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Autore: hatake_san    20/02/2014    8 recensioni
A volte anche per lui era troppo. Tutti quei casi, quel lavoro che gli rubava ore preziose di sonno, il computer, acceso 24 ore su 24 per essere sempre in contatto con i suoi alias, gli avevano procurato due occhiaie molto vistose, che ora erano ancora più accentuate.
Silenzio.
Lacrime.
Singhiozzi.
Pensieri.
Tristezza.
Ma soprattutto solitudine.
Tutto questo affollava la mente del giovane genio, che in questo momento stava ripensando al bellissimo volto della madre e del padre che gli sorridevano all' uscita della scuola per poi riportarlo a casa, sorridenti.
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Prima ff su questo fandom, spero apprezzerete ^^
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: L
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Era sera.
La pioggia batteva incessante contro i vetri delle finestre, picchiettando piacevolemente. L si sentiva rilassato a quel suono, era abituato a quella solitudine, che tanto aveva cercato per isolarsi dai rapporti con gli altri. 

Era diventato un uomo di successo, conosciuto da tutti, ma nessuno conosceva il suo volto.
'Che cosa ironica'
Pensò, a parte le pochissime persone di cui si fidava. Si nascondeva dietro uno schermo nel quale era trasmessa solo una lettera: L. La sua iniziale.
Si nascondeva, per paura della troppa confusione che si sarebbe creata se il suo volto fosse reso pubblico. 
Si nascondeva, per paura dei giudizi che la gente avrebbe avuto su un tipo come lui, che mangiava sempre e solo dolci e si sedeva in quel modo così strano. 
Si nascondeva, perche voleva isolarsi dal resto del mondo.
Si nascondeva, perchè in fondo aveva paura, e nonostante fuori si mostrasse indifferente e noncurante di tutto, in realtà era sensibile, e provava emozioni come qualunque essere umano, perchè anche lui era una persona. 

Immerso nei suoi pensieri, fissava con aria assente la pioggia fuori dalla finestra, seduto vicino al focolare su una poltrona, in quella sua solita posizione strana. 
Ad un tratto, una lacrima solitaria gli rigò il volto. 
Aveva pianto solo una volta nella sua vita, da bambino, quando erano morti i suoi genitori, e da quel momento mai più, fino ad adesso. 
Quando sentì quella goccia salata cadere sul dorso della sua mano, realizzò la situazione. Si passò il pollice sulla guancia, ad asciugare la lacrima, poi rimase a fissarla per qualche minuto, e gli venne spontaneo ripensare alla sua infanzia, a quel giorno, tanto lontano quanto triste.
Altre lacrime accompagnarono la prima, e L nascose il volto tra le mani, abbandonandosi ad un pianto liberatorio. 
A volte anche per lui era troppo. Tutti quei casi, quel lavoro che gli rubava ore preziose di sonno, il computer, acceso 24 ore su 24 per essere sempre in contatto con i suoi alias, gli avevano procurato due occhiaie molto vistose, che ora erano ancora più accentuate.
Silenzio.
Lacrime.
Singhiozzi.
Pensieri.
Tristezza.
Ma soprattutto solitudine.
Tutto questo affollava la mente del giovane genio, che in questo momento stava ripensando al bellissimo volto della madre e del padre che gli sorridevano all' uscita della scuola per poi riportarlo a casa, sorridenti.

***

Già, la scuola. Quella scuola in cui si sentiva un estraneo in mezzo agli altri bambini, perchè aveva capito fin dall' inizio che lui era diverso. Alle lezioni si annoiava, sapeva già l' argomento del giorno, ed era intelligente come i suoi insegnanti, se non più. I compagni lo prendevano in giro per via del suo fisico, che era troppo magro per un bambino della sua età, perchè si sedeva sempre in quel modo così strano nonostante tutti i rimproveri della maestra, perchè aveva l'abitudine di mettere il pollice in bocca, i bambini ridevano, e lui aveva imparato troppo presto e a sue spese che i bambini sanno essere cattivi. Soprattutto verso altri bambini. 
L non aveva niente di strano, a parte la sua intelligenza superiore alla media era un bambino come tutti, era addirittura felice. 
Fino a quel giorno.
Sua madre e suo padre erano venuti a prenderlo all' uscita della scuola, ed era entrato felice nell' auto sul sedile posteriore, allacciandosi la cintura, cosa che era abituato a fare, quasi come un automa. Il padre era salito alla guida .
"Dimmi, cosa hai fatto oggi a scuola Lawliet?"
"La maestra ha spiegato le espressioni matematiche, ma io le sapevo già e quindi mi sono annoiato, sono stato il primo a finire gli esercizi, come sempre..." rispose, sospirando stanco e guardando fuori dal finestrino con i suoi grandi occhi neri, ancora senza occhiaie. 
Il padre sorrise 'questo è il mio bambino!' Pensò.
"Sono fiero di te, Lawly"
"Hai fatto colazione?" Si introdusse la madre nella conversazione. Nonostante a volte ad L stava antipatica perché era troppo "soffocante" le voleva bene come a nessun altro, e avrebbe fatto qualunque cosa per lei e renderla felice. 
"Sì." Rispose, mentendo.
'No, non mi piace la pizza'
La donna si girò, guardando attentamente il figlio. 
"Non è vero, Lawly"
'Mi ha beccato!'
Ad L non erano mai piaciute le cose salate, preferiva di gran lunga i dolci, li avrebbe mangiati tutto il giorno.
Abbassò lo sguardo imbarazzato, sapeva che ora si sarebbe dovuto sorbire una ramanzina da parte della madre.
'Devi mangiare di più Lawliet, sei dimagrito tantissimo da quando è cominciata la scuola! Che succede? Non puoi mangiare solo torte alla fragola e biscotti per tutto il giorno! Quando lo capirai?"
Lei stava per cominciare il suo discorsetto, quando il padre decise di dirle che ormai il loro "Lawly" stava crescendo. 

Proprio in quel momento, da una curva comparì una macchina che andava controverso a tutta velocità, il padre non fece in tempo a sterzare, e finì in tragedia.
Lawliet rimase traumatizzato da quel giorno.
Non ricordava precisamente cosa accadde, perche tutto andò troppo di fretta, quasi come se non se ne rese conto.

I suoi genitori gli erano morti sotto gli occhi, e lui era talmente spaventato che non riusciva a muoversi, anche se avrebbe voluto andare da loro, gridargli di vivere, di non lasciarlo solo, che era piccolo e aveva bisogno di loro, di non andarsene, di svegliarsi da quel sonno.
L'auto che aveva scontrato la loro era partita, ed ora era un punto indistinto sulla strada. Il bambino si salvò solamente grazie alla cintura di sicurezza che aveva. 
Sbattè la testa contro l'airbag che intanto si era aperto, ma comunque si ferì con i vetri rotti del finestrino che si erano sparsi per il sedile. 
Il braccio gli sanguinava, e anche la fronte.
Ma la cosa che più sanguinava era il suo cuore. Aveva perso i centri del suo mondo, le persone che aveva sempre ammirato e stimato di più, i suoi modelli di vita.
Era sempre stato un bambino realista, che analizzava tutto, e quindi capì subito la verità, anche se si rifiutava di ammetterla persino a se stesso. 

Provava a convincersi che erano solo svenuti e che avevano solo un trauma che si sarebbero ripresi, ma la persona traumatizzata era lui.

La vista dei capelli color mandorla della madre impregnati di rosso era impressa nella sua mente, i suoi occhi verdi chiusi, la bocca socchiusa in un'espressione di pace tradita solo dalle ferite ancora sanguinanti sulle guance, lasciavano pensare a tutt'altro. 
Il padre, con i capelli neri, gli occhi dello stesso colore, anche questi sporcati di rosso, furono l'unica cosa che ricordò. 

La folla si era radunata attorno alla macchina e fissava i due corpi e il bambino che piangeva con gli occhi neri spalancati per l' incredulità.
Si rannicchiò nella sua solita posizione, più stretto che potè, e si abbandonò ai singhiozzi che non ne volevano sapere di smettere. 
Passò un tempo indefinito prima che arrivarono sia la polizia che l'ambulanza. 
Caricarono i suoi genitori su due barelle, ed entrarono di corsa nel furgone dell' ambulanza. Durante l'operazione, il bambino era solo riuscito a dire un flebile "è inutile, è tardi." 
I medici capirono che aveva ragione, ma non volevano traumatizzare ancora di più un bambino di sette anni che aveva appena perso i genitori, così gli sorrisero e lo abbracciarono.
Da quel momento i ricordi si fecero sempre più confusi, fino al giorno del funerale.

***

La pioggia.
Il vetro.
Il silenzio.
Il suo respiro irregolare.
I pensieri di L si facevano sempre più pessimisti, mentre si perdeva nel mare della tristezza.
"Mamma, papà, chissà quando ci rivedremo, ho tante cose da raccontarvi, sapete, sono diventato una persona famosa, da quel giorno sono diventato sempre più motivato a salvare le vite della gente, perche avevo capito come ci si sentiva, anzi, come ci si sente, quando le persone care se ne vanno. Magari non sono sempre stato bravo, ho mangiato solo dolci, e sicuramente tu, mamma, ti arrabbierai,  ma in tutto questo tempo ho sempre pensato a voi, e questa è stata l'unica cosa che mi ha mandato avanti. Ma ora non ce la faccio più, è difficile andare avanti, sono diventato ricco, è vero, ma che me ne faccio dei soldi se non sono felice?"
Silenzio.
Ancora silenzio.
L era stanco di tutto quello, della sua situazione, della sua solitudine.
Ripensò ai suoi primi giorni come studente della Wammy's.
Finalmente lì aveva altri bambini che ragionavano al suo livello, le lezioni erano più interessanti, e di conseguenza metteva maggiore impegno in tutto quello che faceva.

La pioggia cominciava a farsi più rada, fino a smettere del tutto.
Il grande orologio a pendolo scandiva i secondi, e le sue lancette segnavano che la mezzanotte era già passata da un pezzo.
L si alzò dalla sua poltrona, e si avvicinò alla finestra. 
Le stelle brillavano nel cielo, che era nero come la pece, come i suoi capelli, come i suoi occhi, come i suoi sentimenti.
'La notte, chissà quante cose nasconde, chissà quante cose che non so. Se potessi, vorrei vivere per sempre, per poter conoscere la verità di tutto, e anche di quel maledetto giorno in cui tu me li hai portati via. Maledetto. Maledetto un' altra volta. E poi mi chiedono perchè sono ateo. Tsk. Perchè Dio avrebbe dovuto togliere i genitori ad un bambino proprio nel momento in cui ne aveva più bisogno? Non voglio essere egoista, non lo sono mai stato, ma se solo me li avessi lasciati per qualche altro anno, o magari anche fino ad adesso, le cose sarebbero diverse. Ho fatto tutto questo per loro, per renderli fieri di me, perchè sentivo che quello che facevo non era mai abbastanza per mettermi l'anima in pace e dire "Sì, ora mi sento bene."
No, questo non è mai successo. E non accadrà.'
Questi erano i suoi pensieri, mentre guardava con aria apparentemente assente il buio esterno. 
Non c'era nemmeno la luna, che, per ironia della sorte, pensò L, era coperta dalle nuvole. 
Strano, si ritrovò a pensare, l'unico punto in cui ci sono le nuvole, è proprio a coprire l'unica fonte di luce in quelle tenebre.
Poi si incamminò verso il suo ufficio, lentamente, con aria rassegnata.

"Mamma, papà, ho preso una decisione."
Avanzava nel corridoio debolmente illuminato.
"Finalmente."

Entrò, dirigendosi verso la cassaforte. 
Inserì la combinazione.
Si sentì un leggero "tic" che a L sembrò come un tuono in confronto a tutto il silenzio della stanza.
Estrasse il contenuto, e lo poggiò sulla scrivania in legno, vicino al portapenne.
Poi chiuse la cassaforte, che risuonò in un altro "tic".
Era freddo, L cominciava a sentire i brividi sulla pelle, non sapeva se era per colpa dell' oggetto che aveva davanti o per la temperatura esterna, ma poco gliene importava.
Si sedette sulla sedia, e lo osservò attentamente.
Era di pelle nera, con una scritta bianca sul davanti che diceva: "Death Note".
Agli occhi di tutti poteva essere un quaderno come tanti, se non fosse stato per le sue particolari caratteristiche.
Ne contornò i bordi con l' indice, tastandone la consistenza, lo spessore, il tipo di carta, tutto, passando il dito sulla scritta bianca, se lo rigirò e rigirò tra le mani, indeciso se rimetterlo a posto o no.
Passarono alcuni minuti, e L lo guardava ancora, assorto nei suoi pensieri, questa volta senza toccarlo, lo guardava e basta.
"E se fosse vero? Se veramente la persona muore dopo aver scritto il suo nome qui?"
Questo era il suo dubbio.
L voleva usarlo.
Lo desiderava da quando lo aveva trovato e portato nel quartier generale.
La curiosità era sempre stata il suo peggior nemico, ora come non mai.
Poi una frase.
"Se veramente funzioni, portami lì."
Aprì il quaderno, e rilesse le poche ma chiare regole che lo vincolavano, e poi prese la penna.
Ci pensò bene prima di scrivere, ma decise che era la cosa giusta da fare.


Scrisse il suo nome. Per intero.


Sapeva che dovevano passare 40 secondi, così fissò l' orologio.

3, 4, 5...

Il tempo passava.

17, 18, 19...

Era arrivato a metà.

26, 27, 28...

Ancora poco.

32, 33, 34...

Gli ultimi secondi.

37, 38, 39...

"Mamma, papà, sto arrivando."

40.





Oooooook, questa è una fic triste, nata da un momento triste, e finita in modo altrettanto triste. 
A dire la verità era da un po che pensavo di fare qualcosa su Death Note, e questo è il risultato del mio primo esperimento. 
Allora, so che non è un granchè, ma gradirei sapere i vostri pareri, e magari segnarmi (se li ho fatti) gli errori di ortografia presenti. 
All'inizio volevo farla finire in modo diverso (un lime?) poi però l'ho cambiata ed è finita così.
Non ho altro da aggiungere, se non un caloroso grazie a quelli che hanni letto fin qui.
Alla prossima ^^
 
  
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