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Autore: glaenzendefrau    18/02/2014    1 recensioni
Un bambino tenta di bruciare le sue bambole.
Diversi anni più tardi, un adolescente prende fuoco.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Note: Questa one-shot è stata scritta per il contest Un video per una storia indetto da syssy5 sul forum di EFP. Abbiamo scelto da una lista un videoclip sul quale basare la nostra storia: quello che ho scelto io è Viðrar Vel Til Loftárása dei Sigur Rós.
Buona lettura! :)





Eldur (Fuoco)




Due settimane dopo lo schiaffo di tuo padre sul molo eri ancora lì, a spingere un passeggino sulle assi traballanti. Anche io ero lì, perdigiorno come al solito, a sgranocchiare una mela con le gambe che penzolavano sopra l’acqua scura.

Arrivasti spinto dalla tua rabbia, i piedi che calcavano con così tanta forza sul legno da spingermi a ritrarmi. Magari aprirà una crepa da qualche parte e cadremo tutti e due, mi dissi, timoroso. Magari si metterà a piangere. Non volevo discutere di quello che era successo due settimane prima — se pensavo alle mani nodose di tuo padre che scaraventavano la carrozzina nell’acqua provavo solo il folle desiderio di correre via.

Un braccio di plastica cadde per terra e mi dimenticai di tutto questo.

Non possedevi solo le due bambole di quel giorno, quelle che avevano la testa troppo grossa e la bocca rossa di rossetto. Dal sedile di plastica spuntavano scarpette da bambina in vernice nera graffiata. Un viso di porcellana fissava vitreo il cielo con un solo occhio azzurro. Un lembo di pizzo svolazzava accanto alla ruota scompagnata del passeggino.

Le ha rubate, pensai. Le avevi sottratte alle tue cugine, alle tue amiche, alle figlie delle ex compagne di liceo di tua madre. Bastava un momento di distrazione, un vuoi un dolcetto in più, un posso andare un attimo in bagno? Se sapevi dove andare a cercare — cassetti scompagnati, soffitte polverose, armadi incastrati in un angolo — il gioco era fatto, anzi, preso. Chi volevi che reclamasse un pupazzo rotto, alla fine?

Certi graffi erano recenti, però. Alcune teste erano voltate per sempre, il collo piegato per mostrare l’anima di metallo all’interno. Un bambolotto aveva il volto deformato da una ragnatela di crepe che si dipartivano dal naso; gambe e braccia saltavano via dall’ammasso di plastica rosa, come se i loro proprietari fossero stati ammucchiati con brusche mosse.

Aprii la bocca — cosa stai facendo? ciao? perché? ho paura? Niente andava bene in quel momento. Tu ti fermasti e bloccasti ogni tentativo di conversazione con un brusco scrollare di spalle. Le tue guance erano già rosse per il vento e la corsa, ma in quel momento si imporporarono ancor di più e io non dissi più nulla.

Stringesti i pugni e io abbassai il mio sguardo, subito. Le mie ginocchia erano uno spettacolo più rassicurante. Non volevo, borbottai, ma dalle rotule non giungeva nessun tremolio di partecipazione, nessun non ti preoccupare. Trassi un profondo respiro e addentai la mela: era così aspra da farmi rabbrividire. Anche la voce di tua padre era così. Aveva fermato il tuo braccio che si slanciava verso le bambole con la sua presa salda, aveva detto è roba da femmine, tu sei una femmina? e il suo grido da corvo aveva spezzato l’aria tersa.

Quando rialzai la testa, avevi lanciato il passeggino nell’acqua.

Scattai in piedi, stupito, ma tu mi ignorasti. Eri accovacciato sulle assi del molo, il cappotto troppo largo, la sciarpa che si srotolava dietro di te umida.

Mossi un passo, poi un altro, con cautela. Il cuore mi batteva nelle orecchie, così insistente che mi tirai un colpo sul lato della testa per farlo smettere. Non devi avere paura, è solo un bambino, mi dissi. Raddrizzai le spalle, presi un profondo respiro. In un attimo ero lì al tuo fianco. Il passeggino, calato nell’acqua del lago, galleggiava placido sul posto, la stoffa rosa a fiori del sedile che si scoloriva in una tinta marrone scuro.

Tu eri del tutto ignaro della mia conquista. Avevi tirato fuori un pacchetto di fiammiferi e ora, con il viso abbassato, strofinavi un cerino nella speranza di vincere la brezza che soffiava dal lago. In piedi, mi chiesi se dovessi aiutarti, ma c’era una piega nelle tue sopracciglia corrugate che mi suggeriva di astenermi dal compiere qualsiasi azione.

Una fiammella blu si accese, timida. Tu gettasti un breve grido di gioia — un grido selvaggio, come quelli che lanciavi ogni volta che la tua squadra vinceva la partita — e frugasti nelle tasche della tua giacca. Accartocciasti un pezzo di carta nel tuo pugno, avvicinasti il fiammifero e i bordi bianchi e netti del tuo ultimo compito di matematica si annerirono.

Un lancio netto.

La carta cadde in mezzo al groviglio di plastica rosa, mentre il passeggino si allontanava. Sorridesti, ma il tuo sorriso non era quello assorto e tranquillo che era stampato sulle tue labbra mentre cullavi le due bambole dalla testa troppo grossa: era tirato, feroce. Tu raddrizzasti le spalle, con le guance rosse e le lentiggini che spiccavano come una manciata di macchie su un frutto. Dondolasti inquieto sul posto, mordendoti le labbra.

«Dai» sibilasti a denti stretti, mentre un ricciolo biondo si arroventava e virava verso il marrone scuro. Una mano perse tutte e cinque le dita, che si scurirono e si allungarono in unghie di strega. Stringesti il pugno. « Dai, accenditi » ripetesti, con una voce che si ruppe sull’ultima sillaba.

La fiamma guizzò per una, due, volte, come se non si volesse arrendere nemmeno lei. Serpeggiò sul pizzo candido di un vestitino e mandò un filo di fumo, così sottile che dovetti strizzare gli occhi per riconoscerlo. Non si accenderà mai, mi resi conto, abbassando la testa per resistere al vento. La luce si ravvivò ancora, un bagliore in mezzo alle onde scure che sballottavano il passeggino, poi il braccio che stava bruciando cadde con un tonfo nell’acqua.

La barca continuò ad andare. Da lontano, le bambole alzavano le mani in un gesto di saluto. Non potevo vedere i loro occhi vuoti, eppure era come se fossero piantati sul mio collo, la mia faccia, il mio mento. Rabbrividii: più tardi le avrei sognate galleggiare fino a casa mia e sistemarsi ai piedi del letto, le loro palpebre meccaniche che sbattevano e sbattevano e le loro mani che mi afferravano con una presa troppo forte e mi scuotevano per le spalle.

Seguivi ogni movimento del passeggino senza parlare, i pugni serrati, le spalle tese. Avevi gli occhi lucidi, ma sapevo che non avresti pianto. Non piangevi mai, neppure quando un amico ti mandava nella polvere per vincere, oppure sbagliava la mira e ti colpiva il ginocchio. Non avevi pianto neppure quando tuo padre ti aveva mollato uno schiaffo, così forte e improvviso da suonare come un vetro fracassato.

Stavi lì, la bocca tesa in una linea, le guance rosse, le lentiggini che spiccavano sempre più scure. Sollevasti il mento, ma eri solo un bambino con un taglio sul mento e un cappotto blu senza cerniera troppo grande. Avevo voglia di afferrarti la mano e dirti, come facevano gli adulti, che le cose si sarebbero sistemate: quando la nonna lo diceva ai miei genitori, loro annuivano sempre. Le parole, però, mi rimasero incastrate come lische. Non sapevo se prendere il tuo pugno e scioglierlo — era una cosa da femmine? Mi guardai le punte dei piedi.

E anche se lo fosse? sussurrò una vocina dentro la mia testa. Tu ti voltasti verso di me e fu come se mi avessi visto per la prima volta. Mi fissasti, le sopracciglia aggrottate. Da dove sei apparso? sembravi chiedere.

Mentre gridavi e tuo padre ti trascinava via, ti eri accorto di me, del ragazzino seduto sulla staccionata. In un attimo avevi chiuso la bocca e seguito, incespicando, i grandi passi di tuo padre, fino a quando non eravate scomparsi Saltai giù, afferrai la mia bicicletta e pedalai via, col vento che mi fischiava nelle orecchie e copriva tutto, il silenzio che era calato su di me come un martello, il rumore del mio pensiero, il desiderio di piagnucolare che mi faceva tirare su col naso — è da femmina? chi se ne frega, chi se ne frega…

Non volevo che tu ti allontanassi di nuovo. Così, dato che ero solo un bambino, un bambino che non aveva ancora proprio capito tutto, feci quello che sapevo fare meglio. Forse non era proprio il massimo, ma era ciò che mi faceva dimenticare i brutti voti, i litigi con mio fratello, le epiche sgridate di mie madre.

«Giochiamo? Ho un pallone nel cestino».

Gettasti un’altra occhiata al passeggino che si allontanava sempre più, le bambole annerite ma ancora vive. Fissasti le tue scarpe da ginnastica, indeciso, spettinato, strofinandoti la piccola cicatrice che ti intaccava la fronte.

Scrollasti le spalle.

«Va bene» dicesti, serio come sempre.

Ci allontanammo dal molo, tu davanti con le mani in tasca, io dietro. In silenzio, recuperai il pallone sgonfio dalla bicicletta. Eravamo rimasti zitti fino a quel momento; quando ci trovammo con in mano quel pezzo di gomma mezzo sfasciato, scoppiammo. Corremmo come due dannati fino a quando non trovammo un pezzo d’erba abbastanza decente per rotolare e infangarci, poi lasciai cadere il pallone dalle mani e lo calciai così forte che per un attimo temetti che il cielo l’avesse inghiottito.




*




Il fischio dell’arbitro mi fece dimenticare il pallone. Lo calciai via con tutte le mie forze e quello finì in un angolo del campo da calcio, dimenticato. Gridai, gridai tutta la mia ferocia verso il cielo, tutta la mia forza che non si esaurita ancora. Una goccia di pioggia mi crollò sul naso e io la leccai via.

Era solo una stupida partita tra un altrettanto stupido gruppo di adolescenti di qualche stupido liceo; eppure, quel giorno, avevamo giocato come se fossimo stati in finale ai Mondiali. Incrociai il volto attonito di un avversario, con un livido grosso come una prugna che si allargava sul ginocchio. Un altro era piegato in due e ansimava.

Non me ne fregava assolutamente niente. Corsi come una meteora per il campetto, le braccia larghe, saltando ogni compagno che tentava di placcarmi per un abbraccio da far scoppiare i polmoni. Le facce del pubblico mi scivolarono di fianco in un turbinio di rossi, gialli, blu; nel vortice scorsi il cenno di approvazione di mio padre, ma lasciai correre anche quello, lasciai che lui e il suo dente storto si mescolassero agli altri. Scrollai la testa sudata, poi corsi, corsi e ancora corsi, fino a quando le ginocchia non mi diventarono nere di fango e non sentii più le gambe.

In mezzo ai compagni festanti, eri l’unico a restare fermo, imperturbabile di fronte a tutti quei matti che saltavano, ridevano, gridavano. Avevi le guance rosse, i capelli che schizzavano per aria — ma perché non ti muovi mai, pensai, perché sei così lontano da tutto. Non lo sopportavo, non lo sopportavo mai — ti sgridavo sempre, ma tu liquidavi i miei scoppi con una scrollata di spalle, azzittendomi in un unico gesto.

Strizzai gli occhi per nnon vederti più, ma anche nel buio tu eri ancora lì, a fluttuare nel buio, una presenza chiara come la luce di un faro.

Maledetto.

La punta delle dita mi formicolava impazzita: strinsi la mano a pugno. Quando mi avevi passato la maglietta arancione, quella mattina, avevavmo entrambi sussultato: il tessuto scadente sintetico mandava spesso scosse elettriche. Avevi sfiorato con il pollice la mia mano, poi avevi sorriso, un sorriso enigmatico.

«Almeno non hai preso fuoco» avevi commentato. Avevo sbuffato e mi ero infilato subito la maglietta, come se fossi impaziente di cominciare la partita. In realtà, nessuno poteva vedere il mio ghigno sgretolarsi. Anche io mi ricordavo delle bambole — le vedevo galleggiare ogni notte in sogno e mi chiedevo come mai. Perché?

Tu ti scostasti la frangia color paglia con una mano, solo nonostante fossi circondato da altre maglie arancioni che sfarfallavano dietro di te.

Oh, al diavolo. Mi diressi verso di te a grandi passi — troppo veloci, troppo scombinati: sembrava che stessi camminando nel fango, ma non mi fermai.

Avevi la stessa espressione della giornata al molo: la bocca chiusa in una linea, il mento sporgente, sfacciato. Puntasti il tuo sguardo su di me e i tuoi occhi mi frugavano dentro ed era come se mi aprissi in due, lo giuro, non sopportavo, non ti sopportavo più, così ti strinsi in una morsa che magari ti avrebbe spezzato in due.

« Abbiamo vinto » ringhiai al tuo orecchio color porpora. Ti tirai un colpo sulla spalla e tu non sussultasti nemmeno. « Dovresti essere contento, idiota » biascicai, confuso, disperato. ma poi mi staccai e posai le mani sulle tue guance già ispide. « Sei un idiota » ripetei, ma già non sapevo più quello che dicevo, erano solo suoni senza senso e non eravamo mai stati così vicini prima d’ora. Volevo colpirti e poi fuggire, fuggire, fino a dove i tuoi occhi e la tua bocca troppo seria non avrebbero più potuto seguirmi.

Invece tu mi baciasti.

Fu un bacio rapido, veloce, secco: sbattei le palpebre, stordito, mentre tu tornavi a guardarmi con quel dannato sguardo di sfida, manco fossi un dio nordico che vedeva tutto e che tutto sapeva. Poi mi baciasti di nuovo. E di nuovo.

Crollai sull’erba, sotto di te. Mi chiesi ancora se questo fosse da femmina, ma quando tu ti fermasti e mi sfiorasti assorto la linea del mento capii che tutte le mie domande non avevano alcun senso. E allora fu il mio turno di rovesciarti sull’erba e premere la mia bocca sulle tua, ancora e ancora, sempre più rapido. Volevi parlarmi, ma io ti azzittii di nuovo. Volevo ditri che c’era un fuoco che divampava dentro di me e che non si sarebbe limitato solo a sfilacciarmi gli orli della maglietta, o fermato alle mie dita. Goffo, ti circondai la schiena con le braccia e tu ridesti sulle mie labbra, un po’ansimante, i capelli sporchi di terra umida.

Poi qualcuno mi afferrò per una spalla e mi costrinse ad alzarmi.

Confuso, sbattei le palpebre, il mondo nient’altro che una distesa di grigi che turbinava folle intorno a me. Mi voltai e vidi la mano grigia di un uomo che si serrava intorno al gomito. « Alzati » mi diceva la sua voce gelida. Le mie ginocchia cozzarono contro il terreno. Annaspai. Allargai un braccio per mantenere l’equilibrio e i miei piedi furono di nuovo saldi.

La pioggia cadeva: lasciava strisce di fango sulle guance, incollava i capelli alla nuca, eppure nessuno si muoveva per aprire un ombrello, nessuno fuggiva al riparo negli spogliatoi.

Adesso i miei compagni di squadra erano tutti fermi, nient’altro che spaventapasseri arancioni al mio sguardo sfocato. La mano che mi tratteneva mi gettò via, di colpo, con un pugno in mezzo alle scapole, come se fossi un giocattolo da scartare. Rovinai sull’erba, rotolai e rotolai fino a quando la mano preoccupata di mia madre non mi fermò. Il suo viso era slavato e pallido, il trucco che colava in due righe scure sotto la pioggia.

Tu non ti muovesti, ma tuo padre si fermò e alzò lo sguardo dritto su di me. Io non ero più un bambino, ero un giocatore di calcio sporco di fango, ero uno che era appena stato baciato, ero una miccia e una scintilla e un incendio, e mi accorsi che tuo padre aveva paura.

Mi liberai dalla presa di mia madre e piombai di nuovo in mezzo al campo, caracollando. Urtai con la spalla un mio compagno, incespicai, ma non mi fermai. Tu mi guardasti come se fossi pazzo, tuo padre mi guardò come se fossi pazzo. Non lo ero. Ti afferrai per le spalle: un battito di ciglia ed eravamo in due a incespicare, a perdere l’equilbrio su un campo completamente silenzioso, occupato da persone che ora sembravano solo ometti di plastica.

Così scappammo.

La folla si fendette in due per lasciarci passare. Mi fermai solo una volta: per cogliere di sfuggita la figura inginocchiata sull’erba, come un pupazzo rotto.

Fui richiamato indietro dalla tua maglietta che svolazzava via impazzita, dalla tua figura che scivolava via oltre i gazebo, oltre i furgoni e le automobili parcheggiate troppo vicine. Allora sorrisi.

Sarebbero cambiate un mucchio di cose, ma non mi interessava.

Ti seguii.




   
 
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