Serie TV > Teen Wolf
Ricorda la storia  |      
Autore: Shadows98_    09/02/2014    6 recensioni
Lydia non sta bene; sono mesi che non parla con Allison, la sua migliore amica, né con il resto dei suoi compagni, o con la sua famiglia, non mangia più, beve solo quando il malessere l’assale, non vuole ricevere nemmeno le visite di Stiles che, nonostante lei lo abbia rifiutato più volte, non perde la speranza di poter parlare con lei e aiutarla con tutto l’amore possibile.
Solo una cosa tiene viva Lydia, nonostante tutto, anche se, al tempo stesso, quella stessa cosa che le permette di sopravvivere, la sta uccidendo dentro, come il peggiore dei veleni: la chiave, quella che Jackson le regalò in una notte d’amore e di passione. La stessa chiave che gli consegnò poco prima che lui sparisse per sempre dalla sua vita e che lei disegna continuamente da un mese a questa parte, senza una ragione, come in un momento di trance.
Nessuna risposta darebbe una soluzione al dubbio che le vortica dentro, tranne una:
Jackson sta tornando in città.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jackson Whittemore, Lydia Martin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ancora una volta mi ritrovai seduta su una delle tante sedie dell’aula di musica, vuota da quando, dopo il concerto, la pianista era morta per quel dannato rituale.
La stessa notte in cui Jennifer, la nostra professoressa, aveva tentato di uccidermi.
La stessa notte in cui avevo scoperto la mia vera natura: Banshee, così mi aveva chiamato dopo che avevo gridato così forte da lasciarmi senza fiato.
Banshee.
Ancora un mistero ai miei occhi.
Sapevo solamente di non essere pazza come molti avevano creduto fino allora, o una sensitiva, come aveva pensato Stiles, ma sapere di non dover essere reclusa in un manicomio era già qualcosa.
Con delicatezza soffiai via i residui di gomma sul foglio dell’album da disegno e guardai la mia opera con disattenzione.
Era inutile ormai fingere interesse per ciò che la mia matita, trasportata dai pensieri della mia mente contorta, andava a tracciare seccamente sul foglio.
Scorrendo l’intero blocco da disegno, comprato meno di un mese prima, non si poteva di certo stupirsi quando ogni volta, in quella stessa stanza, disegnavo lo stesso minuscolo oggetto: la chiave.
Di tutte le dimensioni o posizioni possibili, con diverse ombreggiature o effetti di luce, l’oggetto era sempre quello, in ogni singolo foglio di quell’album, tanto che, ogni volta, da qualche giorno a quella parte, mi veniva il disgusto al sol pensiero che le mie mani avrebbero disegnato ancora quello che per me era stato motivo di tanta gioia e d’immenso dolore.
La stessa chiave che lui mi donò in un momento di assoluta gioia, in un momento di puro amore, prima che tutto si rovinasse repentinamente, senza via di scampo, prima che lui scomparisse per sempre dalla mia vita.
Non sapevo cosa fare per smettere, tra sogno e realtà lui era costantemente nella mia testa, nei miei pensieri, anche nei momenti più banali, ad esempio quando mi pettinavo i capelli o quando mettevo abbondantemente sulle labbra quel lucidalabbra alla ciliegia che gli piaceva tanto.
Era assurdo, questo lo sapevo bene, ma sapevo per certo che c’era un motivo se avevo disegnato quella chiave per quasi un intero mese, senza potermi fermare e pensare di disegnare tutt’altro, la matita tracciava i pensieri intricati della mia mente, senza che io potessi far qualcosa per evitarlo, come in una sorta di trance.
Non sapevo perché continuassi, o perché mi ritrovassi ogni volta in quell’aula quando accadeva, ma sapevo solo una cosa.
Forse era il mio istinto da Banshee a portarmi a pensare ciò che nella mia mente poteva sembrare assurdo, così come sarebbe parso se l’avessi detto ad Allison, a Scott o a Stiles… Già, Stiles, chissà come sarebbero divenuti i suoi occhi se glielo avessi detto, così, di punto in bianco dopo settimane intere in cui non gli avevo nemmeno rivolto la parola, così come a tutti gli altri.
Poteva sembrare assurdo alla mia mente e forse al mondo intero, ma non a me.
C’era un motivo per cui io disegnavo quella dannata chiave.
Una ragione, solo una:
Jackson stava per tornare in città.
 
 
Quella sera mi ritrovavo con mia madre in un noto locale di città, dal solito nome francese e sofisticato che a lei piacevano tanto e che io, invece, detestavo.
Col tempo avevo perso ogni interesse per la bellezza comune che tutti, quale periodo fa, mi avrebbero assegnato, quella di una snob con la puzza sotto il naso, ma non ora.
Non mi importava più cos’era bello o cosa non lo era, io stessa ero cambiata molto in quel periodo, quasi drasticamente: il mangiare sempre di meno mi aveva portato a dimagrire paurosamente, tanto che il mio corpo pareva non appartenermi più, il viso era smagrito, così come le mie braccia e le mie gambe, la mia carnagione era più pallida e i miei occhi parevano aver perso ogni lucentezza.
Quella sera, in particolar modo, la mia bellezza sembrava andata persa; dopo un’ennesima litigata con mia madre per il cibo che non avrebbe neanche sfiorato la mia bocca, ero rimasta sola davanti a quello specchio che sembrava modificare in qualche  modo l’immagine della ragazza che avevo imparato ad accogliere nello specchio: non più la Lydia di un tempo, ma una ragazza nuova, diversa.
Era il fantasma della Lydia che ricordavo, quella ragazza ormai non esisteva più.
Aprii il rubinetto del lavandino e passai l’acqua sulle mani scarne, per poi portare le dita bagnate sul viso, sentendo i miei bollenti spiriti rinfrescarsi man mano che le gocce cadevano dalla mia fronte o dalle punte dei miei capelli color fragola, mentre la figura della vecchia me sembrava ritornare pian piano a galla.
Una vecchia me, che odiavo fino allo sfinimento, quel lato fragile e autodistruttivo che avevo imparato a odiare con tutte le mie forze, tanto da fingere, il più delle volte, di essere una persona completamente diversa da ciò che realmente ero.
Mentre il mio cuore, che batteva ancora all’impazzata per la rabbia che era fuoriuscita da quella discussione con mia madre, tentava inutilmente di calmarsi, fu il suono acuto della suoneria di mia madre a farmi sobbalzare e costringendomi a voltarmi verso il bagno in cui si era rinchiusa per quasi mezz’ora.
Probabilmente le era scivolato dalla borsetta quando si era chinata per prendere la carta, o forse l’aveva dimenticato per terra quando si stava asciugando le lacrime che la sua stessa figlia le aveva portato. Non potevo che sentirmi in colpa per questo ma  il dolore che portavo dentro, come i dubbi che continuavano a vorticarmi dentro, mi saziavano già molto più che un piatto di pasta o una bella bistecca sul fuoco, solo che lei non riusciva ancora a capirlo.
Mi guardai intorno, come per assicurarmi di non essermi sbagliata, che forse il telefono apparteneva a qualche altra donna rinchiusa in bagno, forse nell’attesa proprio di quella chiamata.
Ma il telefono continuava a suonare insistentemente, quasi volesse dire “Avanti, Lydia, rispondi, sono qui.”, ed allora lo accontentai.
Con passo felpato raggiunsi la porta e, altrettanto silenziosamente, la aprii, per trovarmi poi il cellulare di mia madre tra i piedi, pulsando luminosamente il numero che la stava chiamando. Non era un numero sulla sua rubrica, ogni nome dei suoi colleghi era registrato rigorosamente con nome e cognome, ma non questo.
Ogni numero era scritto in grassetto nero, uno di fianco all’altro, in una sequenza a me sconosciuta.
Doveva essere certamente qualcuno che aveva sbagliato numero, forse qualche vecchietta che cercava, invano, di raggiungere una nipotina che non sentiva da tanto.
Doveva essere per forza così, ma risposi ugualmente.
«Pronto?», dissi, lasciando l’apparecchio a qualche millimetro dal mio orecchio.
Sentii un sussulto, poi un forte respiro.
Mi si fermò il cuore.
«Pronto? C’è qualcuno? Pronto?!», chiesi ancora, in agitazione.
Non era possibile.
Era qualcuno che aveva sbagliato numero, o forse uno scherzo.
Non era possibile.
Ma se fosse stato…?
«Jackson?», mi sfuggì quasi involontariamente dalle labbra schiuse.
Pronunciare quel nome fu una liberazione ma, nello stesso momento, sapere che poteva esserci lui dall’altro capo del telefono lasciava in me un grosso peso, come un macigno contro il mio petto che mi lasciava quasi senza fiato.
Un rumore in secondo piano mi fece sussultare.
«Avanti, Jack, andiamo! Lo show sta per cominciare!», una voce femminile mi fece fermare il cuore, eppure sentivo il sangue scorrere ovunque, rovente, fino a farmi bruciare il viso e gli occhi, gonfi di lacrime e di gratitudine.
Jack, aveva detto Jack! Non era Jackson ma non poteva che essere una coincidenza.
«Ragazzi e ragazze, buonasera! Benvenuti al Golden State, musica, alcol e divertimento! Godetevi la serata!», disse una voce più in lontananza, una voce metallica che proveniva di certo dal piccolo palchetto all’interno di un locale che conoscevo benissimo e che era a meno di venti minuti da dove mi trovavo.
E poi la chiamata si concluse.
 
 
Uscii di fretta e furia dal bagno, entrando nella sala con passi pesanti e rabbiosi, tanto da fermare su di me molti degli sguardi dei presenti, compreso quello di mia madre che, alzandosi, mi guardò con sguardo truce e imbarazzato.
«Dove pensi di andare, eh?», chiese, ma il suo tono non era quello di una vera e propria domanda. Tentai di darle le spalle ma lei mi fermò per un braccio, costringendomi a guardarla nei suoi occhi chiari.
«Tu sapevi che era qui, vero? Sapevi che sarebbe tornato.», dissi, sentendo gli occhi bruciare di lacrime amare. Ricordavo perfettamente di non aver mai lasciato il numero di Jackson a mia madre, o viceversa, nessuno dei due si sarebbe potuto contattare se l’avessero voluto. Ma sapevo anche che mia madre era molto brava a trovare qualcuno, quando voleva.
«Di cosa stai parlando?», domandò fingendo un sorriso, ma la conoscevo troppo bene, ed era più che evidente che sapeva perfettamente ciò a cui mi riferivo.
Le mostrai il telefono che aveva dimenticato nel bagno e lo posai violentemente sul tavolino.
«Lydia. Io…», la interruppi con un’occhiataccia furiosa.
Come aveva potuto farmi questo?
Come aveva potuto tenermi nascosta una cosa tanto importante?
Non sapeva come mi ero sentita quando lui era scomparso?
Non sapeva cosa avevo passato o semplicemente non le importava?
«Io vado da lui.», affermai, allontanandomi con uno strattone da lei, prendendo il giaccone verde sulla mia sedia e infilandomelo velocemente, senza neanche guardarla. Feci qualche passo in direzione dell’uscita, sentendo gli occhi di mia madre pesare sulle mie spalle come per ancorarmi lì, poi sentii i suoi passi raggiungermi, ticchettando rumorosamente sul parquet di legno scuro.
«Lydia…», costrinsi il mio corpo a fare retromarcia per guardare mia madre.
Pensai di vederla piangere, invece sulle sue labbra si era disegnato un lungo sorriso, come di soddisfazione, o di orgoglio.
Era la prima volta che mi vedeva reagire per qualcosa a cui tenevo dopo tanto, troppo tempo. Con un gesto rapido mi lanciò qualcosa di metallico che afferrai al volo e che, solo dopo, capii fossero le chiavi della sua auto.
Soffocai un gemito di commozione.
«Farai prima con quelle.», e poi mi diede le spalle, raggiungendo il cameriere pronto a prendere il suo sofisticato ordine francese…
 
 
«Jackson? Jackson?!», gridai, appena fui all’interno del locale gremito di gente.
La musica era così forte che non sentii nemmeno io le mie parole, figuriamoci gli altri che, appiccicati gli uni agli altri, ballavano e si muovevano a ritmo con la musica house, abbastanza fastidiosa alle mie orecchie.
Continuai a muovermi tra di loro, dividendo le coppie, andando contro qualcuno con grandi cocktail tra le mani o contro qualcuno di già ubriaco.
«Jackson!», continuai a chiamarlo insistentemente, guardandomi intorno alla ricerca dei suoi occhi azzurri all’interno di quella semioscurità.
Ero arrivata quasi al bancone quando qualcuno mi urtò con violenza, facendomi cadere a terra, una giovane con un bicchiere che conteneva una bibita rosa e un ombrellino di carta, e si voltò verso di me, sorridendo ebete e chiedendo scusa, o almeno immaginai che avesse detto questo, visto che la musica stava quasi per farmi sanguinare le orecchie. Con una sorta di risatina mi pose la mano, e stavo quasi per accettarla quando, a terra, qualcosa colpì la mia attenzione, qualcosa di dorato e luccicante, di una forma che avevo visto milioni di volte, nei miei ricordi e nei miei disegni, così da almeno un mese a questa parte: la chiave.
E indicava la porta che portava al parcheggio.
 
 
Lì il silenzio era qualcosa di agghiacciante.
C’era un lieve venticello che mi scompigliava i capelli, abbastanza gelido per infiltrarsi oltre il cappotto verde fino alle mie ossa, facendomi tremare tutta.
Oltre ai battiti furiosi del mio cuore, l’unico rumore a me vicino era quello dei miei passi, che risuonavano sul pavimento grigio e freddo.
Non c’erano molte macchine, la maggior parte erano sparse qua e là, senza un ordine preciso, ed erano rimaste incustodite.
Tranne una.
Un’ombra aveva appena aperto lo sportello della sua auto, ed era intento a salire, fin quando non lo chiamai, a gran voce, sperando che potesse sentirmi, o che, almeno, volesse farlo.
«Jackson?», quando pronunciai quel nome l’ombra parve irrigidirsi, ma non si mosse più di tanto. Non si voltò, non fece nulla per farmi capire che mi ero sbagliata o meno, anche se non ce n’era bisogno.
Era lui, non poteva essere altrimenti.
Non c’era nessun Jack, o come diavolo aveva voluto chiamarlo quella tipa al telefono. C’era solo Jackson, il ragazzo che avevo amato.
Il ragazzo che amavo ancora e che non avevo mai smesso d’amare, nonostante tutto, nonostante lo avessi sofferto e aspettato.
Mi avvicinai cauta all’ombra, fino a raggiungerlo, rimanendo però alle sue spalle, e allungai abbastanza il braccio per superare la sua immagine, aprendo la mano a pochi centimetri da lui e mostrandogli quella chiave che da sempre era stata il nostro segno, un segno di amore, di pace, ma anche di guerra e di dolorosi addii.
«Avrei dovuto odiarti, lo sai vero?», domandai all’ombra, lasciando ricadere il braccio lungo il fianco destro.
Non avevo bisogno che si voltasse e che mi guardasse.
Era lui, non avevo bisogno di nient’altro per capirlo.
«Ma non l’ho fatto. Non potevo.», continuai, sentendo le lacrime pizzicarmi gli occhi.
«Perché io…», stavo per dirgli che l’amavo, che l’amavo con tutta me stessa, come non avevo mai fatto con nessun altro in vita mia, e che non avevo mai smesso, ma m’interruppi quando lui si voltò verso di me, gli occhi azzurri lucidi e una lacrima che gli rigava la guancia, sfiorandogli le labbra rosee e piene che avevo baciato e maledetto mille volte prima di allora.
«No, non dirlo.», bisbigliò guardandomi coi suoi occhi pieni di amore.
Era lui.
Era davvero lui e non era un sogno, né un incubo.
Era Jackson, il mio adorato Jackson, ed era tornato da me.
Si era tagliato i capelli e aveva una leggerissima barbetta a incorniciargli il viso.
Così sembrava più grande, più uomo, ma sapevo che era ancora lo stesso che avevo lasciato quel giorno.
«Renderesti tutto più difficile.», disse ancora, avvicinandosi pericolosamente a me.
Il suo respiro sapeva di gomme alla menta, la sua pelle invece sapeva di terra e di pioggia, come chi era venuto da molto lontano, affrontando un lungo viaggio solo per vedere ancora la persona amata.
«Sapevo che saresti tornato.», ogni centimetro della mia pelle tremava e si era ricoperto di pelle d’oca, dovuta al freddo e ai brividi che la sua presenza mi portava.
Ci guardammo per qualche minuto, in silenzio, senza neanche fiatare.
Avevamo così tante cose da dirci ma in quel momento nessuna parola sarebbe sembrata opportuna.
Quel silenzio, però, fu bruscamente interrotto dalla suoneria del suo cellulare, che iniziò a vibrare e a illuminarsi all’interno della tasca dei jeans per qualche attimo, fino a fermarsi e a lasciarci di nuovo al nostro silenzio.
Un silenzio diverso però.
Era il segnale che doveva andare via, di nuovo.
Allora lo abbracciai, lo strinsi a me più che potevo, affondai la testa tra la spalla e il collo e feci mio il suo odore, i suoi respiri contro di me, sempre più rapidi e spezzati, come se stesse per piangere ma non poteva.
Sarebbe stato già abbastanza difficile per me trattenere quelle lacrime.
«Io ti amo, Jackson Whittemore, ti amo ancora...», sussurrai nel suo orecchio, sentendo ogni millimetro del mio cuore andare in frantumi ancora una  volta.
Lui mi lasciò lentamente e mi guardò ancora, senza parlare.
«e ti aspetterò, qualunque cosa accada.», ed era una promessa.
Jackson portò la sua mano sulla mia guancia e mi baciò, delicatamente, e pensai che sarebbe stato impossibile per me, in quel momento, lasciarlo andare via, ancora.
Poi lui si staccò da me, lentamente, lasciando che i nostri sguardi si incontrassero per un’ultima volta ancora. Mi sfiorò i capelli, facendo scivolare poi la sua mano sulla mia guancia e sorrise, nonostante quello fosse il sorriso più triste che io avessi mai visto in tutta la mia vita.
Poi Jackson si voltò, dandomi le spalle, e prese a camminare verso la sua auto ancora aperta, chiudendo poi la portiera dietro di sé.
E mettendo in moto l’auto se ne andò.
Lasciandomi sola con la promessa di un suo ritorno.
Di un suo abbraccio.
Di un suo bacio.
Di un suo addio che speravo non sarebbe dovuto mai arrivare.
E di quel sogno che, mostrandomi una chiave dorata che mi aveva lasciato il permesso di entrare nel suo cuore, mi avrebbe rivelato il suo ritorno.
Questa volta per sempre.

Spazio autrice: Ok, questa è la mia prima vera OS con personaggi non miei, ma vi giuro che ho amato follemente questa coppia e ho desidarato davvero così tanto in un ritorno di Jackson che ho avuto davvero un bisogno fisico nello scriverla! E' la mia prima OS, vi ripeto, e spero di essere stata brava e che vi sia piaciuta!! Vorrei dei COMMENTI se vi va, così che io possa migliorarmi in una futura One Short :) Grazie a chi è arrivato fin qui e spero che i miei sforzi abbiano dato vita a qualcosa di bello :*

-Mirime_

 
 
 
  
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Teen Wolf / Vai alla pagina dell'autore: Shadows98_