(Nota
necessaria: nella personale idea che mi sono fatta riguardo il passato di Molly
ho creato tutta una sua biografia, basandomi sull’unica notizia certa in nostro
possesso: che aveva un padre e che è morto. Basta così, finisce qui. Non
sappiamo quando è morto, come, perché. Io ho ipotizzato che si sia ammalato di
cancro mentre Molly era all’università – lei aveva 22, 23 anni - e che quando
sia morto se ne sia fatta una colpa, credendo di avergli provocato un’overdose
con la morfina – era lei a procurargliela per combattere il dolore. Da qui
l’odio di Molly per le droghe e la scelta di diventare patologa. Sì, datemi
pure della pazza visionaria, non mi offenderò ;D. E ora, bando alle ciance,
buona lettura!)
Preludio.
Molly aveva
gli occhi gonfi di lacrime. Quando se ne accorse, le strofinò via con rabbia dispettosa.
“Molly, ci
deve essere qualcosa che io possa fare. Lasciati aiutare, ti sto pregando.”
È tardi.
Chiuse gli
occhi disperatamente, come se potesse cancellare il mondo, ma quello filtrava,
si insediava nelle mille fessure che erano i suoi respiri, i pori della sua
pelle, il rumore del pompare frenetico del sangue al cuore, al cervello e agli
altri organi.
Il mondo
dirompeva con violenza viva dentro di lei, anche attraverso le dighe che aveva
sprangato per tenerlo fuori. Tentativi meri, patetici, fuorvianti.
“Molly.”
Zio Michael.
Il professor Knight, si corresse con
foga, le posò le mani sulle braccia, cercando di scuoterla. Erano vecchie e
nodose per l’artrite precoce.
Oh,
ricordava con chiarezza crudele i pomeriggi in cui erano in tre nel soggiorno
di casa sua. E Molly, seduta sulle ginocchia di suo padre, li ascoltava
affascinata discutere della loro gioventù in comune, del suo futuro. E
ridevano, come ridevano, quando lei dichiarava tutte le cose impossibili che i
bambini dicono che faranno da grandi, per poi dimenticarsene con puntualità una
volta che l’ora è scoccata e la possibilità è una porta socchiusa.
“Ero il
migliore amico di tuo padre. Sono il tuo padrino. Ascoltami. Edimburgo era nei
piani. Và lì. Sei ancora in tempo. Sei in tempo per fare tutto quello che
desideri. Sii chi vuoi essere.”
Ma cosa
voleva essere lei?
Volevo diventare un medico e
curarlo.
Era tardi
per quello, tardi per tutto. Lui era morto e cosa importava, ora, del resto, di
quello che sarebbe dovuto – potuto essere, di quello che era stata sul punto di
fare?
Era morto a
causa sua.
Suo padre. La sua famiglia.
Molly
inspirò a fondo. Si sentiva enorme. Perché doveva esserlo per forza, giusto?
Per contenere la moltitudine sconfinata che si allargava all’interno del suo
corpo. Le braccia, le gambe, l’addome, il petto e la testa. Quell’ombra
vischiosa di nero, come inchiostro o sangue, che emergeva da posti abissali,
innominati, ignoti.
Dio. Dio.
Cosa aveva fatto? Di che colpa si era macchiata?
Patricida. Patricida.
Non volevo. Io… non volevo.
Volevo aiutarlo, che non
soffrisse. Volevo solo che rimanesse mio padre, ancora per un po’.
Ma tu cosa
vuoi, Molly? Cosa vuoi fare? Cosa vuoi diventare? Come espierai?
“Voglio
diventare una patologa.”
E in quel nero vischioso mi
piacerebbe sciogliermi, ma non posso.
La verità è che non voglio.
Tutto si trasforma
“È la protetta del professor Knight.”
“È stata vista uscire dal suo
dipartimento a notte inoltrata. Che spudorata.”
“No! Tu credi che-”
“Io non credo niente. Affermo.”
Raccomandata. Strega. Maddalena.
“Ti piace comprare i tuoi voti?”
Molly schivava
le chiacchiere come un boxeur cercava di evitare i colpi frontali. Ma quelli
trasversali erano troppi. Era subissata da ogni lato, il ring non aveva limiti
di spazio a circoscriverlo. In biblioteca, nelle aule studio, nei laboratori,
negli alloggi per gli studenti, in caffetteria. La trovavano sempre, la
raggiungevano.
Si sentiva
come un pesce nell’acquario: costantemente osservata, esaminata, messa sotto
analisi. Lo era. Una Poecilia*.
Non era la
sola. A quanto pareva c’era un altro studente, un “giovane uomo dai molteplici talenti”,
come lo definiva il professor Knight, che si attirava le antipatie e gli
“ascessi” collettivi. Veniva da Oxford, dove aveva seguito il corso di Scienze
Naturali; era stato anche a Cambridge, studente di Legge. Non doveva avere più
di ventitre anni. Molti lo chiamavano genio, i più: pazzo. Il resto lo considerava
un asceta perché cercava la solitudine e professava una vita accademica all’insegna
dell’apprendimento e non dedita alla baldoria sfrenata.
Seguiva i
corsi di Chimica, Istopatologia, Microbiologia, Virologia, Ematologia;
pubblicava con frequenza articoli bizzarri e arguti sul Giornale di Medicina
Clinica in cui esaminava la politica sanitaria e sociale, affrontava meticolosamente
l’evoluzione del ruolo dei medici nella società e alcuni aspetti essenziali dell’etica
medica, la fornitura dei servizi sanitari.
Lo si
trovava sempre, appollaiato sul gradino sopraelevato dell’auditorium,
nell’angolo meno accessibile. Sembrava con la testa tra le nuvole, ma in
ultimo si rivelava l’ascoltatore più attento di tutti.
A volte
Molly si era chiesta se possedesse una memoria fotografica o qualcosa di
simile. Non portava mai libri di testo con sé o quaderni su cui prendere
appunti. Rispondeva con rigore certosino ai quesiti che i docenti gli rivolgevano
a fine lezione, di quando in quando – Molly aveva il ferrato sospetto che
alcuni lo facessero con la speranza di trovarlo in difetto, altri con il
pretesto di dimostrarsi equi e imparziali, sopra ogni accusa di differenziazione
di comportamento.
E nonostante
questo, Molly non lo aveva mai visto sostenere un esame o un test di verifica.
In quelle occasioni semplicemente scompariva, come un fantasma impegnato in
altre rocambolesche escursioni.
Sherlock
Holmes. Così si chiamava.
Era
registrato a tutti i corsi, senza avere un piano di studi ordinario,
preconfezionato e simile agli altri. La sua iscrizione e i conseguenti
pagamenti erano perfettamente a norma. Tutto il resto no.
Cosa ci facesse
al Reale Collegio dei Medici, rimaneva un mistero. Un mistero che, per quanto
intrigante potesse apparire, a Molly non interessava svelare.
Molly aveva
programmi da apprendere, formule da assimilare, orari da rispettare. Ogni
giorno aveva l’inquietante impressione di essere sul filo del rasoio. Bilanciava
meglio che poteva ogni passo, faceva movimenti calibrati, misurava bene il suo
tempo, centellinandolo come se stesse distillando una soluzione salina.
Non sembrava
mai abbastanza. La sera e durante la pausa pranzo correva in ospedale per
sentire suo padre ridere, per vederlo assottigliarsi, ogni giorno più allegro
ed emaciato. La vita che straripava si disperdeva nell’aria attorno a lui,
rendendola chiara e sfrigolante e spogliandolo della luce che ancora per poco
lo avrebbe rivestito, in un abito composto di riflessi che non sarebbe durato a
lungo.
*
La
mezzanotte era passata da poco.
Il
laboratorio era vuoto, precluso a chiunque non avesse un’autorizzazione scritta
e firmata sulla fiducia da uno dei docenti.
Molly stava
preparando l’esame di Microbiologia. Nel corso di studi del professor Brook aveva
imparato a classificare i terreni di coltura in sintetici e complessi, a
seconda delle sostanze concentrate in essi e, ancora, a distinguerli in
elettivi, selettivi, differenziali e di arricchimento, a seconda del compito
che svolgevano.
Stava
operando il lavaggio con liquido di Lugol quando si accorse di non essere più
sola nel laboratorio. All’infuori di lei, vicino alla porta, in ombra, c’era un
ragazzo alto dal profilo affilato.
“Dopo le
dieci il laboratorio è riservato agli studenti muniti di permesso,” disse lei
in tono di avvertimento.
“Allora è
una fortuna che io lo abbia”, rispose lui, svogliato.
Il ragazzo fece
un passo avanti, si portò nella zona di luce artificiosa dei neon.
E Molly lo
riconobbe.
Indossava un
cappotto fuori stagione. Aveva cerchi viola attorno agli occhi, di un azzurro
sfuggente e livido, come certe giornate di tempo incerto tipiche di Londra. I
capelli scuri erano arruffati e appena più lunghi di quanto dovevano. Gli cadevano
scomposti sulle tempie, regalandogli un’aura di trasandatezza.
“Cosa fai
qui?” domandò, inquieta. Si stropicciò le dita. Era stata una giornata frenetica
e aveva ancora un mucchio di annotazioni e materiale da rivedere. La prima
lezione prevista per il giorno seguente era Chirurgia, alle nove e un quarto. Di
sicuro non era dell’umore per chiacchierare con chicchessia.
“Esattamente
quello che fai tu. Evito di dividere gli spazi comuni con persone irritanti,
preferendo orari poco frequentati.” Sherlock, perché era Sherlock Holmes, il
giovane genio dalle maniere insoffribili, si spostò verso la postazione più distante
dalla sua. Accese le luci e incominciò ad analizzare al microscopio alcuni
campioni di tessuto, senza prestarle attenzione.
Molly lo
imitò, passò ad analizzare il suo agar
MacConkey. Lavorarono entrambi in tranquillità, concentrati
sull’operazione che stavano svolgendo.
Trascorse
un’ora e mezza prima che Molly terminasse. Aveva le palpebre pesanti, la
stanchezza le gravava addosso come una coperta troppo stretta.
Si sfregò
gli occhi, masticò uno sbadiglio, nascondendolo dietro il palmo della mano.
Sherlock era
ancora lì, piegato sul microscopio. A giudicare dall’espressione e dal numero
di vetrini che doveva ancora analizzare era ben lontano dall’andarsene.
Molly
cominciò a raccogliere i fogli e a ficcarli frettolosamente nella borsa.
Sul fondo
raccattò un paio di cioccolatini al caffè.
Uno lo tenne
per sé, lo scartò e lo mangiò, ma l’altro se lo fece scorrere tra le dita come
una specie di amuleto, incerta sul da farsi. Alla fine, vincendo le paranoie,
si avvicinò alla postazione che Sherlock occupava.
Lui parve
notare a malapena i suoi movimenti, non smise di fare quello che stava facendo.
Molly non se
ne fece un cruccio. Si sistemò meglio la tracolla sulla spalla, posò il cioccolatino
sul bordo del tavolo e se ne andò. Un attimo prima era stata lì, in un silenzio
pacifico e raccolto, di riguardo per gli spazi altrui, quello successivo non
c’era più.
*
Ognuno è il demone di se stesso.
Dopo quel
fortuito incontro, capitò di frequente che incappassero l’una nell’altro. Era il
primo pomeriggio di un sabato qualunque. La Biblioteca si stava velocemente
svuotando dei suoi fruitori. Gli studenti sussurravano facezie, si scambiavano
storie faziose su questo o quel professore, sotto gli occhi sfacciati degli
allievi più grandi e quelli prudenti dell’assistente del docente Doyle a cui
spettava il turno di supervisionarli, quel mese.
Molly era
stata tanto fortunata da insediarsi in un banco da sola. Lo aveva disseminato di
innumerevoli promemoria e dei libri presi in prestito dalla Biblioteca.
“Canis canem
edit.”
Molly
sollevò lo sguardo dal libro “Obblighi del Praticante”.
Sherlock le
si era seduto di fronte. Il cappotto fuori stagione chiuso fino alla gola, lo
sguardo vigile da gatto, l’aria mortifera.
Molly si
tolse la matita da dietro l’orecchio. “Cosa?”
Lui sbuffò
dal naso, incrociò le braccia sul petto. “Il cane mangia il cane”, traspose,
infastidito.
Fu il turno
di Molly di storcere gli occhi. “Non intendevo quello. So tradurre il latino. Grazie.
È che non riesco a capire la connessione nel contesto.”
Sherlock la
scrutò per un lungo momento, probabilmente stava decidendo se ne valesse la
pena. Il gioco vale la candela? Il
solito dilemma.
“Arbitrariamente
si riferisce a una situazione in cui nessuno è al sicuro da nessuno, ogni uomo
può contare su sé solo.”
Molly lo
invitò a proseguire.
Sherlock non
si fece pregare. “Guardati attorno, Molly Hooper. Sono come bestie demoniache
assetate di sangue, pronte ad azzannarsi l’un l’altro perché il fine giustifica
i mezzi, a discapito di ogni valore. Il merito ha perso i suoi costrutti.”
Molly non
era d’accordo. Una parte di lei, forse, riconosceva la scheggia di verità indiscutibile
contenuta in quanto lui aveva detto, ma un’altra la rinnegava con forza. “Non
la metterei in questi termini”, rispose, pacata. “Forse sottovaluti la potenza costruttiva
della disapprovazione. L’invidia è un avversario temibile, ma anche di
inspirazione, non trovi?”
Il volto
tediato di Sherlock fu attraversato da un lampo di sentimento che non le riuscì
di decifrare. Si tirò indietro contro lo schienale della sedia, le mani ficcate
sotto le ascelle.
Molly si accorse
che tremavano, come in preda a spasmi muscolari.
In generale,
non aveva un aspetto sano, tantomeno riposato.
“Come fai a
sapere il mio nome?”
“Allo stesso
modo in cui tu sei a conoscenza del mio.”
“Io non ho
mai-”
“Non
occorreva. Non sei il tipo di persona che permette ad estranei di turbare la
propria concentrazione. Gentile, sì, sciocca? Nemmeno per sogno.”
“Hai
ragione. So chi sei, ma preferisco lo stesso fare le cose alla vecchia
maniera.” Molly gli porse la mano con fermezza. “Mi chiamo Molly e sono
iscritta alla Facoltà di Medicina Forense e Legale. È un piacere fare la tua
conoscenza.”
Sherlock
soppesò la sua mano tesa per un interminabile secondo, prima di convincersi a
stringergliela. Aveva una bella presa: vigorosa e fredda, ma anche assurdamente
garbata. “Sherlock Holmes. Iscritto ad ogni Facoltà vigente.”
Le
sopracciglia di Molly scattarono verso l’alto. “Sul serio? Devi essere una
specie di genio o qualcosa di simile.”
“Per altri è
solo un mettersi in mostra.”
Molly gli
rivolse un piccolo sorriso di complicità. “Di sicuro lo è, ma hai esposto
piuttosto chiaramente che l’antipatia verso questi fantomatici altri sia
reciproca, perciò che importa cosa pensano?”
Già, cosa
importava?
E
all’improvviso, al pensiero di tutte le dicerie e le maldicenze che circolavano
su di lei, che erano assolutamente infondate, ma giustificabili con l’ignoranza
generale, a Molly scappò una risata incredula. Che razza di ipocrita era. Lei che per prima si lasciava
invischiare dall’opinione collettiva, proprio lei si permetteva di dispensare
consigli, ergersi a giudice.
Sherlock la
squadrò, dapprima sbigottito, poi con rimprovero. Alla fine, comunque, si
lasciò travolgere un poco dall’irrefrenabile ondata di immotivata ilarità che
l’aveva investita.
Le offrì uno
spicchio di sorriso divertito e Molly inspiegabilmente si sentì meno oppressa
dall’obero di impegni, dalla preoccupazione, dall’ansia che la attanagliava. Libera,
in parte, da ciò che si aspettava da se stessa.
Ognuno è il miglior medico di se
stesso.
*
Il 18
ottobre, il giorno di San Luca Evangelista, patrono degli artisti,
medici, chirurghi, studenti e macellai, secondo una tradizione vecchia due secoli, si teneva una conferenza
annuale durante la quale il Rettore leggeva l’Oratio
di Harvey, “per onorare i fondatori e i benefattori del Collegio, esortare
i ricercatori e i membri alla ricerca e allo studio della natura, nonché per favorire
uno spirito di sperimentazione”.
Molly aveva
ogni intenzione di fare una comparsa rapida e indolore e poi scappare via. Ogni
momento libero era buono per defilarsi, accorrere lì dove c’era davvero bisogno
di lei, la sua presenza acquisiva un valore inestimabile.
“Che mucchio
di baggianate. Scommetto che il vecchio Paul se la sta godendo a nostre spese,
tirandola per le lunghe.”
Come spesso
accadeva quando c’era di mezzo Sherlock, Molly non si era accorta della sua
presenza fino a quando non le aveva rivolto la parola.
Era
appoggiato al fusto di una delle snelle colonnine delle arcate che recintavano
il loggiato. Gli rivolse uno sguardo distratto, che lui ricambiò con uno che
era tutto fuorché svagato. “Oggi non abbiamo lezioni.”
Molly inarcò
le sopracciglia, non cogliendo il riferimento. Sherlock indicò la borsa
rigonfia al suo fianco.
“Oh,
questa.” Molly se la strinse contro. “Devo andare in un posto, dopo.”
Sherlock
fece un verso sprezzante, qualcosa tra un sospiro e uno sbuffo. Molly capì che
considerava quanto aveva detto un’ovvietà. In effetti lo era.
Ci fu
un’improvvisa folata di vento che le gonfiò i capelli intorno al viso. Lei tirò
su la zip del parka.
Sherlock
allungò le dita verso di lei e le tolse qualcosa che le era rimasto impigliato
dietro l’orecchio. Era una foglia di una tonalità di giallo vivo, a forma di
ventaglio, divisa in due lobi.
“Ginkgo
biloba”, la identificò Sherlock. Aggrottò la fronte, passandogliela. “Non
dovrebbe trovarsi qui.”
“Perché no?”
“Gli unici
esemplari londinesi si trovano nell’orto botanico.”
Molly sorrise, la mente rievocò
parole remote. “La foglia di
quest’albero, dall’oriente affidato al mio giardino, segreto senso fa assaporare
così come al sapiente piace fare. È una sola cosa viva, che in sé stessa si è
divisa? O son due, che scelto hanno, si conoscan come una? In risposta a tal
domanda, trovai forse il giusto senso. Non avverti nei miei canti ch’io son uno
e doppio insieme?”
Sherlock le scoccò un’occhiata
stupita.
“È Goethe”, spiegò Molly.
Sherlock fece per dire qualcosa.
La sua espressione mutò all’improvviso e un’ombra gli attraversò gli occhi,
intorbidendoglieli. Fissò torvamente un punto dietro di lei e Molly si voltò d’istinto
a controllare in quella direzione. Lui glielo impedì, afferrandola per la
spalla. La sospinse nella folla brulicante, lontana da qualsiasi elemento lo
avesse disturbato a tal punto.
Molly lo lasciò fare, troppo meravigliata
per lamentarsi.
Sherlock colse al volo il suo
disorientamento. “Mi sembrava che avessi una certa premura.”
“Non l’ho mai detto.”
Sherlock conservava ancora tracce
di fastidio nella voce. “Non è servito. La tua postura lo ha fatto per te.”
“Sei una specie di detective?”
Sherlock le lasciò il gomito.
Incrociò le braccia dietro la schiena, camminandole accanto. “Preferisco consulente
investigativo.”
“Così sei uno studente di
Medicina che non intende praticare e nel tempo libero ti diletti a combattere
il crimine?”
“Espresso
così suona oltremodo ridicolo.”
Molly si
morse l’interno delle guance per evitare una risata indelicata. Nel suo caso
perfino inopportuna. Perché come poteva ridere, sapendo quello che sapeva?
Provando quello che provava?
Sapeva leggere
Novecento, non i libri. Quelli sono buoni tutti.
Sapeva leggere la gente,
i segni che la gente si porta addosso, posti, rumori, odori.
La loro terra, la loro
storia, tutta scritta addosso.
Lui leggeva e con cura
infinita catalogava, sistemava, ordinava in quella immensa mappa che stava
disegnandosi in testa.
Il mondo magari non l’aveva
visto mai, ma erano quasi trent’anni che il mondo passava su quella nave.
Ed erano quasi trent’anni
che lui su quella nave lo spiava.
E gli rubava l’anima.
(La leggenda del
pianista sull’oceano)
Molly si
trovava nella sala studio che in assoluto preferiva, raggomitolata sulla
poltrona più vicina al camino. La borsa ai suoi piedi, il cappotto piegato con
cura sullo schienale, stava rileggendo, forse per la centesima volta, un
articolo che Archie l’aveva convinta a spedire al giornale del Collegio. Molly
non credeva che glielo avrebbero pubblicato e quando aveva letto il suo nome,
stampato nero su bianco, ne era rimasta colpita. Già, colpita e orgogliosa.
Era metà
semestre, i giorni che mancavano a Natale si contavano sulle dita di una mano.
“Non credevo
di trovare qualcuno.”
Molly sbatté
le palpebre. Aveva fissato con tale inerzia il ciocco di legno che stava
bruciando oltre la grata che si ritrovò con gli occhi lucidi. “Oh, sei tu,”
disse, strofinandoseli.
“Oh, sei tu”, la provocò lui, derisorio.
“Devo essere anch’io totalmente ovvio? Ebbene lo sarò. Quale altro studente si
attarderebbe ben oltre l’orario socialmente utile se non l’unica per cui la prassi
non è regola di comportamento? Che segue bisogni di natura diversa da quelli di
pubblico dominio, preferisce l’intimità pulita delle sue riflessioni alla
baruffa di idee balorde proprie a sfaccendati e perdigiorno?”
Sherlock
fece una smorfia, o forse era il suo modo di sorridere. Ormai lo comprendeva
abbastanza da riconoscere quando il sarcasmo minava la natura di un complimento
occultato. Aveva voluto gratificarle il merito del suo impegno, lodare il suo
desiderio di isolamento, di quiete.
Sherlock
aveva il cappotto bagnato, neve tra i capelli. Se li scrollò con entrambe le
mani, dopo aver posato sulla poltrona di fianco alla sua una specie di spatola
di legno a forma di cucchiaio.
Sherlock,
che aveva seguito la direzione del suo sguardo accigliato, annuì con
approvazione. “Si tratta di uno spoon,
un bastone da golf. Viene utilizzato per i tiri lunghi, in linea di massima.”
“In linea di
massima?”
“Occasionalmente
può essere adoperato in impieghi impropri. Per fracassare teste, ad esempio.”
A Molly
sfuggì un’esclamazione di sorpresa. Lui fu lesto a fraintenderla. “Immagino che
la mia sia stata un’uscita sfortunata.”
Molly
scoppiò in una risata spiccia. “Sfortunata non è il termine che sceglierei per
definirla. Ma sono un medico patologo o è quello che intendo diventare, perciò
non credo sia tra i miei diritti scandalizzarmi per così poco. Voglio dire,
nella mia professione mi capiterà di osservare di peggio, giusto? O almeno è
quello che spero.”
Questa volta
Molly fu sicura di intravedere un barbaglio di divertimento negli occhi chiarissimi
di lui, prima che si inginocchiasse ad attizzare il fuoco. Contro l’aureola bruciata
delle fiamme, l’azzurro assumeva mezze tinte di verde.
“Me lo
racconteresti?”Non riuscì ad evitarsi di domandargli. “Il tuo caso.”
Sherlock si
voltò, brusco. Le sembrò che la valutasse. “Contiene materiale che è opinione diffusa
non dovrebbe raggiungere le orecchie delicate di una signora.”
Molly rialzò
il mento, si sistemò in una posizione più appropriata. “Allora è una fortuna che
io non sia una signora. Sono un medico.”
E Sherlock
annuì, si apprestò ad accontentarla.
*
È giugno e gli alberi non sono
più in fiore. I fiori sono scomparsi, hanno ceduto il posto a frutti e utili da
raccogliere.
Molly si
guardò attorno con un’espressione che sentiva – lo sentiva con ogni fibra di se
stessa – e che sapeva essere stonata, perché era la trasposizione di tutto
quello che non ci sarebbe aspettati da una Neo-Dottoressa.
Molly
provava gioia, certo, anche una buona misura di orgoglio, ovvio.
Ma non nella
misura in cui avrebbe voluto. Non pienamente, felicemente.
A che pro?
Tutto quello
che aveva fatto, tutto quello che voleva non erano serviti a nulla.
Era sola.
Di nuovo,
mentre il professor Knight la incoronava con l’alloro dei vincitori, Molly si
disse che le veniva riconosciuta una vittoria che meritava solo a metà.
Aveva vinto
tardi.
Ma non per
il resto che non ne aveva avuto, prima. Per quello c’era tutto il tempo del
mondo invece.
“Congratulazioni,
Molly.”
“Ad maiora,
Molly!”
Pacche sulla
spalla. Strette di mano. Cenni di elogio. Sorrisi di vetro dipinto. Il profumo
dolciastro e inebriante di troppi fiori.
“Congratulazioni
vivissime.”
“Molly
Hooper.”
Molly lo
mise a fuoco con aria assente e un sorriso fasullo che scemò a poco a poco,
come una goccia di colore diluita nell’acqua.
Sherlock.
Alto e nero come un cipresso. L’unico tra i presenti a non sorridere, a non
dare per scontato cosa dovesse provare, cosa
fosse stabilito che dovesse mostrare di provare.
Molly non
sorrise più. Si sentì sgravata di un peso.
Il peso di non
essere quello che non voleva.
Non gli
sfuggiva nulla.
Una volta,
Molly gli aveva chiesto perché non sostenesse esami lui, proprio lui, che più
di chiunque altro aveva ogni diritto a pezzi di carta che testimoniassero
quanto era brillante - la mente scintillante, l’intelligenza dinamica e
acutissima.
Perché il
resto del mondo era ottuso almeno quanto lui non lo era. Richiedeva attestati,
certificati, titoli, curriculum vitae.
Non poteva
entrarci in un mondo così lui. Erano lui o il mondo. Una lotta senza fine,
clandestina. O lui o il mondo, fatto a pezzi.
“Cerco la
conoscenza vera, autentica”, le aveva detto, allora. “Non un pezzo di carta che
attesti la mera specializzazione in una branca di eccellenza minore.”
Sherlock era
argento vivo. Non c’era altro da dire o aggiungere.
Perché
definire, aveva imparato Molly, significava limitare*.
N/a:
Bla bla bla non mi piace bla bla bla non mi convince bla bla bla sto blaterando
di quisquilie.
Allora,
evito di cadere nella cara tradizione qui sopra citata (tra i bla bla). Dico
solo che le ricerche effettuate per ipotizzare il tipo di studi condotto da
Molly e in grandissima misura anche da Sherlock sono state massacranti come tre
ore di tapis roulant in obliquo e qui chiudo.
Per il resto
mi sembra tutta una grande mongolfiera che sale, sale, svolazza, ma non sa che
direzione prendere.
È OOC? Per
me lo è. Molly nella serie ha 31 anni, qui ne ha otto di meno. Non è ancora
innamorata di Sherlock, lo ammira soltanto e si comporta di conseguenza. Una
Molly non innamorata di Sherlock è OOC? E uno Sherlock che non la sfrutta, che
è gentile come nella terza? Ho altre teorie al riguardo. Dio, non avrà mai
fine. È una maledizione xD
Per non
parlare della scena iniziale e quella finale (per inciso sono a distanza di
pochi giorni l’una dall’altra e molti mesi dopo qualsiasi altra scena
descritta. Molly ha sostenuto gli esami MRCP e li ha superati, ma suo padre
nel frattempo è morto e lei sente di aver fallito per tutta una serie di
ragioni. Ha senso? Spero di sì.) che avrei voluto cancellare (le ho riscritte
quattro volte, ma ognuna batte la precedente versione e non è un complimento,
semmai l’esatto contrario).
Mi detesto per avervi costretto a leggere ancora una
volta note noiose e inutili, ma era un modo arzigogolato per chiedervi
scusa/giustificare quest’obbrobrio.
Ed ora, signori/e, per ripagarvi della lunga trafila di
informazioni superflue, ecco a voi una piccola caccia al tesoro. Sì! La caccia
alle citazioni! Ce ne sono 4 (quella in latino citata da Sherlock non rientra
nel conteggio e neppure quella tratta dal film “La leggenda del
pianista sull’oceano”).
Cosa
si vince? *rullo di tamburo*
Un
dialogo bonus tra Sherlock e Mycroft! Qualcosa che avrei dovuto inserire, ma
che alla fine non aveva un suo perché e che perciò ho cestinato in attesa di
future occasioni di usufrutto.
* http://it.wikipedia.org/wiki/Molly_(zoologia)
Quando
Molly si paragona ad un pesce nell’acquario, la sua non è una battuta in senso
lato.