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Autore: JoshEyes    12/02/2014    1 recensioni
Cerco in lui una traccia del Ragazzo Innamorato. Devo ricordarmi però, che quel ragazzo non esiste più, per colpa del depistaggio. Ritrovare il Ragazzo del Pane, per me, sarebbe più che sufficiente. È lui che mi ha dato la forza per andare avanti, quando non c’era più alcuna speranza. Ed è grazie a lui che l’ho ritrovata, quando ho visto per la prima volta il dente di leone.
La fine di -Hunger Games, Il Canto della Rivolta- mi ha lasciata.. vuota. Proprio come Katniss. Ma si può trovare l'amore anche in un posto senza speranza.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
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È notte quando atterriamo sul prato del Villaggio dei Vincitori. Metà delle case, compresa la mia e quella di Haymitch, hanno delle luci alle finestre. Quella di Peeta no. Qualcuno ha acceso un fuoco nella mia cucina. Mi siedo sulla sedia a dondolo lì davanti, stringendo la lettera di mia madre.
─ Be’, ci vediamo domani ─ dice Haymitch. Mentre il tintinnio della sua borsa piena di bottiglie di liquore si smorza in lontananza, bisbiglio: ─ Ne dubito.
Sono incapace di spostarmi dalla sedia. Il resto della casa sembra vecchio e buio. Mi copro il corpo con un vecchio scialle e guardo le fiamme. Immagino di aver dormito, perché, ancor prima di rendermene conto, è mattina, e Sae la Zozza sta sbatacchiando qualcosa davanti alla stufa. Mi prepara delle uova e del pane tostato e si siede lì finché non li ho finiti. Non parliamo granché. La sua nipotina, quella che vive in un mondo tutto suo, prende un gomitolo di lana azzurro vivo dal cestino del lavoro a maglia di mia madre. Sae la Zozza le ordina di rimetterlo a posto.
─ Può tenerselo, Sae. Non c’è più nessuno in questa casa che sappia lavorare a maglia ─ dico.
Dopo colazione, Sae la Zozza lava i piatti e se ne va, ma torna all’ora di cena per farmi mangiare ancora. Non so se agisca solo da buona vicina o se sia sul libro paga del governo, ma continua a presentarsi due volte al giorno. Lei cucina, io mangio. Provo a ringraziarla, ma le mie parole sono solo parole vuote. ─ Non preoccuparti, cara ─ mi dice. Cerco di immaginare la mia prossima mossa. Non c’è più niente che mi impedisca di togliermi la vita, ormai. Ma è come se aspettassi qualcosa, o forse, qualcuno.
Di tanto in tanto, il telefono squilla, e continua a squillare per un bel po’, ma io non rispondo. Haymitch non passa mai a trovarmi. Forse ha cambiato idea e se ne è andato, anche se sospetto che sia semplicemente ubriaco. Non viene nessuno, a parte Sae la Zozza e sua nipote. Dopo mesi di reclusione solitaria, sembrano una folla. E poi ci sono i fantasmi ma, be’, quelli sono tutta un’altra storia. Vivono per lo più nei miei incubi, anche se qualche volta rivedo Prim diventare una torcia umana o mio padre rimanere intrappolato nelle miniere.
Mi risveglio dai miei pensieri giusto per sentire Sae: ─ Si sente la primavera nell’aria, oggi. Dovresti uscire. ─ E per andare dove? È come se mi leggesse nel pensiero. ─ Andare a caccia. ─ aggiunge.
Non ho mai messo piede fuori di casa. E nemmeno fuori dalla cucina, tranne che per raggiungere il piccolo bagno a qualche passo di distanza. Porto gli stessi vestiti che avevo quando lasciai Capitol City. Me ne sto semplicemente seduta accanto al fuoco. A fissare le lettere ancora chiuse che si accumulano sulla mensola del caminetto. ─ Non ho un arco.
─ Cerca nell’ingresso ─ ribatte.
Una volta uscita Sae la Zozza, valuto la possibilità di un viaggio sino all’ingresso. E la escludo. Ma parecchie ore dopo, ci vado lo stesso, aggirandomi silenziosa e senza scarpe per non risvegliare i fantasmi. Entro nello studio dove presi il tè con il presidente Snow e trovo uno scatolone che contiene la giacca da caccia di mio padre, il nostro libro delle piante, la foto del matrimonio dei miei genitori, la spillatrice che mi inviò Haymitch e il medaglione che Peeta mi regalò nell’arena dell’orologio. I due archi e la faretra di frecce che Gale salvò la notte delle bombe incendiarie giacciono sulla scrivania. Indosso la giacca da caccia senza toccare il resto.
Cerco di rievocare alla mente quei giorni in cui ero davvero me stessa, prima che i giochi e la guerra mi lasciassero.. spezzata. Mi addormento sul divano dell’elegante salotto. Segue un terribile incubo nel quale sono sdraiata in una fossa profonda e tutti i morti che conosco per nome sfilano uno a uno lì davanti per gettarmi sopra una palata di cenere. È un sogno piuttosto lungo, tenuto conto del numero di persone che sono morte per causa mia e quelle che ho ucciso proprio io. Più mi ricoprono, più fatico a respirare. Cerco di gridare per implorarli di smettere, ma la cenere mi riempie il naso e la bocca e non riesco a produrre alcun suono. A quanto pare, nei miei incubi, desidero ancora essere viva. E intanto la pala continua a raschiare, ancora e ancora..
Mi sveglio con un sobbalzo. La pallida luce del mattino filtra dai bordi delle persiane. Il grattare della pala prosegue. Ancora mezzo sprofondata nell’incubo, corro nell’ingresso, esco dalla porta principale e giro sul fianco della casa, perché adesso sono abbastanza sicura di poter urlare contro i morti. Quando lo vedo, mi blocco di colpo. Il suo viso è arrossato per avere zappato il terriccio sotto la finestra. In una carriola, ci sono cinque arbusti stenti.
─ Sei tornato ─ dico.
─ Fino a ieri il dottor Aurelius non mi ha permesso di lasciare Capitol City ─ spiega Peeta ─ Tra l’altro, mi ha detto di dirti che non può continuare a fare solo finta di curarti. Devi rispondere al telefono. ─
Ha un bell’aspetto. Come me, è magro e coperto di cicatrici da ustioni, ma i suoi occhi hanno perso quell’espressione confusa e tormentata. Però si acciglia leggermente mentre mi osserva. Faccio uno sforzo poco convinto per scostarmi i capelli dagli occhi e mi accorgo di avere in testa una massa aggrovigliata.

Il suo sguardo mi provoca rabbia, tristezza, per tutto quello che ha dovuto subire, in parte per causa mia. Anzi, quello che gli è successo è stato tutta colpa mia. Ma provo anche sollievo nel vederlo qui.
Lo osservo. ─ Cosa stai facendo?
─ Sono stato nei boschi, stamattina, e ho sradicato questi. Per lei ─ dice. ─ Pensavo che potremmo piantarli lungo il lato della casa.
Guardo gli arbusti, le zolle di terra che pendono dalle loro radici, e trattengo il respiro, mentre il mio cervello registra il termine “rosa”. Sto per mettermi a strillare parole crudeli contro Peeta, quando mi rendo conto del nome completo della pianta. Non semplicemente rosa, ma “prima rosa”, primrose, la “primula”. Lo stesso nome di mia sorella. Annuisco a Peeta in segno di assenso e mi affretto a tornare dentro casa, chiudendo la porta a chiave dietro di me. Ma il male è dentro, non fuori. Tremante per la debolezza e l’ansia, corro su per le scale.
Dopo settimane di inattività, richiede un grande sforzo. Il mio piede urta l’ultimo gradino e cado sul pavimento. Mi costringo a rialzarmi ed entro nella mia stanza. Il profumo è lievissimo ma avvelena ancora l’aria. È lì. La rosa bianca tra i fiori secchi, nel vaso. È fragile e raggrinzita, ma conserva l’innaturale perfezione coltivata nella serra di Snow. Afferro il vaso, scendo incespicando fino in cucina e getto il suo contenuto tra le braci. Quando i fiori cominciano a bruciare, una vampata bluastra avvolge la rosa e la divora. Il fuoco batte le rose, ancora una volta. Tanto per non sbagliare, frantumo anche il vaso sul pavimento, stando attenta a non tagliarmi. Tornata di sopra, spalanco le finestre della stanza da letto per pulirla da ciò che resta del fetore di Snow. Che però persiste, sui miei vestiti e nei miei pori. Mi spoglio, e scaglie di pelle grandi come carte da gioco restano attaccate agli indumenti. Evitando lo specchio, entro nella doccia e mi strofino via le rose dai capelli, dal corpo, dalla bocca. Con la pelle che pizzica e si è fatta rosa acceso, trovo qualcosa di pulito da mettermi. Tutta quella cascata di tessuti mi ricorda Cinna, e desidero con tutta me stessa riaverlo qui. Una morsa mi stringe lo stomaco, e mi costringo a non pensarci.
Mi ci vuole mezz’ora per districare i capelli. Sae la Zozza apre la porta d’ingresso. Mentre lei prepara la colazione, io butto nel fuoco i vestiti che mi sono tolta. Dietro suo consiglio, mi taglio le unghie con un coltello.
Da sopra il piatto di uova, le chiedo: ─ Dov’è andato Gale?
─ Distretto 2. Ha un gran bel lavoro, là. Ogni tanto lo vedo in tv ─ risponde.
Scavo dentro di me, cercando rabbia, odio, nostalgia. Trovo soltanto sollievo.
Perché riaverlo qui significherebbe ricordare ogni giorno che mia sorella non c’è più.
─ Oggi vado a caccia ─ dico.
─ Be’, in effetti un po’ di selvaggina fresca non mi dispiacerebbe ─ commenta.
Mi armo di arco e frecce e vado fuori, con l’intenzione di uscire dal 12 attraverso il Prato. Vicino alla piazza, ci sono gruppi di persone che indossano mascherina e guanti e hanno carri trainati da cavalli. Esaminano minuziosamente ciò che quest’inverno giaceva sotto la neve. Raccolgono resti. Un carretto è fermo davanti alla casa del sindaco, o ciò che ne resta. Riconosco Thom, l’ex compagno di squadra di Gale, che si è fermato un momento per asciugarsi il sudore dal viso con uno straccio. Ricordo di averlo visto nel 13, ma dev’essere tornato. Il suo saluto mi dà il coraggio di chiedere: ─ Hanno trovato qualcuno, là dentro?
─ Tutta la famiglia. E le due persone che lavoravano per loro ─ mi dice Thom.
Madge. Tranquilla e gentile e coraggiosa. La ragazza che mi regalò la spilla da cui ho preso il nome.
Mi chiedo se sapeva cosa significasse davvero, oppure me l’ha regalata solo come portafortuna. È un boccone amaro. Mi domando se stanotte si unirà ai personaggi che popolano i miei incubi. Gettandomi palate di cenere in bocca. ─ Credevo che magari, visto che lui era il sindaco..
─ Non penso che essere il sindaco del 12 lo abbia favorito ─ dice Thom.
Annuisco e continuo per la mia strada, ben attenta a non guardare nel fondo del carro. Da un capo all’altro della città e del Giacimento, la scena si ripete. La mietitura dei morti. Mentre mi avvicino alle rovine della mia vecchia casa, la strada comincia a brulicare di carri. Il Prato non c’è più, o quantomeno è cambiato radicalmente. Vi hanno scavato una buca profonda che adesso stanno rivestendo di ossa, una fossa comune per la mia gente. Faccio il giro della buca e penetro nei boschi dal mio solito posto. Ha ben poca importanza, però la recinzione non è più elettrificata ed è stata puntellata con dei lunghi rami per tenere fuori i predatori. Ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Penso di andare al lago, ma sono così debole che riesco appena ad arrivare al punto in cui io e Gale ci incontravamo. Mi siedo sulla roccia dove Cressida ci filmò, ma è troppo grande senza il suo corpo accanto a me. A più riprese, chiudo gli occhi e conto fino a dieci, credendo che quando li riaprirò, lui si sarà materializzato senza rumore, come spesso faceva. Devo ricordare a me stessa che Gale è nel 2, ha un gran bel lavoro, e probabilmente sta baciando un altro paio di labbra.
Mi rendo conto che non mi da fastidio. Per me Gale è solo un amico, o almeno, lo era.
È il tipo di giornata preferito dalla vecchia Katniss. L’inizio della primavera. I boschi che si svegliano dopo il lungo inverno. Ma la ventata di energia che è iniziata con le primule svanisce. Quando riesco a tornare alla recinzione, la nausea e le vertigini sono tali che Thom deve darmi un passaggio a casa con il carro dei morti. E aiutarmi a raggiungere il divano del salotto, dove resto a guardare i granelli di polvere che volteggiano nei fiochi raggi di luce pomeridiana.
Giro la testa di scatto quando sento soffiare, ma mi ci vuole un po’ per credere che sia proprio lui. Com’è riuscito ad arrivare fin qui? Osservo i segni degli artigli di un qualche animale selvatico, la zampa posteriore leggermente sollevata da terra, le ossa sporgenti del muso. È venuto a piedi, allora, si è fatto tutta la strada dal 13. Forse lo hanno sbattuto fuori, o forse non è riuscito a rimanere là senza di lei, così è venuto a cercarla.
─ Hai fatto un viaggio inutile. Lei non è qui. ─ gli dico. Ranuncolo soffia ancora. ─ Non è qui. Puoi soffiare quanto ti pare. Non troverai Prim. ─ Si rianima, sentendo quel nome. Alza le orecchie appiattite. Si mette a miagolare, speranzoso. ─ Vattene! ─ Schiva il cuscino che gli lancio contro. ─ Va’ via! Qui non c’è più niente per te! ─ Comincio a tremare, furibonda verso di lui. ─ Lei non tornerà! Non tornerà mai più qui! ─ Afferro un altro cuscino e mi alzo in piedi per avere una mira migliore. Senza alcun preavviso, le lacrime cominciano a scorrermi lungo le guance. ─ È morta. ─ Stringo forte le braccia intorno alla vita per attenuare il dolore. Mi lascio cadere sui talloni, cullando il cuscino e piangendo. ─ È morta, stupido gatto. È morta. ─ Un nuovo suono, che in parte è urlo e in parte è canto, mi esce da dentro per dare voce alla mia disperazione. Anche Ranuncolo si mette a gemere. Qualunque cosa io faccia, lui non se ne andrà. Mi gira intorno, appena fuori tiro, mentre ondate su ondate di singhiozzi straziano il mio corpo. Poi perdo i sensi. Ma lui deve aver capito. Deve essersi reso conto che l’impensabile è accaduto e che sopravvivere richiederà azioni in precedenza inconcepibili. Perché ore dopo, quando rinvengo nel mio letto, lui è lì, alla luce della luna. Rannicchiato al mio fianco, con gli occhi gialli ben vigili, che mi protegge dalla notte.
La mattina, rimane stoicamente seduto mentre gli pulisco le ferite, ma estrargli la spina dalla zampa lo fa esplodere in una serie di quei famosi miagolii da gattino svenevole.
─ Lo sai che non sono brava, in queste cose ─ gli dico. Finiamo per piangere di nuovo tutti e due, solo che stavolta ci consoliamo a vicenda. È per questo che apro la lettera, quella che Haymitch mi ha consegnato da parte di mia madre, chiamo quel numero di telefono, e verso qualche lacrima anche con lei. Peeta, con una pagnotta ancora calda in mano, si presenta insieme a Sae la Zozza. Lei ci prepara la colazione e io passo tutta la mia pancetta a Ranuncolo.
Da quel giorno, Peeta continua a farci compagnia, sia a colazione che a cena. Cerco in lui una traccia del Ragazzo Innamorato. Devo ricordarmi però, che quel ragazzo non esiste più, per colpa del depistaggio. Ritrovare il Ragazzo del Pane, per me, sarebbe più che sufficiente. È lui che mi ha dato la forza per andare avanti, quando non c’era più alcuna speranza. Ed è grazie a lui che l’ho ritrovata, quando ho visto per la prima volta il dente di leone.
Mi sorprendo quando, un pomeriggio, vedo venire Haymitch, che ci informa del fatto che comincerà ad allevare delle oche. Fortunatamente, le oche sanno badare a se stesse piuttosto bene, quindi non mi preoccupo. La cosa che faccio, invece, è ridere, cosa che sorprende un po’ tutti, dopo più di cinque mesi passati a parlare a monosillabi.
─ Be’, penso che dovremo chiamare Haymitch più spesso, qui ─ dice Sae, mentre io continuo a ridere.

 

________________________________________________________________________________________________________________________ Eccoci qui. Il primo capitolo non è granché, in effetti ho solo aggiunto qualche cosa qui e là nell'ultimo capitolo del libro, perchè era perfetto così. Ho scritto in corsivo le parti prese dal libro. Date i vostri pareri, anche negativi, possono aiutarmi a migliorare. Spero vi piaccia. ♥
  
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