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Autore: teabox    08/02/2014    9 recensioni
Lei non aveva mai saputo dove i miti nascessero né dove andassero a riposare - e in realtà se fossero poi proprio veri del tutto. Ma un giorno trovò il fiore, e con il fiore trovò anche lui, e d'un tratto quanto le leggende fossero vere non ebbe più tanta importanza.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Nota: quello che segue l’ho scritto un milione di anni fa (o forse due). Ok, l’anno scorso - credo - girava un prompt sul mito di Ade (Sherlock) e Persefone (Molly). 

Scrissi questo, allora, ma per varie ragioni è sempre rimasto nel mio computer. Lo lascio al vostro giudizio, ora, se vi va di dare un'occhiata. 

Buona lettura, spero.

(Ho messo AU per ovvie ragioni, ma anche OOC perché non credo che i personaggi siano abbastanza IC).

 

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il posto che Molly aveva imparato ad apprezzare di più in quel luogo solitario era una caverna come tante altre, buia come tante altre e come tante altre umida e silenziosa. 

Le fiamme azzurre di un paio di torce illuminavano appena le pareti scure e il suono di una goccia d’acqua che cadeva sulla pietra scandiva ad intervalli regolari il passare del tempo. 

In alto, più in alto di quanto Molly potesse o sapesse misurare, c’era una fessura nella roccia. E da lì, appena visibile, spuntava un angolo di cielo, che lei osservava per ore lente, infinite. 

La vita che aveva perso era lassù.

 

§

 

Era stato un sussurro. Lo aveva sentito da Amore la prima volta, quando entrambi avevano avuto poco più di una manciata di anni. Poi Ebe, con quel suo eterno viso da ragazzina e l’aria allegra e innocente, glielo aveva ripetuto anni più tardi. C’era un angolo di Olimpo, un giardino nascosto, dove sbocciava un fiore dai petali rossi come il sangue e il centro nero come nuvole di tempesta. Se ne mangiavi i semi, le Moire ti apparivano in sogno e ti rivelavano il tuo destino. 

Molly aveva sempre considerato quei discorsi niente di più che chiacchiere oziose, una favola raccontata per far divertire i più giovani, come quando Apollo aveva detto che il sole era fatto d’oro fuso. 

Poi li aveva trovati, quel giardino e quel fiore, e anche se non ne aveva ancora assaggiato i semi e visto le Moire in sogno, il suo destino si era presentato comunque - nell’inaspettata forma di una divinità di cui aveva solo sentito parlare. 

 

§

 

«Quel fiore non è per te.»

Molly aveva alzato la testa al suono di quelle parole.

Il primo pensiero era stato sciocco. Lui non era niente di come glielo avevano sempre descritto.

Era alto, quello sì, ma lo aveva immaginato vecchio e curvo. Invece il dio degli Inferi era giovane, la schiena dritta, lo sguardo affilato come i lineamenti del viso. 

«Sai parlare o qualcuno ti ha tagliato la lingua?», domandò lui con un tono annoiato.

«So parlare», rispose Molly infastidita. «E tu non dovresti essere qui.»

Lui le rivolse un sorriso freddo. «E tu non dovresti essere impudente. Forse non sai con chi stai parlando.»

Molly si alzò. «Sherlock, signore dell’Oltretomba.»

«Ah», commentò lui incrociando le braccia. «Quindi pur sapendo chi sono, hai deciso comunque di essere sfrontata.»

«Stavo solo... Mi hanno sempre detto che non puoi lasciare gli Inferi.»

«Evidentemente ti hanno sempre detto una bugia.»

Molly arrossì senza capirne il motivo. Sentiva gli occhi di lui scrutarla e valutarla, spostandosi lentamente lungo il suo corpo. Si sentì a disagio, anche se non era certo la prima volta che una divinità la guardava a quel modo. Soppesano la mercanzia, le aveva detto una volta ridendo Afrodite. E se Molly sapeva rimetterle al loro posto, le altre divinità, sentiva che con lui - improvvisamente e senza ragione - sarebbe stato più complicato. 

«Devo andare», balbettò imbarazzata, incapace di sostenere quello scrutinio un attimo di più.

«Quanta fretta, figlia di Demetra», rispose Sherlock lentamente. Abbassò il viso su di lei e le sorrise gelido. «Forse, dopo tutto, dovresti assaggiarlo quel fiore.»

Lo fece comparire tra le sue dita - Molly non era sicura di come ci fosse riuscito - e ne strappò qualche pistillo, trattenendoli con delicatezza tra le punta delle dita. La guardò, invitandola silenziosamente. 

Lei cercò di concentrarsi su ogni battito del cuore e il sangue che scorreva veloce nel corpo. Non devi, si disse. Non puoi. Assolutamente no

Ma gli occhi chiari e profondi del dio degli Inferi la guardavano e Molly si trovò a dischiudere appena le labbra. Solo un po’, si disse. Un attimo di più con lui e non cambierà nulla.  

Non sapeva, Molly, che tutto era già cambiato, fin dall’attimo in cui Sherlock aveva posato gli occhi su di lei. E quando invece di lasciarle cadere i pistilli sulle labbra come si era aspettata, lui se li portò alla bocca e la baciò, tutto il suo mondo cambiò di nuovo. 

Molly trattenne il respiro mentre il sapore amaro del fiore si confondeva con quello caldo e stranamente dolce delle labbra di Sherlock. Le scappò un piccolo lamento di piacere, quando la lingua di lui le sfiorò le labbra. 

E un attimo più tardi, senza capire davvero quello che stava succedendo, si trovò a chiudere gli occhi e perdere i sensi. 

 

§

 

Molly riaprì gli occhi su di un mondo che non conosceva. 

Era buio e freddo, una coperta scura - la pelliccia di qualche animale - riusciva a mala pena a riscaldarla e la luce spettrale di alcune fiamme azzurre non arrivava negli angoli più bui della stanza. 

Si portò una mano alla tempia, alzandosi lentamente dal letto dove qualcuno l’aveva adagiata. Le girava la testa e un retrogusto amaro le invadeva la bocca. 

«Ben svegliata.»

Molly sussultò e si strinse la coperta attorno al corpo guardando Sherlock emergere dalle ombre.

«E benvenuta.»

«Cosa mi hai fatto?», domandò Molly cercando di non suonare impaurita. 

Sherlock accennò un sorriso, qualcosa che non raggiunse mai gli occhi, avvicinandosi a passi lenti. «Ho esaudito il tuo desiderio.»

«Il mio...cosa? Non volevo davvero quel fiore e-»

«Non parlo di quello», la interruppe lui secco.

Molly lo guardò confusa. «Cosa...»

«Volevi me.»

Lei sgranò gli occhi e arrossì. Si strinse di più la coperta attorno al corpo e balbettò una risposta. «Non so cosa...io non...davvero, non...assolutamente no.»

Sherlock accennò una risata e il suono freddo si diffuse lungo le pareti della stanza. «Pessima bugiarda. C’è qualcosa di piacevole nell’idea che esistano ancora persone come te.»

Molly si sentì presa in giro. Si alzò di scatto dal letto lasciando cadere la coperta e serrò le mani, come se si preparasse a combattere. «Riportami a casa. Ora

«Impossibile», rispose lui con un gesto vago della mano. «Sei a casa.»

«Questa non è casa mia, io non dovrei essere qui. Quello che hai fatto-»

«Quello che ho fatto?», la fermò lui con un tono gelido, le parole pronunciate con tanta freddezza da togliere il fiato. «Forse ricordo male, ma non eri tu quella in un giardino in cui non saresti dovuta essere, pronta a cogliere un fiore che non avresti dovuto toccare e di cui hai accettato il dono da una divinità a cui non avresti dovuto rivolgere la parola? Dimmi, Molly, chi è qui l’artefice del proprio destino? Sei sicura di voler dare la colpa a me?»

Lei serrò le labbra e cacciò le lacrime che le minacciavano gli occhi. «Mi hai ingannata.»

«No, Molly», rispose Sherlock gelido, appoggiandole una mano sul collo e forzandola a guardarlo. «Ti ho solo baciata.»

Molly dischiuse le labbra al ricordo di quell’attimo. E in quel momento, di nuovo, la sua bocca era così vicina - così vicina che il suo respiro le sfiorava la pelle. E c’era qualcosa nei suoi occhi, nel modo in cui lui la stava guardando in quell'attimo, che lei non aveva mai visto in nessun altro.

Ma quell’istante passò e lui le lasciò il collo e si allontanò da lei di qualche passo. Molly abbassò lo sguardo, quasi frastornata e incapace di concentrarsi. Un brivido le attraversò il corpo. 

«Faresti meglio a coprirti», le disse lui con un tono piatto. Raccolse la coperta da terra e gliela porse. «Il sole qui non arriva.»

Molly si strinse le braccia attorno al corpo, rifiutando la pelliccia. Non era solo freddo, quello che sentiva avvolta nella leggera tunica di cotone che indossava. Era vuoto, mancanza e, da qualche parte nel profondo, terrore per quella divinità che non conosceva e nonostante ciò, per quello che le faceva sentire.

«Come preferisci», disse Sherlock lanciando irritato la coperta sul letto. «Hai un’eternità di fronte a te per cambiare idea.»

Con quelle parole lasciò la stanza e ritornò nell’ombra del suo regno, abbandonando Molly - una piccola figura in un lungo abito bianco - nel buio della stanza. 

 

§

 

John spingeva la barca lungo il fiume e non era contento. 

Era evidente e Sherlock aveva deciso di ignorarlo per quanto possibile, ma alla fine si era trovato costretto - per pura irritazione, se non per altro - ad informarsi.

«Una moneta per i tuoi pensieri?»

«Ah», rispose John sarcastico. «Da dove vuoi che cominci?»

Sherlock alzò le spalle.

«Non per sottolineare l’ovvio, Sherlock, ma posso farti presente che non sono esattamente qui per traghettarti lungo l’Acheronte a seconda dei tuoi desideri?»

«Mi aiuta a pensare», rispose lui sfiorando l’acqua con le dita. «Ma non è questo quello che ti preme farmi sapere.»

John scosse la testa. «Sai cosa voglio dirti. Quello che hai fatto è sbagliato. Lei non fa parte di questo mondo. Non è felice, qui.»

«Non per sottolineare l’ovvio, John, ma questa è l’oltretomba. Nessuno è felice, qui.» John alzò gli occhi al cielo, ma Sherlock lo ignorò. «Imparerà ad essere felice. E se non felice, imparerà ad accettare. Come fanno tutti gli altri, del resto.»

«Tutti gli altri sono morti, Sherlock», puntualizzò John.

Fu il turno di Sherlock di alzare gli occhi al cielo. «Dettaglio irrilevante.»

«Per l’amor del cielo, Sherlock!», esclamò John irritato. «Tutta questa storia è ridicola! Cosa ti è passato per la testa, io proprio non lo capisco.»

«Posso spiegarti, se proprio insisti. Vedi, per quanto apprezzi la tua compagnia», disse Sherlock pacatamente, «ci sono necessità che anche una divinità ha bisogno di soddisfare, di tanto in tanto.»

«Già», replicò John ironico. «E non puoi soddisfarle con una ninfa qualunque? Ah, no, per carità, non Sherlock, il signore degli Inferi.»

Lui lo guardò con una punta di freddezza. «Non ti devo ricordare il fatto che essere amici non ti rende immune dalla mia ira, vero?»

John sostenne lo sguardo di Sherlock. «Non è la tua ira che temo. Sono i danni che questa stupida decisione faranno ripercuotere su di te. Tuo fratello-»

«Mio fratello non è niente qui. Lascialo fuori.»

«Io posso anche lasciarlo fuori, ma lui non sarà così propenso a darti retta.»

Sherlock sbuffò. «Che faccia quello che preferisce. Sempre ammesso e concesso che si stacchi dal suo trono nell’Olimpo.»

John non commentò e per qualche momento i due si rinchiusero nei rispettivi silenzi. Ma John, alla fine, sospirò. «Perché proprio lei? Voglio dire, tra tutte le possibilità, proprio la figlia di Demetra? Non c’erano alternative?»

«No», rispose Sherlock secco. Esitò un attimo, prima di riprende a parlare con un tono più sommesso. «Ho bisogno di lei. Di qualcuno come lei. E’ necessaria, in questo regno, e finirà per capirlo anche lei, prima o poi.»

John scosse la testa.«Non sarà facile.»

«Non lo è mai.»

«Sì, ma in questo caso...Prima di diventare il tuo traghettatore, nella mia vita mortale ho avuto a che fare con diverse donne.» Ignorò lo sguardo divertito di Sherlock e riprese a parlare. «Sono complicate. Difficili da capire e soddisfare. E quando sono arrabbiate...E qui non stiamo parlando nemmeno di una mortale, Sherlock, ma di una dea figlia di dei.»

Sherlock fece vagare lo sguardo nell’oscurità che li circondava. «Te l’ho già detto, John. E’ necessaria. Mi serve qualcuno come lei. Forte, intrisa dell’energia di sua madre, luminosa. Sono sicuro che comprenderai.»

«Non sono io che devo comprendere», replicò John in un sussurro. Ma non aggiunse altro e continuò a trasportare Sherlock - e i suoi pensieri - lungo il fiume. 

 

§

 

L’aveva vista la prima volta quando era poco più di una bambina, la tunica che le copriva appena le ginocchia, una spalla scoperta. L’aveva osservata, quel giorno, più per noia che per interesse vero.

Ricordava di come un fauno l’avesse guardata un po’ troppo a lungo e di come Demetra se ne fosse accorta. Il giorno dopo, quando era stato costretto a lasciare gli Inferi perché era stato convocato da suo fratello, Sherlock l’aveva rivista di sfuggita. Indossava una tunica lunga, le gambe coperte e una spilla ad assicurarsi che il tessuto non scivolasse dalle spalle. 

Agli occhi di Demetra, sua figlia era diventata una donna. Agli occhi di Sherlock, era ancora poco più di una bambina.

Ma aveva esitato, quella notte all’ingresso dell’Oltretomba. Aveva alzato gli occhi al cielo, osservato le stelle, e si era domandato se lui era mai stato così, come lei. Non se lo ricordava, perché quando ripensava al passato, tutto quello che vedeva era oscurità. 

 

§

 

Molly aveva sopportato il freddo per qualche ora, prima di arrendersi e avvolgersi nella pelliccia scura che lui le aveva procurato. Di certo Sherlock non l’avrebbe lasciata andare solo perché lei si rifiutava di indossare qualcosa di caldo. Tanto valeva, allora, non morire di freddo.

E dato che lui non le aveva detto che non poteva uscire dalla stanza ed esplorare, Molly aveva deciso che era un modo come un altro per far passare il tempo. In fondo qual era la cosa peggiore che poteva succederle, perdersi e vagare per sempre nell’aldilà? Non le sembrava che la sua attuale condizione fosse poi così diversa. 

Ogni tanto veniva sfiorata da un soffio di aria vagamente profumata - qualche nota floreale, forse - ma per la maggior parte del tempo si era trovata a camminare lungo infiniti corridoi di penombra, che si aprivano su nuovi infiniti corridoi di penombra. Ci doveva essere qualcosa di più, si era trovata a pensare. Una sala del trono, una camera da letto. 

Arrossì. Un’altra camera da letto, rettificò mentalmente. Perché immaginava, o sperava, che quella che occupava lei non fosse l’unica. 

Girò un angolo e vide in fondo al corridoio un’apertura da cui la luce azzurra delle fiaccole sembrava brillare più intensamente. Quando la raggiunse e si affacciò nella stanza, fu sorpresa di scoprire che si trattava di una serra. Fredda, piena esclusivamente di fiori neri, blu e argentei, ma pur sempre una serra. 

Sorrise, riconoscendo il profumo che aveva di tanto in tanto colto lungo la sua esplorazione, e si addentrò con cautela lungo il piccolo sentiero serpeggiante, accarezzando quelle strane piante che non aveva mai visto. E quando raggiunse il centro, sul bordo di una fontana di pietra trovò seduto Sherlock, apparentemente intento ad osservare l’acqua. 

«Vedo che hai cambiato idea», le disse lui senza alzare gli occhi.

Molly sapeva che si riferiva alla pelliccia, ma preferì non commentare. «L’hai fatto tu, questo?», chiese invece indicando la serra.

Lui distolse lo sguardo dalla fontana e lo posò su di lei. «No. Dono di tua madre.»

Molly non nascose la sorpresa. «Non conosco nessuna di queste piante.»

Sherlock accennò un sorriso. «Perché esistono solo qui. Demetra le ha create per me.»

«Avrebbe potuto mettere un po’ più di colore, forse.»

«Ah, glielo dissi anch’io. Tua madre rispose che non avrei saputo cosa farmene.»

C’era stata una nota di amarezza nel modo in cui Sherlock aveva risposto, e Molly l’aveva sentita. Sua madre - lei lo sapeva bene - a volte sapeva essere crudele. «E’ molto bello, comunque.»

Lui scosse le spalle, come se non gli interessasse se lo fosse o meno. Lasciò che il silenzio tornasse per qualche momento, prima di farle una domanda improvvisa. «Odi il mio regno?»

Molly si morse un labbro. Sì, lo odiava. Era terribile, buio, freddo e pieno di disperazione. Ma se anche avesse potuto rispondere così, non lo avrebbe fatto perché non era corretto e assurdamente sentiva di dover essere educata. Si accontentò allora di un’altra verità. «Non lo conosco abbastanza.»

«Posso mostrartelo», replicò Sherlock quasi con gentilezza. «Se vuoi.»

«Ah, ecco...», disse Molly tormentandosi le dita. Non era sicura se volesse passare del tempo da sola con lui. Sembrava pericoloso.

«Puoi vederlo da te, se preferisci», commentò lui di fronte alla sua evidente incertezza. 

Il tono era stato piatto, ma Molly aveva colto qualcosa - delusione, forse - che la fece sentire in colpa. «Forse p-»

«Vai al fiume», le parlò sopra Sherlock. «Troverai John. Ti mostrerà lui il regno. E’ probabilmente il modo più sicuro di vederlo.»

Molly continuò a tormentarsi le dita, ma prima di poter dire qualsiasi cosa, Sherlock la spinse verso l’uscita della serra e le mostrò quale direzione prendere per il fiume. Non aspettò neanche che lei lo ringraziasse, ma si allontanò invece nella direzione opposta. 

 

§

 

A John sembravano essere passati secoli dall’ultima in cui aveva trascorso del tempo in compagnia di una donna viva. E forse erano davvero passati secoli, non ne poteva essere sicuro. Da quando era morto e Sherlock lo aveva nominato traghettatore delle anime, il tempo aveva smesso di essere importante.

E capiva - certo che capiva - perché un’anima viva esercitasse così tanto fascino sul suo padrone. Quella di Molly, poi, in particolare - che ancora trasportava il calore dell’Olimpo e quella luce eccellente e il senso della natura. Erano tutte ottime ragioni per essere incantati, per carità.

Ma, rifletteva John spingendo la barca lungo l’Acheronte e osservando la dea che portava con sé, non era da Sherlock fare una cosa del genere. Essere affascinato. Rapire qualcuno. Comportarsi in quella maniera. Assurdo.

Certo, c’era stata Myntha, ma lei era stata una ninfa e - per giunta - una ninfa infernale, e si era mostrata più che disponibile con il suo padrone. 

E poi c’era stata Irene, ma Sherlock lo aveva scoperto solo dopo di chi era sorella (Eris, dea della discordia), figlia (Nyx, dea della notte) e nipote (Caos, dio primigenio). Con tutta probabilità, se fosse stato a conoscenza fin dall’inizio di quei legami familiari, non avrebbe nemmeno lontanamente valutato l’idea di avvicinarsi a lei.

E ora c’era questa dea, che non c’entrava assolutamente nulla in quel luogo, con quelle anime, con Sherlock. John la guardò. Sembrava terrorizzata, e per ovvie ragioni. Gli venne da sospirare. 

«Mi dispiace», disse lei improvvisamente, lo sguardo fisso sulle dita intrecciate come in preghiera.

«Per cosa?», domandò John confuso.

«Sono sicura che hai di meglio da fare...sai, invece di portare in giro me.»

John accennò una risata. «Non direi. E le anime possono aspettare. Non è che muoiano dalla voglia di attraversare l’Acheronte, comunque.» Lei sorrise al suo debole gioco di parole e John valutò come procedere. «Non è cattivo, sai.»

Molly alzò lo sguardo su di lui per un attimo, prima di riabbassarlo. «Lo so.»

«Bene. Devi solo cercare di capirlo ed essere...paziente. Lui non è abituato a...», gesticolò con la mano nell’aria, cercando le parole giuste. «Non è molto bravo con le persone. E con le donne, soprattutto. Mortali o immortali. Sherlock ha passato quasi tutta la sua vita quaggiù, dove le relazioni sociali sono limitate e particolari. Non è semplice, per lui. Non è mai stato semplice.»

«Lo so», replicò Molly sommessamente. «Ma...non mi lascerà mai andare, vero?»

John sospirò. «Non lo so. Non lo so proprio.»

 

 

§

 

John l’aveva lasciata all’ingresso di una caverna e le aveva detto che una volta entrata, avrebbe dovuto guardare in alto. Non aveva aggiunto altro, allontanandosi.

Un paio di fiaccole illuminavano appena l’oscurità e quando Molly raggiunse il centro della caverna e alzò la testa, lo vide. Il cielo, in alto. La sua terra, il suo mondo. Cominciò a piangere.

 

§

 

«Sta piangendo.»

«Ne sono cosciente, grazie John», replicò secco Sherlock.

«E non hai intenzione di fare nulla?»

Sherlock si alzò di scatto dal trono e prese a camminare lungo la sala. «E cosa, di grazia, dovrei fare?»

«Non lo so», replicò John caustico, «consolarla? Rassicurarla? Lasciarla andare?»

Sherlock si bloccò e fissò John pieno di rabbia. «Sai già che non succederà, quindi risparmia il fiato e le parole.»

John chiuse le mani a pugno. «Sai, ogni volta che accolgo anime disperate sul traghetto, ogni volta che le ascolto lamentarsi afflitte, chiedere una spiegazione, domandare le ragioni delle tue azioni, dico sempre loro di non dubitare delle tue decisioni, di avere fiducia in te,  che se hai preso le loro vite è perché sai quello che fai. Ora, invece, temo di non esserne più così sicuro, Sherlock.»

«Ah, grazie per questo momento così toccante, John», replicò Sherlock cinicamente. «Sono sicuro che c’è qualcuna di queste povere anime sulle sponde dell’Acheronte che ti sta aspettando. Sentiti pure libero di andare a fare il tuo dovere.»

John trattenne un insulto. Si girò, invece, e si allontanò a passi svelti. Sulla soglia dell’ingresso della sala del trono, però, si fermò un istante. «Spero che tu sappia che ti stai rovinando da solo. E quando lei si spegnerà come si sta già spegnendo, e rimarrà solo l’ombra di quello che era stata, avrai soltanto te stesso da biasimare.»

Sherlock non rispose. Aspettò che John fosse abbastanza lontano prima di togliersi la corona che indossava. Era fatta di lucide spine nere e quando la strinse tra le mani, le dita presero a sanguinare - quello strano sangue dorato degli dei. 

La gettò con violenza contro la parete, dove si frantumò in mille pezzi.

 

§

 

Era stata in una notte particolarmente fredda che Molly si era svegliata e avventurata come suo solito nei corridoi dell’oltretomba. 

Aveva raggiunto la sala e sulla soglia aveva visto Sherlock seduto sul trono. Addormentato. Era la prima volta.

Si era avvicinata lentamente, cercando di non fare rumore e allo stesso tempo assaporando quel momento in cui poteva finalmente osservarlo senza dover sostenere il suo sguardo. 

Una gamba era piegata e l’altra allungata di fronte a lui. Un braccio era abbandonato in grembo e l’altro, puntellato sul bracciolo del trono, sorreggeva la testa inclinata di lato. C’era un così profondo abbandono, una pace infinita nei suoi lineamenti. 

Il collo esposto era una tentazione così forte, specialmente dove alcuni riccioli gli sfioravano la pelle. Le palpebre si muovevano appena e il respiro calmo alzava e abbassava il torace lentamente.

Molly aveva trattenuto il respiro, piegandosi sulle ginocchia e avvicinandosi al suo viso. C’era una terribile bellezza in lui, qualcosa di profondo e irreale.

In quel momento lui aveva aperto gli occhi e l’aveva guardata come se non fosse stupito di trovarla lì e così vicina, per giunta. «Cosa stai facendo?»

«Non...non riuscivo a dormire», aveva risposto lei alzandosi velocemente. Aveva avuto intenzione di allontanarsi solo di qualche passo, ma poi non era stata capace di fermarsi finché non si era trovata di nuovo nella sua stanza. Si era portata una mano al cuore. Non lo aveva mai sentito così vivo.

 

§

 

Suo fratello non era migliore di tanti altri dei, o almeno così aveva sempre pensato Sherlock. L’unica differenza era il trono in cui sedeva. Per questo non si era mai sentito particolarmente inclinato a mostrargli reverenza o rispetto - non lo faceva con nessuno, quindi perché con lui.

Non gli era andato incontro, lungo la strada che portava all’ingresso dell’Oltretomba. Lo aveva visto arrivare da lontano - e dietro di lui una Demetra furente - e aveva semplicemente aspettato, braccia incrociate sul petto, sulla soglia del suo regno. 

«Sherlock, come al solito le tue maniere ti distinguono dagli altri», commentò Mycroft asciutto.

Sherlock gli rispose con un sorriso tirato. 

«Voglio indietro mia figlia», gli sibilò in faccia Demetra. 

«No», replicò Sherlock freddamente.

«Come osi, tu...tu...», disse lei infuriata balbettando in cerca di parole.

«Mostro? Scherzo della natura? Depravato?», offrì Sherlock con finta cortesia.

Demetra gli sputò in faccia.

Mycroft la prese per un braccio e la spostò di lato. «Ora basta. Siamo qui per trovare una soluzione.»

Sherlock si ripulì la guancia con apparente tranquillità. «E’ molto semplice, fratello caro, lei rimane con me.»

«La mia bambina rimane con te», riprese Demetra con rabbia, «e la terra e tutti i mortali con essa moriranno. Niente più raccolti, niente più cibo, niente più vita. E tutti sapranno che la colpa è solo tua, che sei stato tu a porre fine a tutto!»

«Demetra», s’intromise Mycroft freddamente, «è ora che tu rientri all’Olimpo. Ho accettato di portarti con me, oggi, perché avevi promesso che non ti saresti intromessa. E’ meglio che tu vada. Lascia parlare me con mio fratello.»

Lei rivolse a Mycroft uno sguardo supplichevole, ma quando riconobbe la rabbia negli occhi del suo sovrano, abbassò la testa e accennò un sì. «Riportala a casa», gli sussurrò prima di allontanarsi e sparire. 

Sherlock fissò suo fratello, ma aspettò che facesse lui la prima mossa.

«E’ da quando hai rapito sua figlia che Demetra minaccia di porre fine a tutto.» Mycroft lo guardò con una punta di noia. «E’ davvero necessario tutto questo? Scegli un’altra donna, una dea se vuoi, o una mortale se preferisci e le farò dono di vita eterna.»

«No», rispose Sherlock. «E’ lei che voglio.»

Mycroft iniziò a spazientirsi. «Lei non la puoi avere. Ti dò ancora questa notte, Sherlock. Tornerò qui domani mattina all’alba e voglio trovare la ragazza. Solo lei. Tu puoi rimanere nel tuo regno. Hai già causato fin troppi problemi qui fuori, fratellino

E su quelle parole, senza dare tempo al fratello di replicare, Mycroft sparì.

Sherlock imprecò.

 

§

 

Erano passate settimane da quel giorno e Molly aveva visto il cielo cambiare lentamente. Non c’era più azzurro nella fessura, ma grigio e bianco. 

Aveva visto le file d’anime in attesa di attraversare il fiume e ogni giorno che passava sembravano essere sempre di più. Aveva sentito sussurrare parole come “fame” e “freddo”, accompagnate dai lamenti sui raccolti perduti per i violenti temporali e le bufere di neve. 

Sapeva che si trattava di sua madre. Sapeva che lo stava facendo perché la rivoleva indietro. Ma non riusciva comunque a giustificarla. Se Sherlock aveva sbagliato, sua madre non stava facendo di meglio.

Lasciò il letto, incapace di dormire, e vagò per i corridoi bui fino a raggiungere la sala del trono. Lo trovò lì, come sempre. Sembrava non dormire quasi mai, Sherlock. O non più, almeno, da quella volta in cui lei lo aveva visto. 

Era seduto sul trono, con gli occhi chiusi e le mani unite sotto il mento, come faceva sempre quando rifletteva e come Molly ormai aveva imparato. Si avvicinò silenziosamente e si sedette ai suoi piedi. Non si fermò a riflettere su come quel movimento ormai le venisse naturale. 

Lui non si mosse, ma dopo qualche istante Molly avvertì la sua mano catturare una ciocca dei suoi capelli. Non le disse nulla, accarezzandola delicatamente, quasi la stesse studiando. 

Molly rimase immobile, anche se quel gesto - quella piccola cosa sciocca - le aveva per un attimo tolto in fiato e le aveva fatto chiudere gli occhi, immaginando quelle dita altrove sul suo corpo, sulla sua pelle. 

Era ridicolo che si sentisse così. Non poteva dire di conoscerlo davvero e, per l’amor del cielo, lui l’aveva comunque rapita. Eppure, a parte qualche raro momento di freddezza, non era mai stato cattivo o crudele con lei. E ricordava ancora quel bacio che le aveva dato e di come l’aveva fatta sentire, quel piacere caldo che era nato nello stomaco e si era diffuso nel corpo. Lo aveva sognato. Lo sognava. E una parte di lei - lo sapeva, era inutile negarlo - lo voleva.

Avevano passato del tempo insieme, in quelle settimane. Sembrava diventato naturale per loro trovarsi nella serra o in quella sala. A volte lui parlava per ore, di tempi in cui lei non era ancora nata, e di com’era la terra e di com’erano i mortali. A volte parlava delle guerre a cui aveva partecipato, ma dopo un po’ quei discorsi lo facevano sempre rifugiare nel silenzio. Allora era lei che cominciava a parlare, e gli raccontava di fiori e frutti e di cose sciocche che mortali e dei avevano fatto. Storie che probabilmente lui conosceva anche meglio di lei, ma non sembravano comunque annoiarlo troppo.

Ma quel giorno, nella sala del trono, Molly poteva sentire che c’era qualcosa di diverso. E quando lui abbandonò la ciocca di capelli, le sembrò che una nuova aria gelida avesse riempito la stanza. 

«Devi andare», aveva detto.

Non era sciocca, sapeva a cosa stesse alludendo, ma non riuscì a fermare la domanda comunque. «Dove?»

«A casa. Torna da tua madre, torna nell’Olimpo.»

Il tono di voce era piatto e quasi paziente, come se stesse cercando di spiegare qualcosa di molto semplice ad una persona molto stupida. 

«Ma...hai detto che hai bisogno di me. Il tuo regno, voglio dire», si corresse voltandosi per guardarlo. 

Lui si alzò dal trono evitando di toccarla e senza guardarla. «Quello era allora. Adesso è diverso.» Fece qualche passo, il suono delle sue parole che si perdeva nella volta della sala. «Non ne vale la pena. Tu, francamente, non ne vali la pena. Per quanto i mortali siano solo fonte di irritazione e problemi, non posso permettere che muoiano così, solo perché tua madre ha deciso che le manca la sua bambina. E comunque tu non hai mai chiesto o voluto essere qui, quindi», Sherlock si voltò e la guardò per la prima volta da quando aveva iniziato a parlare. Le indicò il portale della sala. «Sentiti libera di andartene. Anzi, vattene. Subito. John sarà più che lieto di indicarti l’uscita.»

 

§

 

Se n’era andata.

Non aveva replicato, aveva solo aspettato. E quando lui non aveva aggiunto altro, lei senza dire una parola se n’era andata.

Aveva appoggiato la pelliccia sul trono di Sherlock, si era fermata un istante davanti a lui per fargli un inchino e se n’era andata. 

Aveva trovato John, gli aveva chiesto di accompagnarla all’uscita e se n’era andata.

Non aveva esitato sulla soglia dell’oltretomba e senza guardarsi indietro, se n’era andata.

 

Sherlock sapeva tutto questo. L’aveva vista, l’aveva sentita e quando aveva lasciato il suo regno, non l’aveva vista e sentita più.

 

§

 

Molly era sdraiata nel suo letto, in quella stanza così diversa, così luminosa e calda. 

Aveva una mela in mano e se la passava da una mano all’altra, guardando il soffitto.

Sapeva perché Sherlock l’aveva finalmente lasciata andare e sapeva anche che le parole che aveva pronunciato, le aveva dette solo per rendere più facile il distacco. O almeno sperava che fosse così.

E se lei se n’era andata, era perché aveva bisogno di pensare, lontana da lui e dal suo regno.

Non che si fosse dimostrata cosa più facile da fare lì, nell’Olimpo. 

Sua madre aveva voluto celebrare il suo ritorno con una festa che era durata due giorni (e da cui lei si era allontana dopo le prime due ore) e per il resto della settimana se Demetra non era stata occupata a dire a chiunque fosse disposto ad ascoltarla di “quanto, oh quanto mi è mancata la mia cara bambina”, allora era stata intenta a parlare male di “quell’orribile Sherlock” e di come se non fosse stato per Mycroft, gliela avrebbe data lei una lezione che lui non avrebbe dimenticato facilmente. «Ma glielo fatta vedere comunque, no? Li ho uccisi uno ad uno quei piccoli mortali, finché non mi ha ridato indietro mia figlia.»

 

Molly, francamente, non sapeva se essere più disgustata dai quei commenti o stanca di tutte le attenzioni che aveva ricevuto e stava ricevendo.

Aveva preso l’abitudine di rifugiarsi in camera sua e chiudersi dentro per ore, e pensare pensare pensare. Doveva cercare di capire, fare chiarezza.

Sherlock non era terribile, questo lo sapeva. Aveva anche cercato di spiegarlo a sua madre, ma lei non aveva voluto ascoltarla. Di come Sherlock sapesse essere gentile, a modo suo. Il fatto, poi, che avesse un amico come John parlava a suo favore. Era intelligente e diversamente dalla maggior parte degli dei che conosceva, non era concentrato esclusivamente su se stesso. Solo un poco, ogni tanto.

E, pensò lanciando la mela in aria e riprendendola, decisamente sa baciare, che è sempre un’ottimo punto a favore di chiunque. Soffocò una risata a quel pensiero, e si alzò dal letto avvicinandosi alla finestra. Laggiù, in fondo, da qualche parte c’era un uomo che aveva voluto farla sua regina e l’aveva poi lasciata andare. Un uomo che aveva scelto la solitudine per salvare la progenie mortale. Un uomo che non aveva mai detto di amarla, ma che lei pensava e credeva e sperava che fosse così. Aveva usato quelle parole così spesso durante i suoi giorni nell’oltretomba, perché sembrava sempre che con Sherlock non ci fosse mai nulla di assolutamente certo. E quindi l’unica cosa possibile da fare era pensare e credere e sperare. 

E ora lui le mancava. Non era ancora sicura cosa fosse quel sentimento che provava, pur sapendo che era cominciato da qualche parte nell’oscurità degli Inferi. Voleva rivederlo, di quello era certa. E voleva parlargli, sapeva anche questo. E possibilmente, avrebbe voluto baciarlo di nuovo. Ma avrebbe voluto farlo lei, quella volta. 

Molly sorrise. Pensava finalmente di sapere quello che doveva fare.

 

§

 

«Per favore», disse John esasperato quando vide Molly sulle rive dell’Acheronte. «Per favore, dimmi che sei qui per sbaglio o che hai dimenticato qualcosa. Perché evidentemente non sei morta.»

Molly gli offrì un sorriso pieno di scuse. «Avrei bisogno di passare dall’altra parte.»

John scosse la testa. «No. Non posso. Davvero. Non solo è vietato da molte, troppe leggi, ma soprattutto per il tuo bene, non posso. Sherlock è...diciamo che non è dell’umore più adatto per ricevere visite. Non credo che-»

Molly gli appoggiò una mano sul braccio. «John, ti prego.»

John sospirò. Nella sua vita mortale non era mai riuscito a dire di no ad una donna graziosa. Apparentemente era un’abitudine che aveva portato con sé anche nell’oltretomba. «Se non fossi già morto», le disse porgendole una mano e aiutandola a salire sulla barca, «di sicuro Sherlock mi ucciderebbe per quello che sto facendo. Immagino che dovrò iniziare a cercarmi una nuova occupazione.»

Lei sorrise alle sue parole, ma non riuscì a nascondere l’ansia che provava, anche se John non vi diede troppo peso.

Era normale, aveva pensato. Tutta quella situazione era complicata e di certo Sherlock non era una divinità con cui era facile parlare, anche quando era di buon umore - cosa che non era mai successa negli ultimi tempi. Quindi era solo naturale che lei si sentisse agitata e preoccupata.

I primi dubbi sulle vere intenzioni di Molly si affacciarono nella mente di John solo quando arrivarono dall’altra parte del fiume.

«Dovresti trovarlo nella sala del trono», aveva detto a Molly aiutandola a scendere dalla barca.

«Ah...certo, grazie», aveva replicato lei, per un attimo titubante.

«Vuoi che ti accompagni?»

«Oh, no», aveva risposto immediatamente Molly alzando le mani e indietreggiando lentamente. «Ricordo la strada.»

«Sei sicura? Posso-»

«No, no. Faccio da me, grazie!»

John aveva aggrottato la fronte. C’era qualcosa di strano, lo poteva sentire, ma non riusciva a puntare il dito su qualcosa di preciso. «Sei qui...sai, per parlargli, giusto? Per fargli capire che ha preso la decisione migliore, no?»

Molly, dall’ingresso del corridoio che portava alla sala del trono, sorrise quasi imbarazzata. «Certo. Parlargli. Assolutamente sì.»

John, ancora sulla barca, la guardò sparire nell’ombra con quella fastidiosa sensazione che qualcosa non era come avrebbe dovuto essere. Poi un pensiero gli passò per la testa. Oh no, pensò. No, no, no, non può essere. «Dannazione!», mormorò tra i denti saltando fuori dalla barca. 

 

§

 

«E’ qui.»

«In che senso, è qui?» 

Che era una domanda sciocca da fare e Sherlock ne era cosciente, ma al momento aveva altro per la testa.

«Nel senso che l’ho trasportata da una riva all’altra dell’Acheronte e ora è qui», replicò John innervosito. 

Sherlock lo guardò come se volesse ridurlo in cenere - e avrebbe potuto, se avesse voluto. «Di grazia, John, spiegami quale parte di “non deve più mettere piede qui” non ti è sembrata chiara, quando ti ho dato l’ordine.» Abbandonò il trono e lasciò la sala, John subito dietro di lui. «E quale parte di farle attraversare il fiume ti è sembrata un’idea brillante.»

«Pensavo volesse parlarti. Pensavo che potesse aiutarti a...a...», John fece un gesto irritato con la mano, «non so, a farti sentire meglio.»

Sherlock si fermò e rivolse uno sguardo gelido all’amico. «Non ho bisogno di sentirmi meglio, John. Sto perfettamente bene, grazie mille. Ora vediamo se siamo ancora in tempo per fermarla, prima che faccia qualcosa di irrimediabilmente stupido.»

Raggiunsero la serra poco dopo e già sulla soglia - lo sentiva, lo sapeva - Sherlock non ebbe dubbi che Molly si trovasse lì dentro. Fermò John con una mano. «Aspetta qui», gli disse quasi in un sussurro.

Si stupì dell’esitazione che provò nell’entrare. Era nervoso, si rese conto. Per l’amor del cielo, pensò dirigendosi verso il centro, un altro ottimo motivo per non averla accanto, se è a questo che mi riduce.

Ma quel pensiero sparì nell’attimo in cui la vide seduta sul bordo della fontana, nella stessa posizione in cui lei lo aveva trovato non molto tempo prima. E tra le mani, circondato con delicatezza dalle sue dita, teneva un melograno aperto, i semi rossi lucidi come rubini.

«Non vuoi quel frutto.»

Molly non si voltò a guardarlo, ma accennò una risata. «Mi dicesti la stessa cosa di quel fiore.»

Sherlock si avvicinò alla fontana e si sedette di fronte a lei. «Non mi sbagliavo. Non avresti mai dovuto venire qui, è stato un errore da parte mia. Non fai parte di questo mondo e di questo mi scuso.»

Molly non rispose subito. Raccolse le gambe al petto e si abbracciò le ginocchia. Sorrideva. «Quindi sei capace di farlo.»

Sherlock la guardò confuso. «Cosa?»

«Scusarti.»

«Apparentemente.»

Lei rise. «Bene. Perché credo in te. E visto che non sei perfetto e io ho tutte le intenzioni di restare qui, sarà molto più facile convivere se sai come chiedere scusa.»

Sherlock si alzò dalla fontana. «No. Assolutamente no.»

Molly scosse la testa. «Troppo tardi.»

«Non è mai troppo tardi.»

Lei alzò un sopracciglio. «...disse il signore degli Inferi.»

Sherlock ignorò il commento. «Posso sapere cosa stai cercando di dimostrare?»

Molly sospirò. «Non sto cercando di dimostrare nulla. Mia madre ti ha regalato un giardino, io ti regalo me stessa. Considerala una tradizione di famiglia.»

Lui non sembrò apprezzare l’umorismo. La prese senza delicatezza per un braccio - e sapeva che ci sarebbero stati segni dove l’aveva afferrata - e l’alzò di peso dalla fontana. «Devi andartene. Ora.»

«Non posso. Te l’ho già detto, è troppo tardi.»

Solo in quel momento Sherlock lo notò. Il melograno che lei ancora teneva in mano e i semi che mancavano. «Quanti?», gli chiese infuriato. «Quanti?»

«Sei», mormorò Molly per un attimo impaurita. Ma si fece coraggio e lo guardò sfidandolo. «E li avrei mangiati tutti, se tu non mi avessi interrotto.»

Lui la lasciò andare quasi spingendola. «Non sai quello che hai fatto. Non sai quello che stai facendo. I semi di quel frutto ti proibiscono di tornare nell’Olimpo e tu...tu non appartieni a questo regno.»

Molly respirò profondamente. «Ma appartengo a te, ora. Se mi vuoi.»

Sherlock serrò le mani abbassando lo sguardo sul pavimento. «Se ti voglio...»

Lei lasciò cadere il melograno e si avvicinò a Sherlock con passi cauti. Gli sfiorò una guancia e lo guardò chiudere gli occhi, prima di nascondere la mano nei suoi capelli ed alzarsi sulle punte dei piedi. Appoggiò la fronte a quella di Sherlock e lasciò passare solo un attimo prima di sfiorargli le labbra con le sue. Fu un bacio lento e delicato, all’inizio. Ma quando lui le avvolse la vita con le braccia e la strinse a sé, Molly si abbandonò al calore della sua bocca e della sua lingua, e a quel corpo che sembrava essere stato fatto per accogliere il suo.

Molly sospirò quando le loro labbra si divisero. 

«Tua madre chiederà la mia testa a Mycroft», le disse Sherlock con un tono quasi divertito. Con le mani intrecciate dietro la schiena di lei, la strinse a sé di nuovo assaporando le curve morbide del suo corpo, il profumo della sua pelle, il calore del suo respiro. «Ma temo che la cosa non sia in cima alla lista delle mie priorità, al momento.»

Molly rise, baciandolo sulla guancia. «Mia madre si accontenterà del mio aiuto quando sarà necessario. Per il resto del tempo, sono a disposizione per prendermi cura delle tue priorità.»

Sherlock le sorrise, prima di chinarsi su di lei e baciarla ancora e ancora e ancora, trasformando quella catena di baci in uno solo, profondo e affamato, necessario e assolutamente squisito, come il lamento di piacere che lei aveva sospirato sulla sua bocca.

Si stupì ricordandosi di come, la prima volta che si erano incontrati, avesse pensato a lei come ad un gioco, un dispetto fatto ai danni di suo fratello e al resto dell’Olimpo, perché voleva luce e calore per il suo regno e l’unico modo per ottenerli era rubarli. 

E ora c’era solo questo, invece. Il desiderio di possederla, la necessità di farla sua, entrare nel suo corpo, amarla, farle pronunciare il suo nome - ancora e ancora - e averla, la sua bocca, i suoi seni, le sue gambe, il suo sesso, ogni suo respiro. Vederla abbandonarsi al desiderio, assecondare il suo corpo in un ritmo veloce, bramoso, impaziente, e la sua voce chiedere di più e ancora e non smettere. E accoglierla e farsi accogliere, nel momento in cui entrambi vennero, senza fiato e perfettamente appagati.

 

§

 

Come regola generale, John non disubbidiva agli ordini di Sherlock.

Ma quel giorno, dopo averlo visto entrare nella serra, John aveva contato fino a dieci e se n’era andato, ignorando a tutti gli effetti quello che gli era stato comandato. 

Poteva anche essere un immortale, Sherlock, e poteva anche essere il signore del regno degli Inferi e suo padrone, ma ciò non toglieva che una volta John era stato un uomo e come tale aveva riconosciuto lo sguardo che aveva visto sul volto di Sherlock in molti altri uomini prima di lui. 

Desiderava quella piccola dea, la figlia di Demetra, e conoscendolo come John lo conosceva, l’avrebbe avuta. E lui non era particolarmente interessato ad essere presente, quando sarebbe successo. 

Tutto il resto - i “non deve mettere più piede qui”, “è solo per il regno”, “non ne sono innamorato” - erano solo stupidaggini. 

John sorrise. 

Poteva anche essere il dio degli Inferi, Sherlock, ma quando si trattava di sentimenti era esattamente come il resto degli uomini mortali. Uno sciocco.

 

 

 

Fin

 

 

 

 

 

(Grazie mille a chi è arrivato fin qui, sperando che vi sia piaciuta un pochino.)

 

 

 

 

 


 

 

 

 

  
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