andare. Non certo tu» sentenziò. Ed era il colonnello Lennox a parlare, non William. Ma non aveva di fronte una ragazzina di dodici anni.
«Un team? Per fare in modo che Megatron si accorga che stiamo seguendo una pista?»
Lennox sorvolò sul suo tono sarcastico. «Un team per riuscire a portare a casa quella reliquia che, vista la situazione di Bee, ha un valore inestimabile».
Destiny scosse la testa. «Stammi a sentire: se fai muovere i tuoi uomini, i Decepticons in qualche modo verranno a saperlo. Capisci cosa succederebbe se Megatron la trovasse per primo?»
Lennox non rispondeva, perciò Destiny lo incalzò. «Io e Heaven possiamo muoverci dappertutto senza difficoltà, passando inosservate. Possiamo arrivare nei luoghi indicati da Brains e cercare in giro senza timore di essere scoperte».
In cuor suo, Lennox cominciava a pensare che l’idea di Destiny fosse sensata. Ma non voleva mandarla via, soprattutto non da sola. Si era abituato ad averla attorno: rientrare nel suo miniappartamento e trovarla ad attenderlo era piacevole. Destiny era una compagnia perfetta e avrebbe mentito a se stesso se non avesse ammesso di essersi affezionato a lei. E forse non era solo affetto ciò che provava, ma non sapeva – o non voleva, almeno per il momento – dare un nome alla sensazione di benessere che provava quando stava con Destiny.
Destiny interpretò il suo silenzio come indecisione e proseguì. «Per quanto mia madre potesse essere pazza, aveva previsto che io sarei stata una risorsa nella guerra con i Decepticons. Beh, io ci sono dentro ora e non posso e non voglio stare in panchina a guardare».
«Va bene» mormorò Lennox. Destiny stava per proseguire nella sua tirata sicché rimase spiazzata dalla sua arrendevolezza. Ma lui smorzò subito il suo entusiasmo. «Ma non da sola. Vengo con te».
«Non dire sciocchezze!» sbottò lei. «Sei il comandante. Non puoi perdere tempo a girovagare per il mondo con me» evidenziò, nonostante la prospettiva di averlo vicino la allettasse non poco. «Che cosa succederebbe se il nemico attaccasse di nuovo mentre siamo via?»
«Hai ragione, ovviamente» prese atto lui. «Allora manderò con te alcuni dei miei uomini» concluse.
«Proprio non mi ascolti quando parlo, vero? La discrezione è d’obbligo. Se ci muoviamo in troppi, Megatron capirà che abbiamo più informazioni di lui e tanto noi quanto la reliquia saremo in grande pericolo. Io e Heaven sapremo cavarcela, come abbiamo sempre fatto».
Di nuovo, la ragazza aveva ragione. Ma Lennox non voleva mollare. «Allora verrà Simmons con te». Destiny stava per obiettare di nuovo, ma lui alzò una mano. «Non dire altro! È la mia ultima offerta».
La donna sorrise. «Ti senti più tranquillo a mandarmi in giro con quello svitato di Simmons?» chiese in tono sarcastico.
«Accontentami, per favore» mormorò e lei acconsentì.
Lennox chiamò Simmons e dedicarono l’ora successiva a pianificare la missione. Era fondamentale che Heaven partisse con Destiny, ma ciò comportava l’utilizzo di uno dei C17 dell’esercito.
«Non crederai che io mi lanci con il paracadute, vero?» chiese lei inorridita e Lennox scoppiò a ridere davanti alla sua espressione.
«No, niente paracadute. Vi faremo atterrare da qualche parte, il Nest non ha problemi in questo senso». Girò lo schermo del computer verso di lei e le mostrò la mappa satellitare. «Seguiremo l’ordine stabilito da Brains: Sudamerica poi Inghilterra ed Egitto. Anche se spero che non sia necessario visitare tutti e quattro i luoghi».
Quando ebbero finito, William si alzò in piedi. «Direi che velocità e riservatezza sono fondamentali. Perciò partirete fra due ore, tempo che mi sarà necessario a far caricare il C17 e a farvi organizzare il volo nel dettaglio».
Un’ora e quarantacinque più tardi Destiny si avvicinò alla Camaro gialla che era sempre collegata all’Energon. Sapeva che Heaven si era già congedata da Bee e gli aveva spiegato cosa avevano intenzione di fare. Posò la mano sul cofano dell’auto sportiva.
«Cercheremo di tornare il prima possibile» mormorò.
«Fate… attenzione» rispose l’Autobot con le sue frasi a metà rubate alla radio.
Destiny sorrise e batté delicatamente la mano sulla carrozzeria lucida. «E tu sta tranquillo e goditi il riposo».
Poi si girò e raggiunse William che stava aspettando alla porta dell’hangar, in compagnia di Optimus. Il gigante di ferro si inginocchiò accanto a lei: «Volevo ringraziarti a nome di Bumblebee e di tutti gli Autobots per quello che stai facendo».
Destiny si strinse nelle spalle. «Non è nulla di speciale» minimizzò, ma Optimus scosse la testa.
«La prima volta che ti ho vista, ho detto che hai coraggio. Adesso che ti conosco, lo confermo al cento per cento».
La donna chinò la testa per ringraziarlo.
«Buona fortuna» augurò Optimus a lei e Heaven e si allontanò, lasciandola sola accanto a William.
Sulla base Diego Garcia era in corso un furioso acquazzone e i due rimasero per qualche istante ad osservare la fitta pioggia che batteva sulla pista. A una decina di metri di distanza, il C17 Globemaster aspettava solo Heaven e Destiny, la rampa di carico abbassata. Non potevano vedere al suo interno perché era parcheggiato di traverso rispetto a dove si trovavano loro, ma sapevano che Simmons, Brains e Wheelie erano già imbarcati.
Lennox ruppe finalmente il silenzio. «Voglio essere informato di ogni sviluppo» disse, più bruscamente di quanto avesse voluto, solo per mascherare la mancanza che già sentiva di lei.
«Me l’hai già raccomandato un’infinità di volte». Destiny si voltò verso di lui. «Non hai nulla da dirmi che io non sappia già?»
Sì, c’era. Voleva dirle che non voleva che partisse, ma non poteva farlo. Dalla missione di Destiny dipendeva la sopravvivenza stessa degli Autobots e, di conseguenza, anche di tutti loro. Voleva dirle che era preoccupato che potesse trovarsi in pericolo, ma non poteva fare nemmeno quello. Non aveva prove di quella sua sensazione e Destiny sapeva il fatto suo e non partiva allo sbaraglio: Heaven e gli altri l’avrebbero protetta. Voleva dirle che gli sarebbe mancata, perché già sentiva acutamente il senso di vuoto che avrebbe lasciato dietro di sé, ma non poteva farlo. Dirle una cosa del genere sarebbe stato come ammettere che lui forse si stava…
Perciò non disse nulla di ciò che gli passava per la testa e rimasero immobili a fissarsi occhi negli occhi, almeno finché il motore di Heaven ruggì fuori giri e la Camaro rossa uscì dall’hangar, verso il C17 in attesa. Destiny sorrise mestamente.
«Heaven ha fretta di partire» constatò, mettendosi lo zainetto su una spalla.
«Fa’ attenzione» mormorò lui, arginando il fiume di parole che invece voleva dirle.
Destiny rise. «Già detta anche questa!» esclamò. Poi si fece seria. «Grazie di tutto, ma soprattutto di aver creduto in me. Ci sentiamo presto». Tirò su il cappuccio della tuta, girò sui tacchi e corse sotto la pioggia per raggiungere il cargo.
Era quasi arrivata sotto l’enorme sezione di coda quando William capì che non poteva lasciare che partisse così. «Destiny!» la chiamò e la sua voce, abituata a gridare ordini nel fragore dei combattimenti, giunse fino a lei che si fermò. Si voltò e rimase sotto la pioggia, strizzando gli occhi per proteggerli dalla pioggia.
Lennox le stava correndo incontro e pensò che avesse dimenticato di dirle qualcosa. Ma quando le fu vicino, William la prese per i fianchi, l’attirò a sé e, chinando il capo, la baciò. Destiny non se lo aspettava, ma rispose al bacio con tutto il trasporto accumulato nell’attesa che lui si sbloccasse. Lasciò cadere lo zainetto sull’asfalto allagato e intrecciò le braccia dietro la nuca dell’uomo, stringendosi a quel corpo solido e muscoloso. Incuranti del fatto che si stavano infradiciando fino alle ossa, continuarono a baciarsi.
William pensava che si sarebbe sentito in colpa per quel bacio, ma tutto ciò che provava era un grande senso di liberazione. Sentì nella propria testa la voce di Sarah: «Sii felice». Sì, ora poteva esserlo. E allora la baciò con più passione, stringendola a sé, mentre la pioggia scendeva sui loro corpi avvinghiati.
Quando si scostò, lei lo tenne stretto. Aveva le palpebre serrate, le folte ciglia quasi aggrovigliate, e i capelli neri che gocciolavano sulle spalle, ma sorrise sulle sue labbra.
«Non potevi deciderti due minuti fa? Avremmo evitato la doccia» mormorò e aprì gli occhi.
«Scusami. Solo quando ti ho vista andare via, mi sono reso conto che non potevo assolutamente lasciarti andare in quel modo».
«Sono contenta che tu ti sia finalmente deciso» sussurrò, e gli sfiorò di nuovo le labbra con le proprie.
Dietro di loro, Heaven fece rombare di nuovo il propulsore, ma con meno rabbia di prima. Destiny si voltò, restando nel cerchio delle braccia dell’uomo. «Penso che sia meglio andare ora».
«Mi mancherai» sussurrò lui e si meravigliò di quanto facilmente gli uscissero quelle parole.
«Anche tu» rispose la donna, sciogliendo l’abbraccio.
«Promettimi che tornerai presto da me. Promettimi che tornerai sana e salva tra le mie braccia».
«Te lo prometto. Il prima possibile. Ma finché non mi lasci andare…»
Con un sorriso di scuse, William la lasciò. La giovane raccolse lo zainetto e lo rimise in spalla. Fece per voltarsi ma poi, come per un ripensamento, si gettò di nuovo fra le sue braccia e, alzandosi in punta di piedi, lo baciò. Infine, senza lasciargli il tempo di dire altro, raggiunse Heaven e insieme sparirono nel vano di carico dell’aereo militare.
 
A bordo della Camaro c’era un silenzio teso. Destiny era al volante e Seymour le era seduto accanto, mentre Wheelie e Brains erano sul sedile posteriore.
La tensione che riempiva l’abitacolo era dovuta ai due insuccessi precedenti. I due siti visitati in Messico e Perù si erano rivelati degli assoluti buchi nell’acqua. Spreco di tempo e denaro americani, come aveva sottolineato Simmons.
Non era ovviamente colpa loro. Ma stavano perdendo tempo e non ne avevano. Avevano frugato quei luoghi in lungo e in largo, ma senza alcun risultato. Il problema era che non sapevano nemmeno cosa cercare perché le informazioni in loro possesso erano poche e lacunose.
Destiny lanciò un’occhiata a Brains dal retrovisore. «Qualche novità, Brains?»
Dopo che erano atterrati in Inghilterra, aveva chiesto al piccolo Autobot di provare a cercare di nuovo o di incrociare i dati in maniera diversa per vedere se saltava fuori qualche novità. Brains scosse la testa e la ragazza sbuffò.
«Non so, forse stiamo prendendo la cosa dalla parte sbagliata».
«Le informazioni che avevamo erano troppo approssimative. Ma non abbiamo finito di cercare e sono fiducioso».
In quel momento Heaven avvertì che c’era una chiamata di Lennox in arrivo.
«Ciao Will» lo salutò Destiny.
Dopo il saluto che si erano scambiati prima della partenza da Diego Garcia di due settimane prima, lei e Will non avevano più avuto modo di parlare da soli, tanto che la donna cominciava a pensare di essersi immaginata tutto. Ma poi risentiva il sapore delle sue labbra e la stretta delle sue mani sui fianchi e rivedeva quegli occhi, fissi nei suoi. E non vedeva l’ora di tornare alla base Nest. Eppure, nella sua felicità, non poteva scordare la difficile situazione in cui si trovavano.
«Come sta Bumblebee?» domandò, ben sapendo che Heaven aspettava con ansia quel momento giornaliero.
«La situazione non è diversa da ieri. L’Energon sembra tenere ancora a bada il virus».
Destiny sapeva che il virus si stava lentamente diffondendo sulla carrozzeria gialla di Bumblebee perché Lennox le aveva mandato un’e-mail con un paio di foto. Le macchie di ruggine erano ancora contenute, ma si stavano propagando su tutta la parte posteriore. Secondo i tecnici, la diffusione era più lenta di quanto non lo fosse stata con Elita One in quanto Bee era stato colpito di striscio, mentre la femmina era stata colta in piena Scintilla.
«Voi a che punto siete?» chiese il colonnello.
In quel momento, Seymour indicò qualcosa sulla sinistra. Destiny annuì.
«Siamo appena arrivati in vista di Stonehenge».
In mezzo ai campi verdissimi, il famosissimo sito monolitico s’innalzava dalla fitta nebbia. I giganteschi blocchi di pietra grigia sembravano nascondere un segreto che ancora non era stato svelato.
«Bene. Tenetemi aggiornato» ordinò e li salutò.
Destiny parcheggiò a bordo strada e tutti scesero. In giro, fortunatamente non c’era anima viva. La donna era rimasta sinceramente stupita dell’influenza del Nest: in ogni luogo che avevano visitato erano stati liberi di girare a loro piacimento e anche a Stonehenge non c’erano nemmeno gli inservienti che solitamente badavano al sito.
Era una giornata umida e fredda e Destiny sollevò il colletto della giacca. C’era un’atmosfera magica e vagamente inquietante che pervadeva quel sito. Molto più di quelli che avevano visitato in Sudamerica. Forse era soltanto suggestione dovuta al tempo, ma evidentemente dovevano avvertirlo anche Seymour e i due piccoli Autobot perché, stranamente, erano tutti molto silenziosi.
Entrarono nel cerchio di pietre antiche – tutti meno Heaven che, in forma di Camaro, rimase all’esterno – e cominciarono a guardarsi intorno. Non c’era molto eccetto i grandi monoliti grigi che avevano resistito a chissà quanti secoli.
Rimasero per oltre un’ora nel sito, osservando da vicino le pietre e cercando indizi sulla presenza della reliquia. Ma non trovarono nulla e, demoralizzati, si riunirono al centro del cerchio di pietre interno.
«Non c’è nulla nemmeno qui» borbottò Wheelie.
Seymour guardò il cielo. «Non abbattiamoci. Si sta facendo buio. Torneremo domani e verificheremo con maggiore attenzione».
Destiny annuì. Si avviarono mestamente per raggiungere Heaven, ma Destiny si bloccò all’improvviso, fissando una delle pietre. Quando Seymour se ne accorse, le si avvicinò.
«Che succede?» domandò, ma lei non rispondeva sicché girò lo sguardo nella stessa direzione. Destiny stava fissando una pietra come ce n’erano a tante altre, ma poi Seymour si accorse che c’era una runa incisa su quel masso. Era una specie di mezzaluna orizzontale, sormontata da un disco rotondo. Nella parte inferiore era disegnata una specie di croce, con il braccio orizzontale molto più corto dell’altro. C’erano altre rune disegnate sulle rocce, ma quella sembrava aver attirato l’attenzione di Destiny.
«Quel simbolo» sussurrò «io lo conosco».
Ricordava che da bambina, quando ancora non sapeva leggere e scrivere, disegnava quel simbolo dappertutto. Anche ora, se era soprappensiero con davanti un foglio e una penna, capitava spesso che riempisse la carta con quello stesso disegno.
«Conosci davvero quella runa?» chiese Seymour ma lei non diede segno di averlo udito.
Si avvicinò alla pietra e tese la mano. Quando fu ad un paio di centimetri dalla superficie incisa, il simbolo si illuminò di un bagliore argenteo. Spaventata, Destiny ritrasse la mano, ma anche Seymour aveva notato lo strano fenomeno.
«Mio Dio!» esclamò. «Forse abbiamo trovato qualcosa».
Lentamente, Destiny avvicinò di nuovo la mano e il bagliore ricomparve. La donna esitò solo un attimo poi toccò la runa con la punta delle dita. La strana luce cessò improvvisamente e, con un rombo, la terra tremò leggermente. Heaven, che era ancora fuori dal cerchio di pietre, si trasformò.
«Presto, venite!» gridò e tutti si affrettarono a raggiungerla.
Ciò che videro li lasciò a bocca aperta. Nel terreno, appena fuori dal cerchio di massi, si era aperta una grande cavità scura, talmente grande che Heaven avrebbe potuto passarci senza problemi. Una serie di ripidi scalini di pietra scendeva nel sottosuolo, talmente in profondità che nemmeno i fanali di Heaven riuscivano a farne scorgere il fondo.
«Abbiamo trovato molto più di qualcosa» mormorò Simmons.
«Che facciamo? Scendiamo?» chiese Destiny, timorosa. Era ancora molto scossa da ciò che era successo dopo che aveva toccato la runa. Sentiva che c’era qualcosa di più, qualcosa che le sfuggiva. E aveva paura di ciò che avrebbe scoperto.
«Certo che scendiamo!» rispose Seymour.
«E se fosse una trappola?» chiese Wheelie.
«Non abbiamo tempo per pensarci. Se lo fosse, comunque, lo scopriremo presto».
«Vado avanti io» disse Heaven.
Cominciarono a scendere lentamente. Quando furono a metà della scalinata, mentre il fondo ancora non si vedeva, la botola che si era aperta nel terreno si richiuse, sigillandoli dentro.
«Adesso sembra un po’ più una trappola» bofonchiò Wheelie. Ma non c’era molto che potessero fare se non continuare a scendere e sperare che ci fosse un’altra via d’uscita o un modo per riaprire la botola.
Destiny contava gli scalini man mano che scendevano e quando arrivò a cento, il pavimento si spianò. Valutando in una ventina di centimetri l’altezza media degli scalini, erano scesi venti metri sotto la superficie. Era un’opera grandiosa e si fermarono un attimo a valutarla.
Seymour puntò la torcia sul muro. «È opera degli alieni. Vedete le incisioni sulle pareti?»
Tutto il muro era infatti costellato di glifi alieni, simboli di Cybertron.
«Chissà da quanti anni i Transformers si nascondono tra noi. Chissà quante delle nostre opere monumentali hanno costruito» mormorò Destiny in tono reverente.
«Proseguiamo» disse Brains. «La cosa promette molto bene».
Si avviarono lungo quel gigantesco corridoio, largo almeno cinque metri e alto otto o dieci metri. Heaven conduceva, avanzando cautamente, usando i fanali per illuminare davanti a sé.
Finalmente scorsero una luce. Non era luce solare, ma una luminescenza azzurrina quasi ultraterrena che disegnava un rettangolo, una sorta di porta, davanti a loro.
«Fermi!»
Una voce cupa riecheggiò nel corridoio e tutti istintivamente si bloccarono. Wheelie si strinse contro la gamba di Destiny.
«Mostraci chi sei» rispose Heaven, sfoderando il suo cannone.
Qualcuno, o qualcosa, si stagliò nell’apertura. Per un attimo non riuscirono a scorgere molto, ma appena i loro occhi si furono abituati, lo videro. Era un Transformer, nella sua protoforma. Era di poco più piccolo di Heaven nella sua forma robotica e non sembrava avere atteggiamenti bellicosi.
Fece un passo avanti, verso di loro e Heaven si agitò inquieta.
«Chi di voi ha aperto il Passaggio?» domandò.
«Io» rispose Destiny. Si fece avanti, sfiorò la gamba di Heaven e la invitò ad abbassare le armi. «Sento che è ok» sussurrò.
Si avvicinò con prudenza al Transformer che la fissò per un momento prima di piegare una gamba e inginocchiarsi davanti a lei. Il gesto era così inusuale che tutti rimasero immobili.
«È un onore, dopo tanti secoli, inginocchiarmi davanti a te. Sono felice che tu mi abbia finalmente trovato».
«Non capisco» mormorò Destiny.
Il Transformer sconosciuto si alzò e la invitò a seguirlo oltre la soglia illuminata.
Furono introdotti in una grande camera circolare. Il bagliore azzurrino che avevano visto proveniva da una struttura centrale, una specie di altare su cui galleggiava qualcosa.
«Chi sei tu?» chiese Destiny.
«Io, mia signora, sono il Custode».
L’enormità di quella rivelazione li lasciò tutti senza fiato. Significava che la leggenda era vera e che erano davvero arrivati alla Reliquia.
«Perché ti sei inginocchiato di fronte a me?» chiese di nuovo la donna.
«Perché tu, mia signora, sei la Chiave».
Destiny indietreggiò di un passo, mentre tutti i tasselli andavano al loro posto. La profezia di sua madre era dunque vera: lei era davvero destinata ad essere una pedina nella guerra fra Autobots e Decepticons. Lei era la Chiave. Ora si spiegava anche perché avesse continuato a disegnare quella runa e perché sua madre, la prima volta che aveva visto ciò che stava facendo, avesse fatto quella strana espressione, tanto da spingerla a nasconderle il fatto che quel apparentemente insignificante disegno era quasi un’ossessione.
Ecco perché si era sempre sentita fuori posto, come se ci fosse altro ad attenderla. In un istante, tutti i buchi vennero colmati e lei, finalmente, sentì tra le mani il proprio destino.
«Vedo confusione sui vostri visi» disse il Custode. «In teoria, la Chiave avrebbe dovuto conoscere la realtà dei fatti, ma mi rendo conto che sono passati molti secoli e quindi la storia deve essersi dispersa nelle nebbie, diventando più leggenda che realtà. Permettete dunque che vi spieghi».
Il Custode narrò loro la storia della Black Stone, indicando la piccola pietra nera che fluttuava nella luce azzurra, sopra l’altare al centro della sala. Spiegò loro che era soprattutto una potente fonte di Energon, oltre che l’antidoto all’odioso virus che avevano imparato a conoscere.
«Una volta toccato dalla Black Stone» spiegò, «il Transformer diventa immune al virus e, anche se viene colpito di nuovo, non viene più infettato».
La pietra veniva dal sacro suolo di Cybertron ed era stato proprio il Custode a portarla sulla Terra. Non volendo favorire né l’una né l’altra fazione, il Custode aveva deciso di legarla a quella strana razza di piccoli insetti che popolava il pianeta su cui era arrivato. Soltanto un umano, quindi, poteva utilizzare la pietra.
«Ma non un umano qualsiasi. Per aprire ogni serratura, serve infatti una chiave. E la nostra Chiave deve essere un umano sì, ma con il cuore di un Transformers» e guardò intensamente Destiny. «Tu sai cosa intendo, vero mia signora?»
Sì, lei lo sapeva. Aprì la cerniera della giacca e scostò la maglietta. Nella luce fioca, il marchio sulla sua pelle brillava di un tenue lucore.
«In molti secoli passati a fare da Custode alla Black Stone ho capito di aver sbagliato: avrei dovuto affidare la Reliquia agli Autobots perché i Decepticons sono capaci solo di odio. Ma non volevo immischiarmi; volevo che fosse il fato a decidere».
«Ma come funziona questo discorso della Chiave?» domandò Seymour.
«In realtà, esistono al mondo due Chiavi. Da quando ho deciso di legare la Reliquia alla vostra fragile razza, questa regola non è mai venuta meno. Ogni generazione di umani ha dato i natali ad una coppia di individui con addosso il marchio che tu porti, mia signora. Uno per i Decepticons e uno per gli Autobots». Il Custode sorrise. «In realtà, quando ho visto lei» e indicò Heaven «avevo già capito quale fazione reclamava questo prezioso tesoro, altrimenti non avrei mai ceduto senza combattere».
«Quindi, da qualche parte, qualcuno porta addosso il marchio dei nostri nemici e potrebbe mettere le mani sulla Black Stone?» s’informò Seymour.
Il Custode annuì. «È esatto. Ma in ogni serratura va una chiave per volta. Quindi una sola delle Chiavi può usare la Reliquia, finché l’altra non muoia. Per essere tu lo strumento, mia signora, devi reclamare la Reliquia prima che lo faccia l’altra Chiave».
Destiny si voltò istintivamente verso la Black Stone. Senza proferire parola si avvicinò all’altare. La Reliquia non era altro che una pietra perfettamente rotonda e piatta, di circa cinque centimetri di diametro. Sembrava un nero ciottolo di fiume ma incisa su una faccia c’era la stessa runa che avevano trovato in superficie e che aveva aperto il portale.
«Le apparenze ingannano, mia signora» disse il Custode, indovinando benissimo i pensieri di Destiny che si chiedeva come quella banalissima pietra potesse essere uno strumento tanto potente.
La Black Stone galleggiava su quello che sembrava un cuscinetto di energia e che la teneva sospesa una trentina di centimetri sopra l’altare.
Destiny tese la mano per prenderla. Mentre le sue dita si avvicinavano alla Reliquia, la voglia sul suo petto prese a risplendere. La ragazza sentiva la potente energia racchiusa in quella piccola pietra aumentare man mano che si avvicinava, finché non arrivò ad afferrarla.
Si sprigionò un lampo di luce bianchissima, mentre Destiny sentiva tutta la forza racchiusa nella Reliquia risalire lungo il braccio destro, attraversare il suo corpo e fermarsi sulla voglia sopra il seno sinistro. Si coprì gli occhi con la mano ma non indietreggiò.
Finalmente la luce si spense. Destiny girò la destra: la Reliquia stava esattamente nel suo palmo, ancorata ad esso per mezzo di quattro filamenti di energia. La faccia su cui era incisa la runa era nascosta nel palmo mentre quella visibile mostrava ora il marchio degli Autobots.
«La Reliquia è stata reclamata» esultò il Custode, mentre Destiny, ancora incredula, continuava a fissare la propria mano.
«Stai bene?» chiese Heaven preoccupata. Destiny annuì.
«Ma c’è altro che devi sapere, mia signora» disse il Custode, prima di bloccarsi all’improvviso, voltandosi verso il corridoio da cui erano arrivati. «Qualcun altro ha aperto il portale» disse.
«È possibile?» chiese Brains.
«Sì. Ora che il sigillo è stato spezzato, chiunque della nostra razza può accedere a questo luogo».
«Della vostra razza?». Destiny si girò verso i compagni. «Nessun Autobot ci ha seguiti. È un Decepticon».
«Non uno solo, mia signora. Più di uno. E ormai molto vicini».
«C’è un’altra via d’uscita?» domandò Seymour e il Custode indicò una vasta apertura sul lato opposto rispetto a dove erano entrati.
Destiny toccò la Black Stone che si disattivò tornando ad assomigliare ad un semplice sasso di fiume e si staccò dalla sua mano. La porse a Seymour.
«Dovete andare. Io posso farvi guadagnare un po’ di tempo». Poi si rivolse a Heaven. «Portali via di qui il più in fretta possibile».
Ma l’Autobot scosse la testa. «Non vado senza di te».
«Heaven, non abbiamo tempo di discutere. La Reliquia è più importante, se cadesse nelle mani dei Decepticons, Bee e gli altri sarebbero spacciati».
«Lo saranno comunque» evidenziò Wheelie. «Soltanto tu puoi usarla».
«Proprio per questo i Decepticons non la uccideranno» intervenne il Custode.
«Troverò un modo per tornare, vi ritroverò. Ma è fondamentale mettere in salvo la Reliquia o non avremo neanche una possibilità».
«Resto io a fare da diversivo» disse Seymour ma la donna scosse la testa.
«Non capisci? Uccideranno chiunque troveranno qui. Solo io ho una speranza di sopravvivere. Ora, per favore, andate».
Simmons la fissò per qualche istante poi chinò la testa. «Ha ragione. Dobbiamo andare. Heaven, forza».
L’Autobot si inginocchiò a terra. «Ti ritroveremo, ovunque tu sia».
«Lo so. Dì a Will che in un modo o nell’altro manterrò la promessa che gli ho fatto».
Heaven annuì. Poi si voltò e fece strada al gruppetto, illuminando il cammino verso l’uscita.
«Ci sarebbero molte altre cose da dirti, mia signora, ma non so se ne avrò il tempo. Però c’è una cosa che devi assolutamente sapere. Avrai di sicuro sentito il grande potere racchiuso nella Black Stone. Ricorda: ogni volta che la userai, richiederà un grande dispendio di energia. Tu sei forte e hai il coraggio di una leonessa, ma dovrai dosare bene le forze perché quella Reliquia può prosciugarti del tutto».
«Lo terrò a mente» rispose. Poi trasalì, quando sentì un rumore metallico provenire dal corridoio d’entrata. «Grazie per il tuo aiuto».
Il Custode annuì solennemente. «È stato un onore. Ora va’ dietro a me, mia signora. Il nemico è qui». Poi si voltò. «Fermi!» gridò come aveva fatto con l’altro gruppo di intrusi, ma stavolta la risposta fu ben diversa. Un colpo possente fece tremare gli stipiti del grande portale e un Decepticon entrò nella sala della Reliquia.
Era molto più piccolo del Custode: Destiny calcolò che nella sua forma terrestre dovesse essere una moto o qualcosa del genere e si sentì leggermente rincuorata in quanto non sembrava un avversario così temibile. Il sollievo durò poco: altri due Decepticons seguirono il primo e questi erano talmente grossi che dovettero chinarsi per passare attraverso l’apertura.
«Non potete entrare qui dentro» disse il Custode.
«La porta era aperta, nonno» disse il primo che era entrato. Poi sbirciò dietro di lui, osservando Destiny. «È questa la famigerata Reliquia?» sbottò ridendo fragorosamente.
«La Reliquia non è qui. È stata portata via».
«Inventane un’altra, ma fa’ che sia più credibile la prossima volta» sibilò uno dei due giganti e colpì il Custode su un fianco, mandandolo a sbattere contro la parete, dove rimase.
«Allora, che ci fai tu qui, piccolo insetto?»
Destiny non rispose né indietreggiò di fronte al Decepticon.
«Non sembri spaventata» mormorò.
«Non lo sono, infatti» replicò, sollevando il mento in gesto di sfida.
«Male. Dovresti» sussurrò e con gesto talmente repentino l’afferrò per il collo e la sollevò, sbattendola contro una delle massicce colonne che sostenevano la volta di pietra con tanta forza che la ragazza sentì le costole scricchiolare.
La mano del Transformer era una tenaglia d’acciaio che le premeva anche sul petto, impedendole di respirare. Stava cercando freneticamente di liberarsi ma sentiva le forze venire meno, quando il Custode si rialzò a fatica, aggrappandosi alla parete di roccia per sostenersi. Era ferito e Destiny, tra le stelle luminose e i buchi neri che le riempivano gli occhi, vide che l’Energon stillava da una profonda ferita al fianco.
«Fermo!» gridò con voce rauca. «Non hai idea di cos’hai per le mani» disse.
«Altro non è che un’insulsa umana. Ce ne sono altri sette miliardi da sottomettere là fuori» rispose l’altro e strinse un po’ più la presa. I movimenti di Destiny si fecero deboli e scoordinati mentre l’ossigeno andava esaurendosi.
«Lasciala o la ucciderai!»
«Sì, vecchio. L’idea è quella». La risata sguaiata fu ripresa dai due scagnozzi che in tal modo non si accorsero del fatto che il Custode si era staccato dalla parete e si era lanciato contro il loro capo. Lo colpì con la forza di un ariete. Il Decepticon lasciò la presa su Destiny, più per la sorpresa che per la violenza del colpo. La ragazza scivolò a terra, mentre l’aria fresca e benedetta tornava a riempirle i polmoni, passando per la gola già dolorante.
«Sette miliardi di umani, ma una sola Chiave per la Black Stone».
Le parole del Custode bastarono ad incuriosire il nemico che si trattenne dal finirlo.
«Una Chiave?»
«La Black Stone ha bisogno di una chiave per essere attivata. Lei è la Chiave. Se la uccidete, la Black Stone sarà inutilizzabile finché non nasca una nuova Chiave e raggiunga l’età giusta per prendere consapevolezza del proprio ruolo».
Destiny notò che non aveva fatto cenno al fatto che la Reliquia poteva essere utilizzata solo per gli Autobot finché lei fosse rimasta in vita, né che esisteva anche una Chiave per i Decepticons, e lo ringraziò silenziosamente. Sapeva che con quella ferita e senza Energon non c’era alcuna possibilità per il Custode di sopravvivere, eppure stava rischiando tutto per lei.
«Che facciamo, capo?» chiese il Decepticon più vicino a Destiny.
«Non credo del tutto a questo vecchio. Ma non spetta a noi decidere. La porteremo a Lord Megatron». Poi si rivolse al Custode. «C’è altro che dovremmo sapere?»
«Solo che la Chiave non ha ancora terminato il suo addestramento. Io sono il solo che può insegnarle ad usare la Black Stone».
«Oh, sono sicuro che la signorina saprà improvvisare» borbottò il Decepticon. Con un gesto del braccio destro sfoderò la sua arma e sparò un solo colpo proprio al centro del petto del Custode. Il corpo metallico fu proiettato lontano e si fermò contro la parete. Destiny corse da lui e gli si inginocchiò a fianco. Non aveva abbastanza forze per sollevargli la testa, così posò una mano sul freddo metallo della fronte, fissando i suoi occhi mentre la vita si spegneva piano nella sua Scintilla.
«Mi spiace, mia signora» mormorò con le ultime forze rimaste. Poi, mentre Destiny pensava a qualcosa da dirgli, gli occhi si spensero definitivamente. Destiny chinò il capo, mentre una lacrima scendeva sulla guancia e andava a infrangersi sul volto esanime del Custode.
«Avanti, principessa» disse il capobanda, prendendola per le braccia e facendola alzare. Le legarono le braccia dietro la schiena e mezzo spingendola e mezzo trascinandola la condussero fuori.
Il buio era sceso fitto e Destiny si guardò intorno. Non c’erano luci in vista, il che significava che era riuscita a guadagnare abbastanza tempo perché Heaven potesse allontanarsi o comunque nascondersi. Confortata dal fatto che il suo diversivo aveva funzionato, si dedicò ad analizzare la propria situazione, che non era certo rosea.
La sua sopravvivenza, almeno nel breve periodo, era assicurata. Le parole del Custode erano state sufficienti ad instillare il dubbio in quel manipolo di Decepticons che erano con tutta evidenza solo esecutori, non in grado di prendere decisioni.
Il capo aveva detto che l’avrebbero portata da Megatron e la cosa non la faceva stare tranquilla. Non sapeva cosa aspettarsi da quell’incontro, ma era decisa a restare in vita a qualunque costo. La sabbia nella clessidra che misurava la vita di Bumblebee stava finendo e lei doveva trovare un modo per tornare a Diego Garcia e usare la Black Stone.
I due energumeni si trasformarono in due enormi jeep Hummer nere. Il capobanda la spinse nell’abitacolo di uno di essi e chiuse la portiera. Viaggiarono in corteo fino all’aeroporto dove si imbarcarono su un cargo commerciale. Sulle prime Destiny fu sorpresa, ma poi capì: come c’erano umani che lavoravano con i buoni, ce n’erano anche con i Decepticons.
Il volo fu lungo e scomodo. Nonostante le sue lamentele, la slegarono solo il tempo necessario ad usare il piccolo bagno. I muscoli delle braccia protestarono quando il Decepticon la costrinse di nuovo a torcerle all’indietro e la ammanettò.
Riuscì in qualche modo a dormicchiare ad intervalli finché avvertì la differenza di pressione quando l’aereo iniziò le manovre di atterraggio.
Quando uscì dall’aereo, socchiuse gli occhi per difenderli dal riverbero accecante del sole. Sapeva che la base di Megatron era in Africa e il sole e il paesaggio circostante la indussero a pensare di essere proprio sul grande continente.
Destiny fu fatta salire di nuovo su uno degli Hummer e fu sballottata senza pietà sulle malridotte strade africane. Era tardo pomeriggio quando arrivarono in vista di una bassa catena di colline bruciate dal sole.
Ai piedi di quei rilievi c’era una specie di campo base che, dopo essere stata per qualche tempo alla base Nest, non faticava a riconoscere come caotico e disordinato. Ciò che la spaventò fu il numero di cyborg che vide. Dovevano essere almeno una cinquantina, di tutte le taglie.
L’Hummer finalmente si fermò. Il capobanda aprì la portiera e la trascinò giù dal mezzo, facendola cadere nella polvere.
«Claymore!» disse una profonda voce metallica. «Ti abbiamo mandato a cercare una Reliquia e torni con questo minuscolo esserino?»
Con le braccia legate dietro la schiena, Destiny faticava ad alzarsi. Claymore – finalmente conosceva il suo nome – l’afferrò e la rimise in piedi. Il cyborg che aveva parlato la stava scrutando con i suoi terribili occhi rossi. La stella a tre punte della Mercedes sul suo petto brillò al sole quando si mosse e Destiny riconobbe Soundwave.
«Ha a che fare con la Reliquia» disse Claymore, spingendola avanti. «Devo parlare con Megatron».
Dal suo atteggiamento, Destiny capì che aveva paura di Soundwave.
«Per te è Lord Megatron» sottolineò Soundwave, e alla donna parve che Claymore tentasse di farsi ancora più piccolo.
«Chi vuole vedermi?» sbottò una voce da sotto una grande tenda mimetica.
Claymore trasalì. «Sono Claymore, Lord Megatron».
«Entra!» ringhiò.
Spingendo Destiny senza troppe cerimonie, Claymore avanzò sotto il telo. Dentro l’atmosfera era buia e fresca e gli occhi della ragazza ci misero un po’ ad abituarsi, dopo il sole abbacinante. Claymore la spinse di nuovo in mezzo alle scapole e lei non resistette più, voltandosi a fronteggiarlo.
«Smettila!» sibilò.
Claymore alzò una mano per colpirla, ma Megatron lo fermò.
«Non toccarla» ordinò e Claymore abbassò la mano. «Non vogliamo che i nostri ospiti vadano a dire in giro che non si trovano bene con noi».
Destiny si voltò verso di lui. Ora che i suoi occhi si erano adattati alla penombra riusciva a vederlo bene e scorse i feroci occhi rossi nel viso spigoloso, la chiostra di denti affilati. Megatron era seduto su una specie di trono, le braccia abbandonate sui braccioli. Era evidente che era affetto da un certo grado di egocentrismo e gli piaceva ricevere ossequio dai suoi sudditi. Chissà quanto doveva scocciargli quella faccia sfigurata!
Con la mano ad artiglio le fece cenno di avvicinarsi. Destiny fece qualche passo avanti e alzò lo sguardo verso di lui. Entrambi rimasero in silenzio.
«Se aspetti che io m’inginocchi davanti a te dovrai farmi spezzare le gambe» disse lei all’improvviso.
Claymore si fece avanti per punire quella sbruffonata, ma Megatron lo fermò con un gesto della mano.
«Non so se sia incoscienza o coraggio… ma mi piace» mormorò. Poi si rivolse a Claymore: «Slegala».
«Ma, signore, potrebbe…» obiettò Claymore, ma Megatron abbatté il pugno sul bracciolo.
«Slegala, ho detto» urlò e il cyborg si affrettò ad obbedire.
Destiny gemette quando il sangue prese a rifluire nelle braccia che per tante ore erano rimaste bloccate in quella posizione innaturale. Aveva profondi segni rossi sui polsi, che prese a massaggiare per far circolare il sangue, e le mani gonfie e vagamente bluastre.
«Come ti chiami?»
«Destiny».
«E come mai quell’idiota di Claymore ti ha portata qui?» chiese.
«Lord Megatron, io…» cominciò Claymore, ma Megatron lo fermò di nuovo.
«Non ho chiesto a te» sibilò. «Sarà meglio che aspetti fuori, Claymore. La tua presenza mi irrita. E sai cosa succede quando sono irritato, vero?»
Claymore s’inchinò immediatamente e uscì camminando a ritroso.
Megatron fissò di nuovo lo sguardo su di lei. «Allora, Destiny: come mai sei qui?»
«Perché pensi che collaborerò con te?» chiese Destiny e lui si abbassò fino a trovarsi con gli occhi allo stesso livello di quelli nerissimi di lei.
«Starscream!» chiamò poi.
Il fedelissimo luogotenente di Megatron fece il suo ingresso.
«Mi hai chiamato, padrone?»
«La signorina Destiny ha bisogno di riposare. Trovale un alloggio ma trattala con cortesia. È un’ospite preziosa». Poi si rivolse direttamente a lei: «Domani parleremo ancora, piccola Destiny».
Poi fece un cenno della mano e Starscream si avvicinò, facendole cenno di seguirlo.
La accompagnò fuori e Destiny lo seguì docilmente. Non aveva senso rischiare la vita quando sapeva di essere l’unica risorsa per gli Autobots. Starscream la condusse ad un paio di container e bussò con delicatezza sul tetto di uno di essi.
Un uomo aprì la porta e alzò lo sguardo verso il Decepticon.
«Questa umana rimarrà con te, Greg» disse Starscream e l’uomo girò lo sguardo su di lei. «Lord Megatron dice che è preziosa, quindi è da trattare con rispetto, ma non deve scappare». Poi abbassò lo sguardo dei suoi occhi rossi su di lei. «Capito?» domandò.
Destiny annuì.
L’uomo uscì e la prese per un braccio, sospingendola all’interno del container.
«Sarà fatto come Lord Megatron desidera» disse l’uomo. Il Decepticon annuì e se ne andò.
Destiny fu sospinta all’interno dell’alloggio prefabbricato che era arredato con sobrietà: niente fronzoli ma tutta funzionalità. Un’intera parete era occupata da una sofisticata consolle di monitor e computer. La donna notò che su uno dei monitor era fissa un’immagine satellitare nella quale riconobbe la base Diego Garcia. Ciò significava che i Decepticons spiavano le loro mosse: per quello avevano saputo che erano in Inghilterra e li avevano intercettati a Stonehenge. Probabilmente li avevano seguiti anche in Sudamerica.
«Sì, spiamo gli Autobots» disse, notando il suo sguardo. «Come credi che facciamo ad essere sempre un passo avanti a voi?» concluse.
«Mi chiedo come tu possa stare dalla parte di Megatron» sbottò Destiny.
«I tuoi Autobots non hanno nessuna possibilità di vincere contro Lord Megatron. Meglio stare dalla parte di chi vincerà».
Destiny sogghignò. «Sai qual è il problema? Se vinceranno gli Autobots, tu sarai salvo e libero. Se vincerà Megatron, ammesso che ti lasci in vita, sarai schiavo per il resto della tua vita».
«Meglio una vita da schiavo che la morte».
La donna si strinse nelle spalle. «Se lo dici tu».
Greg si girò verso le sue apparecchiature. «Mettiti comoda. Da qui non puoi uscire, la porta ha una serratura biometrica e si apre solo con la scansione delle mie impronte digitali».
Quindi era in trappola. Si mise a sedere e si chiese che cosa stesse facendo William e come se la stesse cavando Bumblebee.
  
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