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Autore: Kim_Pil_Suk    08/02/2014    1 recensioni
E' un AU incentrata sulla Thaluke.
Primo capitolo:
" - Piacere di conoscere la sua famiglia, May. - dissi sorridendole. - Io mi chiamo Thalia Grace.
- Che bel nome! - esclamò May. Osservò i miei vestiti. - Forse è meglio rimediare a quel casino. - disse per poi alzarsi. Guardò ora me ora il magazzino. Come un fulmine entrò nella stanza aprendo la porta semichiusa.
Tornò dopo pochi minuti. Appeso ad un braccio aveva qualcosa che sembrava un vecchio completo da muratore.
- Scusa, ma non abbiamo di meglio. - disse dispiaciuta. Stavo per dirle che non serviva ma ringrazia e mi infilai nella stanzina che lei mi aveva gentilmente indicato. "
Dal secondo:
" Mi svegliai solo quando sentii il campanello della porta suonare insistentamente.
Mi alzai di malavoglia e andai ad aprire la porta. Davanti a me si trovava Annabeth, la mia migliore amica.
[ ... ]
- Annabeth, che succede? - le chiesi ancora con gli occhi socchiusi. Mi guardò arrabbiata e sorpresa allo stesso tempo.
- Che succede? Mi chiedi che succede? - disse esasperata. - Hai cacciato via Luke senza sentire cosa aveva da dire. "
[ Partecipante al concorso "L'altra faccia di San Valentino" sul Forum di EFP ]
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Castellan, Talia Grace
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nome autore: Kim_Pil_Suk
Titolo storia: Forse in un altro mondo...
Titolo capitolo: Famiglia Castellan.
Rating: Giallo
Pairing: Thalia/Luke - Thaluke.
Genere: romantico - fluff
Note: -non sono presenti note-




Allungai una mano in avanti e quando la ritirai indietro era ricoperta di acqua piovana.
La pioggia continuava a scendere. Erano dei minuti che continuava a scendere senza fermarsi e non ne potevo più. Avevo pure dimenticato l'ombrello quella stessa mattina.
Alzai il polso e guardai l'ora sul mio orologio. Le 5:27. Stava già facendo buio e fra poco sarei dovuta tornare a casa a fare le faccende.
Sospirai sconsolata. 
Non pensai che sarei tornata a casa tanto presto.
Mi appoggiai alla vetrina dietro di me e sospirai affranta. Colsi un debole bagliore con la coda dell'occhio. Mi voltai. 
Nella vetrina erano esposti decine di acchiappa-sogni. Ognuno di colore, grandezza e forma diversa. Ne osservai uno. Era viola, piccolo e con dei piccoli strass sulle piume che lo facevano risplendere dei colori dell'arcobaleno.
Desiderai che smettesse di piovere con tutte le mie forze. Strinsi gli occhi.
Li riaprii. Niente. Sospirai. Fa niente, non ci credevo davvero. 
Mi voltai di nuovo verso la strada. Le macchine sfrecciavano veloci, pericolosamente vicine al marciapiede. Il cielo era grigio e punteggiato di nero. Una fitta nebbia si stava abbassando e i palazzi sembravano stranamente minacciosi.
Provai di tutto pur di distrarmi. Contai le gocce di pioggia, ma queste andavano troppo veloci. Provai a contare i secondi ma l'iperattività mi fece smettere arrivata al 143. Avevo sonno.
Un tintinnio di campanelle alla mia sinistra mi fece voltare di scatto. 
Un ragazzo stava sulla porta e si guardava attorno. In mano stringeva un ombrello rosa.
Nonostante stonasse con la sua presenza mi venne da pensare che fosse veramente figo.
Si portò una mano nei capelli dorati, come se fosse esasperato. Infine sembrò accorgersi di me. Posò lo sguardo su di me e fece un sorriso accennato, soddisfatto.
Si avvicinò a me e mi guardò dall'alto, con un sorriso amichevole e furbo.
- Tieni. - mi porse l'ombrello. - Mia madre... - mi accorsi che una bella donna sulla quarantina ci osservava con un sorriso sornione dal bancone del negozietto. - Mia madre pensa che avrei dovuto almeno darti un ombrello. - disse con una nota di imbarazzo. Chinai leggermente il capo verso la signora, con un sorriso gentile. Lei mi rispose con un cenno gentile della testa.
Mi rivolsi al ragazzo. - Grazie mille. - osservai prima lui poi l'ombrello. Sembrava davvero strano un ombrello in mano a un ragazzo da un aspetto così maschio e il fisico asciutto.
Sembrò accorgersi della mia espressione. - Non... non è mio. E' di una cliente che l'ha dimenticato qua settimane fa e non è più venuta a prenderlo. - disse guardandomi dritta negli occhi. Cercai di annuire senza perdermi nei suoi, celesti come il cielo. - Allora? - mi disse allungando ancora di più l'ombrello verso di me, che andò a toccarmi la maglietta nera con i teschi. 
- Eh? Ah. Sì, grazie mille a te e a tua madre. - gli dissi prendendogli l'ombrello di mano. Spostai lo sguardo sulla donna al bancone. Ora non era più sola. Con lei c'era un uomo della sua stessa età, asciutto, alto, moro e con due grandi e severi occhi castani. Inarcava le sopracciglia, affranto. 
Sorrisi appena alla donna e lei tirò una gomitata nello stomaco dell'uomo - che fece una smorfia di dolore - e, tutta concitata, gli disse qualcosa. Lui storse la bocca, affranto e si strofinò lo stomaco con finta sofferenza. Mi strinsi nelle spalle.
- E' una pettegola, lo so. - borbottò appena il ragazzo davanti a me. Stava guardando nella mia stessa direzione. - Lasciala perdere, poi si stancherà. Lo fa sempre. - disse sospirando. Annuii appena.
- Comunque grazie ancora. - mi voltai verso la strada. - Con permesso. - alzai l'ombrello e lo aprii. Una cascata di brillantini di tutti i colori si riversò sui miei vestiti, appiccicandosi alla mia maglietta, ai miei pantaloni di pelle e ai miei anfibi. 
Da dentro il negozietto provenivano risate forti e grida. Due gemellini dai capelli color carota correvano rincorsi dalla madre che gridava loro minacce e di quanto fossero dei "cattivi bambini". Intanto il padre si teneva la pancia dalle risate. 
In un primo momento non capii cosa stesse succedendo poi compresi. Quei due Pel di Carota mi avevano fatto uno scherzo.
- Oh miei dei! - esclamò il ragazzo di fianco a me. Sembrava sorpreso ma allo stesso tempo sembrava che si trattenesse dal ridere. - Scusa. I miei fratellini sono delle pesti. A loro piace un sacco fare gli scherzi.
Scoppiammo in una fragorosa risata. Era piuttosto buffa, come scena.
Ci fermammo solo dopo un bel po'. La porta del negozietto di aprì e la signora di prima si catapultò fuori. Mi corse incontro con uno sguardo mortificato.
- Oddei! Scusa tanto. I miei figli sono delle pesti. Scusa davvero, non volevo. Sono dei maleducati. Scusaci. - disse in fretta mangiandosi le parole dall'imbarazzo e dalla preoccupazione.
Sorrisi alla signora e agitai una mano. - No, non è niente signora. 
Le rughe fra le sue sopracciglia sembrarono appiattirsi appena. - Davvero?
- Davvero, signora. - le sorrisi rassicurante e lei tornò a calmarsi. Sospirò portandosi una mano al cuore. 
- Vieni dentro. Avrai freddo e vorrai liberarti di... quei cosi. - disse indicando la mia maglietta. Non capii se si riferisse ai brillantini o ai miei vestiti.
Feci per ribattere ma lei mi trascinò dentro per il gomito. Lanciai un occhiata al biondo accanto a me e lo vidi che si tratteneva dal ridere. Alzò le spalle sorridendo.
L'interno del locale era accogliente e tiepido, proprio come sembrava da fuori. Oggetti strani e oggetti di tutti i giorni erano appesi alle pareti e appoggiati sulle mensole, in equilibrio perfetto.
- Ragazzi! Non correte nel negozio, quante volte ve lo devo dire? - esclamò la donna verso i bambini che corsero in una stanza che doveva essere il magazzino.
- No, davvero signora, non serve che lei si disturbi. - le dissi mentre ci avvicinavamo al bancone. L'uomo che doveva essere il marito alzò lo sguardo annoiato da una pila di fogli e mi guardò, circospetto. Poi sembrò capire che non ero un pericolo pubblico e accennò un sorriso.
- Ma quale disturbo. - disse indicando uno sgabello. Mi ci misi a sedere senza discutere. - E chiamami May, per piacere. - disse cordialmente con un caldo sorriso.
- Ok, signora-- ehm, May. - sorrisi incerta. Lei ricambiò il sorriso.
- Io sono May Castellan. Lui è mio marito, Hermes Castellan. - disse indicando l'uomo dietro il bancone. Lui alzò lo sguardo e sembrò dirmi "se ridi del mio nome ti alzo i prezzi sulla merce". Gli feci un sorriso che poteva risultare strafottente. - I bambini di prima sono Connor e Travis. - e come se li avesse chiamati i bambini corsero fuori dal magazzino e si avvicinarono. Mi osservarono e io li osservai impassibile. Poi accennai un sorriso e loro se ne corsero via ridendo. - Invece lui è mio figlio Luke. - indicò il ragazzo biondo di prima. Se ne stava accanto all'uomo e sfogliava un libro. Alzò lo sguardo su di me e sorrise imbarazzato. Così, in quella posizione e con quel sorriso, sembrava identico al padre, nonostante il diverso colore dei capelli e degli occhi. La cicatrice che aveva sul viso storceva il suo bel sorriso.
- Piacere di conoscere la sua famiglia, May. - dissi sorridendole. - Io mi chiamo Thalia Grace. 
- Che bel nome! - esclamò May. Osservò i miei vestiti. - Forse è meglio rimediare a quel casino. - disse per poi alzarsi. Guardò ora me ora il magazzino. Come un fulmine entrò nella stanza aprendo la porta semichiusa.
Tornò dopo pochi minuti. Appeso ad un braccio aveva qualcosa che sembrava un vecchio completo da muratore hippie.
- Scusa, ma non abbiamo di meglio. - disse dispiaciuta. Stavo per dirle che non serviva ma ringraziai e mi infilai nella stanzina che lei mi aveva gentilmente indicato.
Indossai un paio di jeans srudici e una t-shirt che probabilmente aveva avuto i suoi anni di gloria tanti anni fa. La scritta "Pray for Africa" compeggiava su tutta la maglia con un colore blu elettrico su sfondo arancione. Entrambi sapevano di chiuso e incenso.
Da dietro la porta sentivo May e Luke Castellan che discutevano. Non riuscivo a distinguere le parole.
Mi infilai la mia giacca di pelle - l'unica cosa che non fosse stata attaccata in modo pesante dai brillantini - e uscii dalla stanzina. Luke fermò a metà una frase e incrociò le braccia al petto. Mi lanciò un occhiata e se ne tornò dietro la bancone.
- Thalia! Ti stanno davvero bene questi vestiti. Hai un bel fisico! - esclamò osservandomi. 
- Grazie. - le sorrisi e guardai l'orologio appeso alla parete dietro la parete. Le 6:14. - Grazie mille dei vestiti, May, glieli riporterò presto. Ma adesso devo proprio andare. - presi la borsa e me la misi in spalla. Ci infilai i miei vestiti pieni di brillantini e alzai lo sguardo su May Castellan. Sembrava piuttosto scontenta di dovermi lasciare andare, ma subito sorrise.
- Ma piove. Ti bagnerai tutta. - protestò lei, avvicinandosi.
- Non importa. Grazie mille per i vestiti e tutto il resto. - le sorrisi e uscii dal negozio. 
Uscita fuori mi accorsi che diluviava. La pioggia non cadeva più a gocce, ma bensì a secchiate. Lungo i maciapiedi c'erano pozzanghere grosse quanto mucche e profonde una decina di centimetri. 
La porta del negozietto si aprì, sbattendo contro la mia schiena e rischiando di farmi cadere.
- Oh. Scusa. - era il signor Castellan. - Mia moglie pensa che sia d'obbligo darti almeno questo. - disse porgendomi un ombrello. - Tranquilla, ho controllato che non ci fosse niente dentro. - disse ma dal suo sguardo capii che gli sarebbe piaciuto il contrario, invece. Non faticai a capire da chi avessero preso i due bambini.
- Grazie mille, signor Castellan. - lui mi sorrise amichevolmente ed entrò nel negozio.
Aprii l'ombrello e mi diressi verso casa. 
Mentre evitavo le pozzanghere e le macchine che sfrecciavano veloci mi ritrovai a chiedermi che giorno fosse. 
San Valentino. Ecco che giorno era. Era il quattordici Febbraio di un anno del tutto irrilevante. 
Come ogni anno lo passavo da sola. L'anno scorso ero rimasta chiusa in casa a mangiare Nutella. L'anno prima ancora avevo giocato a Just Dance fino ad addormentarmi sul lavandino con lo spazzolino in bocca. E l'anno ancora prima avevo ricevuto un muffin sformato da mio fratello.
Odiavo San Valentino con tutto il cuore. Mi ricordavo quando lo avevo trascorso sul mio letto a piangere la morte del mio cane all'età di 5 anni. Oppure mi ricordava che non avevo mai avuto un ragazzo, che non avevo mai dato il mio primo bacio o che non ero la classica ragazza amichevole della porta accanto.
Non lo avevo mai passato con nessuno e nessuno aveva mai voluto passarlo con me. Tutti gli anni, questo giorno, mia madre se ne andava via di casa e non tornava per tutto il giorno. Non so cosa facesse o cosa si aspettasse. Forse voleva vedermi a casa con un ragazzo a guardare la tv, abbracciati. Ma ancora non era successo e, sinceramente, non pensavo sarebbe mai successo.
Forse era per il mio aspetto da ragazza ribelle o forse era per il mio carattere schivo, ma tutti i ragazzi non mi filavano di striscio. Dopo un po' ci si abitua ma non nego che qualche volta mi sarebbe piaciuto stare con un ragazzo, baciarlo e abbracciarlo.
Schivai per un pelo lo schizzo di una pozzanghera provocato da un taxi che passava a tutta birra. I miei pensieri si rivolsero poi a mia madre. Sicuramente sarebbe tornata a casa tardi, ubriaca come sempre. I capelli biondi spettinati e le spalline del vestito che le scivolavano. Mi avrebbe gridato di pulire la casa, di cucinare, di badare a Jason - mio fratello di 9 anni - e farlo addormentare. Tutte cose che avrebbe dovuto fare lei.
Dei passi veloci dietro di me e il suono di un clacson portarono la mia attenzione di nuovo al mondo reale. Mi trovavo nel mezzo di strada e i fari di una macchina si avvicinavano, veloci.
Delle braccia forti mi cinsero la vita e mi spostarono, appena in tempo.
- Se vuoi morire non penso che questo sia il modo migliore, sai? - disse una voce dietro di me. 
Mi voltai. Davanti a me, eretto nella sua figura, si trovava Luke Castellan. Guardava la macchina ormai lontana. Lo guardai sorpresa.
- Grazie. - mormorai, ancora un po' sorpresa.

Cinque minuti dopo eravamo all'incrocio tra la Hillhouse Pl e la Mountainhouse, uno accanto all'altro. Lui reggeva l'ombrello in una mano mentre io stringevo la mia sulla borsa. Guardavamo entrambi in avanti, in un silenzio imbarazzato.
Mi aveva detto che sua madre gli aveva gridato di seguirmi e accompagnarmi fino a casa. Lui aveva aggiunto qualcosa su quanto fosse petulante e poi era corso da me, appena in tempo per evitare di trovarmi morta sul ciglio della strada. In realtà a me lui non era sembrato molto scocciato.
- I tuoi fratelli... - iniziai io.
- In realtà sono due bambini che mia madre ha adottato. Sono miei fratellastri. Ma fratelli va bene. - disse con un tono di voce imbarazzato e pensieroso.
- Ok. I tuoi fratelli, sono sempre così? Intendo dispettosi. - dissi osservando un uomo con la ventiquattrore sulla testa che ci sfrecciava davanti.
- Oh, sì! Eccome! Fanno anche scherzi peggiori. - disse lui.
- Mi piacciono. - sentenziai. Con la coda dell'occhio mi accorsi che stava sorridendo.
Camminammo in silenzio per altri due isolati. A casa mia mancavano 500 metri, più o meno.
- Invece la tua famiglia? Hai fratelli? - chiese lui improvvisamente. Spostai lo sguardo sul cemento bagnato per terra. Non mi piaceva parlare agli estranei della mia famiglia. - Se non vuoi non dirmelo. - disse lui, come se avesse letto nei miei pensieri.
- Mio padre è sempre in viaggio e torna a casa poche volte all'anno. Mia madre è un alcolizzata depressa che non riesce a tenersi un lavoro per molto. E sì, ho un fratello più piccolo. - dissi infine tornando a guardare davanti a me. 
Lui non commentò e notai che non aveva ne sorriso ne aveva un espressione di pena e compassione sul volto. 
- Come si chiama? - mi chiese. Lo guardai stranita. - Tuo fratello. - disse continuando a guardare davanti a se.
300 metri a casa mia.
- Jason. 9 anni. - sorrisi debolmente pensando al mio fratellino. Era un bambino vivace e turbolento. Siamo completamente diversi. Lui biondo dorato, io corvina. Lui ha una pelle abbronzata, io sono pallida come un lenzuolo. L'unica cosa che ci accomuna sono i penetranti occhi blu elettrico. Lui ha perfino una cicatrice sul labbro che si era fatto quando l'anno scorso aveva cercato di mangiarsi una spillatrice.
- Come te la sei fatta? - chiesi improvvisamente. 
- Cosa? - mi chiese perplesso. 
- La cicatrice. - chiesi. Volevo saperlo. Sembrava piuttosto interessante come cosa.
Osservai i suoi capelli bagnati da delle gocce di pioggia e la sua felpa sportiva rovinata e bagnata. Dovevo ammetterlo: era proprio un bel ragazzo.
100 metri a casa mia.
- Quando avevo 13 anni andai a fare una commissione per mio padre. Non andò molto bene. Un cane mi atterrò e con una zampa mi procurò questa. - disse sfiorandosi la cicatrice con le dita.
Annuii piano e alzai lo sguardo. Un grosso palazzo era piazzato lì davanti a noi. Un condominio fatiscente con la vernice rosa che cadeva a pezzi. 
- Io abito qui. - indicai il palazzetto. Lui lo studiò storgendo la bocca.
Ci fermammo davanti al portone, al riparo dalla pioggia. Mi girai verso di lui e lo guardai. Lui fece lo stesso. Continuava a tenere l'ombrello alto.
Sorrisi appena. - Grazie mille del passaggio. - dissi. "Anche se non serviva." pensai. 
Infilai una mano nella borsa e cercai le chiavi. Trovate le chiavi alzai lo sguardo. Il viso di Luke era pericolosamente vicino e mi fissava negli occhi come se cercasse qualcosa.
Trattenni il fiato. La mano alzata con in mano le chiavi e gli occhi spalancati. 
Lui mi prese il polso con la mano libera. Il polso con il mazzo di chiavi e l'orologio.
Passarono dei minuti, forse, prima che uno dei due parlasse. Fu lui a rompere il ghiaccio.
- Hai dei begli occhi. Thalia. - sentenziò alla fine. Buttai fuori tutta l'aria e rincominciai a respirare. E io che mi aspettavo chissà cosa
Mi accorsi che quella era la prima volta che mi chiamava per nome.

E proprio quando pensavo che lui si sarebbe allontanato dalla mia faccia si avvicinò ancora di più. Abbassò l'ombrello coprendoci agli sguardi dei passanti e sfiorò le mie labbra con le sue. Fu un attimo e fu un tocco così leggero che pensai addirittura di essermelo immaginato.
Mentre lo fissavo con gli occhi sgranati lui sorrise curvando la cicatrice e raddrizzò l'ombrello.
- Bene. Ci si vede domani, Thalia. - disse per poi andarsene via, disinvolto. 
Lo guardai appena allontanarsi e mi sembrò di notare un sorriso sornione e un leggero rossore dipinto sul suo volto. 
In quel momento avrei voluto gridargli dietro che era un idiota o qualsiasi altro insulto, ma non riuscivo proprio a muovermi.
Raccolsi tutta la mia forza di volonta e alzai il polso per controllare l'ora. L'orologio non c'era più. Guardai nella direzione in cui era sparito lui e gridai frustata e arrabbiata. - Idiota! - gridai al vuoto. Alcuni passanti si girarono straniti.
Strinsi le chiavi nelle mani, feci scattare la serratura, salii su in casa ed entrai.
Sulla porta c'era mio fratello che mi sorrideva divertito.
- Thalia ha il ragazzo. E lo ha pure baciato! - disse per poi coprirsi la bocca ridacchiando. 
- Taci! Dillo alla mamma e ti strangolo! - gli gridai dietro mentre lui correva in camera sua ridendo.
Solo in quel momento mi chiesi come Luke sapesse che il giorno dopo sarei andato da lui. Ma aveva ragione. 
Da quel giorno in poi andai tutti i giorni dalla famiglia Castellan, apposta per lui.
  
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