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Autore: Soqquadro04    22/02/2014    5 recensioni
[AU!1864!Delena | Happy Ending | OneShot | 3.825 parole | Mama!Salvatore]
Più bello il fiore cui la pioggia estiva
lascia una stilla dove il sol si frange;
più bello il bacio che d’un raggio avviva
occhio che piange.
Myricae (Pianto) – Giovanni Pascoli

Ricordi e le stelle nel cielo di maggio - l'orchestra che suona e le risate che coprono i pettegolezzi.
[...] Gli ricordava sua madre anche per questo – per quel suo modo di essere umana, di essere Elena, in barba agli scandali e alle malelingue, infischiandosene delle piccole sconvenienze perché non puoi vivere la vita se c'è sempre qualcuno che può condizionarla (gliel'aveva biascicato quella sera stessa, sottovoce, mentre la sosteneva aiutandola – di nuovo – a salire in carrozza. E forse quell'improvvisa folata di modernità le era scappata di bocca grazie all'ebrezza leggera che le aveva lasciato addosso lo champagne, ma Damon aveva riso e trattenuto a malapena la voglia di baciarla. Era così, così e basta – così meravigliosamente Elena).
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alaric Saltzman, Altri, Damon Salvatore, Elena Gilbert, Giuseppe Salvatore | Coppie: Damon/Elena
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Soqquadro04
Fandom: The Vampire Diaries
Disclaimer: non sono assolutamente miei - mi piacerebbe tantotantotanto, ma non lo sono.
Generi: Romantico, Sentimentale, Fluff
Avvertimenti: AU, possibile OOC
Rating: Verde
N/A - Note dell'Autrice:
'na faticaccia, questa storia. Io amo scrivere AU, rendiamocene conto - ciò non toglie che sia una faticaccia.
Piccole note importanti:

1. Nella mia testa, il salotto di Villa Veritas è molto simile a quello della pensione;
2. Il background di Elizabeth Salvatore è tutto mio, non c' assolutamente nulla di ufficiale, se non che è morta di tubercolosi;
3. La nota OOC c'è perché sono entrambi, inevitabilmente, OOC: basti solo pensare a quanto è diverso il 1864!Damon dal Damon vampiro. Ho dovuto adattarmi, e probabilmente è venuto fuori un disastro ç___ç

Credo... di aver finito <3
Ah, no: il titolo, "Myricae", si rifà a quello della raccolta di poesie di Pascoli, da cui prendo anche la citazione iniziale <3

A presto,
la vostra Soqquadro

P.S. Sì, è strapiena di flashback ç___ç

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Myricae
 

Più bello il fiore cui la pioggia estiva
lascia una stilla dove il sol si frange;
più bello il bacio che d’un raggio avviva
occhio che piange.

Myricae (Pianto) – Giovanni Pascoli
 

Damon Salvatore sta aspettando che lei lo raggiunga – sa che lo farà, non appena riuscirà a liberarsi dell'amica bionda (Katherine? No, Katrina. O forse Caroline – sì, è Caroline) –, seminascosto dietro il tronco imponente di un noce frondoso.

Un paio di occhi scuri lo seguono da tutta la sera, nascosti dietro la relativa sicurezza di un ventaglio decorato – li sente addosso anche adesso, penetranti dall'altra parte del giardino, una carezza leggera sulla sua pelle, un tocco curioso; niente più che un gioco. È iniziato proprio come un gioco, del resto – solo un incrociarsi di sguardi durante una cena, uno sfiorarsi di dita mentre la aiutava a scendere dalla carrozza, il suo profumo a inebriargli i sensi mentre lambiva appena con le labbra il dorso della sua mano. Il guanto, perlomeno.
Gruppi sporadici di nuvole scure coprono parzialmente il brillante blu scuro del cielo, sfavillante di stelle – spera che non inizi a piovere.

Il giorno in cui l'ha incontrata pioveva – lo ricorda bene, perché il malumore per il brutto tempo e per l'impossibilità di uscire a cavallo, soprattutto, lo avevano reso alquanto insofferente nei confronti di suo padre, suo fratello e, in effetti, anche del resto del mondo in generale.

 

Passeggiava irrequieto per la biblioteca, il ticchettio delle gocce d'acqua contro i vetri perfettamente udibile nel silenzio composto, importante tipico dei luoghi pieni di libri – lasciava correre le dita lungo le coste eleganti dei volumi, i titoli in rilievo che gli solleticavano i polpastrelli.

Non aveva voglia di leggere, in realtà – la pioggia lo rendeva inquieto, intrappolato in casa. Si era allontanato dallo scaffale, dirigendosi verso l'angolo opposto del locale.

La poltrona era ancora lì, dove era sempre stata (dove era riuscito a farla rimanere – a costo di altre lotte con suo padre, ma non era questo il punto) – e mentre si sedeva, accarezzando con i palmi i braccioli decorati e apprezzando il velluto del sedile, forse poteva persino illudersi di sentire ancora il soffio sottile del suo profumo. Un ricordo.

Da bambino, quando lei sembrava ancora camminare per i corridoi e carezzargli i capelli la sera, la stoffa intrisa del suo odore era stata il suo unico conforto – e quella grande stanza un ultimo legame, l'unico posto in cui poteva sperare di ritrovarla, con l'eccezione del suo laboratorio. Una camera, al primo piano, solo sua – Giuseppe avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei, e quel piccolo capriccio era stato solo uno dei tanti, una condizione che aveva dettato non appena arrivata a Villa Veritas.

Era un'artista, sua madre – aveva cinque anni e l'odore di polvere di gesso lo faceva starnutire, un fotogramma sfocato del suo viso candido macchiato da uno sbaffo di colore, appena sopra lo zigomo.

Non aveva mai avuto paura di mostrarsi umana, Elizabeth Salvatore – il giorno della macchia si era presentata al the con i Fell, un incontro programmato da settimane, senza nemmeno darsi la pena di tentare di eliminare il vistosissimo segno blu zaffiro. Colori estremamente resistenti, aveva detto, non sarebbe servito a nulla.

Ma gli aveva sorriso, di nascosto, da dietro la mano guantata – e Damon aveva capito che era stato soltanto uno scherzo per i compunti signori Fell, e aveva sorriso di rimando, ridacchiando e aggrappandosi alla sua gonna, cercando di non perdersi fra i corridoi estranei della tenuta.

Eppure non entrava da anni nel suo studio – sapeva benissimo che Giuseppe l'aveva lasciato esattamente com'era l'ultima volta che l'aveva visto. Che l'aveva vista – prima che si ammalasse.
Aveva paura di riaprire quella porta, e vedere i pennelli rovinati e incastrati in tombe di colore ormai secco – una tela finita, di cui non poteva più rammentare il soggetto, abbandonata sul cavalletto e coperta di polvere.

Così si limitava alla biblioteca – alla sua poltrona e ai ricordi, alla sua voce che pareva echeggiare ancora fra le pareti mentre gli leggeva fiabe e rideva, rideva, rideva.

E forse era la pioggia, perché lei la pioggia l'aveva amata, ma Damon aveva sospirato, rassegnandosi a una giornata storta – quando cominciava la nostalgia, e il senso di mancanza, quando rivedeva ancora e ancora sempre gli stessi momenti, non era mai una buona giornata.

Poi aveva sentito le voci – voci concitate, giù nel vialetto, e il nitrire nervoso di cavalli. Si era alzato dalla poltrona, avvicinandosi alla finestra e scostando le tende – e, seppur attraverso il vetro deformato di gocce, era riuscito a vedere una carrozza sconosciuta ferma all'imbocco del vialetto, le sagome scure di tre uomini e quelle dipinte di azzurro e verde di due donne, le gonne ampie dagli orli sicuramente già imbrattati di fango.

Non sapeva che avrebbero avuto visite – ma, del resto, Giuseppe preferiva non averlo intorno quando si trattava di eleganti conversazioni in salotto e novità scabrose ridacchiate sottovoce. Non che gli dispiacesse.
Si era allontanato dalla finestra, sbuffando – appena prima che un bussare titubante rompesse il relativo silenzio, e una cameriera facesse capolino dalla soglia.

«Signore, le si chiede di scendere a ricevere la signorina Gilbert e la signorina Sommers.» aveva alzato gli occhi al soffitto, scontento – aveva sospirato e fatto un cenno di congedo alla domestica, quanto mai propenso, però, a ignorare il richiamo.

Quella aveva esitato appena, incerta se insistere o andarsene – infine aveva fatto una riverenza frettolosa ed era tornata ad occuparsi delle sue faccende.

Damon era rimasto immobile per più di qualche minuto, indeciso – conosceva solo di fama Elena Gilbert, l'orfana, a cui non erano rimasti nient'altro che suo fratello e sua zia. I genitori erano morti appena qualche mese prima – un'incidente in carrozza, sul Wickery Bridge.

L'aveva vista l'ultima volta un paio d'anni prima, la sera del suo debutto in società – una quindicenne bruna, enigmatica, dagli occhi grandi. A quel giorno, in età da matrimonio – e, anzi, a diciassette anni, praticamente in ritardo rispetto alle sue coetanee

Aveva avuto qualche sospetto, allora – il fatto che suo padre invitasse giovani in cerca di marito, dopo ogni discorso che, in vita sua, aveva sentito riguardo l'importanza di sposarsi per evitare che il cognome si estinguesse e altre varianti sul genere, lo rendeva piuttosto diffidente.

Oh, non gli avrebbe combinato un matrimonio – assolutamente.

 

Dieci minuti più tardi, si trovava sulla porta del salotto, uno sfavillante sorrisetto di circostanza a incrinargli gli angoli della bocca – graziosamente accomodate sul divanetto di fronte al camino acceso, la macchia azzurra e la macchia verde che aveva intravisto attraverso il vetro.

Sull'altro divano, suo padre, accanto a Stefan – e, cosa che aveva migliorato considerevolmente il suo umore, Ric.

Alaric Saltzman era a tutti gli effetti il suo migliore amico – per un breve periodo aveva tentato di essere il suo precettore sugli ultimi concetti di storia necessari al completamento della sua istruzione, ma si era arreso molto prima che arrivassero a bere la prima bottiglia di bourbon insieme, mezzi seduti e mezzi sdraiati su quello stesso divano, una notte particolarmente fredda di almeno quattro anni prima.

Giuseppe si era alzato in piedi, un sorriso persino più tirato del suo, andandogli incontro – quando l'aveva raggiunto gli aveva stretto una spalla, e dall'esterno poteva anche sembrare un gesto affettuoso o pieno di paterna accondiscendenza (in realtà l'aveva fatto abbastanza forte da fargli capire che il ritardo era stato un pessimo tiro).

«Eccolo qui! Damon, il mio primogenito.» la voce profonda gli aveva riempito le orecchie, attirando l'attenzione di Stefan, Alaric e delle due donne – la più adulta, rossa di capelli, doveva essere Jenna Sommers. Stava chiacchierando amabilmente con Ric, sorridendo e annuendo – gli occhi brillavano di allegria, e per un secondo si era chiesto se non si stesse programmando il loro, di matrimonio.

La piccola Gilbert, invece, parlava con suo fratello – era composta, seriosa, e gli occhi castani, enormi e liquidi come quelli di una cerbiatta, lo osservavano con uno sguardo di giudiziosa superiorità.
Aveva allargato il sorriso, rendendolo un po' più sincero – evidentemente conosceva i pettegolezzi.

Figlio degenere, soprattutto a confronto con il fratello minore, così preso dagli studi per diventare avvocato – e un disertore, come se non bastassero i guai già provocati alla famiglia con il bislacco progetto di diventare pittore.

Una persona da cui stare alla larga, in conclusione – una persona che la giovane Gilbert non avrebbe mai preso nemmeno alla lontana come possibile candidato per un matrimonio, e tanto meno l'avrebbe fatto sua zia.

Quindi dovevano essere lì per Stefan – l'irreprensibile Stefan.

Si era alzata anche lei, insieme agli altri – aveva continuato a guardarlo anche mentre si chinava per farle il baciamano, indugiando forse qualche momento di troppo sul dorso della sua mano.

«Damon Salvatore – incantato.» aveva inarcato le sopracciglia, lei, senza commentare, limitandosi a chinare il capo – e quella fu la prima volta che lo sorprese. Sembrava così seria, così rigida – eppure quel mezzo sorriso che gli aveva rivolto era indubbiamente sarcastico, e l'espressione del suo viso quasi sfrontata.

Forse doveva rivalutarla, dopotutto – e così aveva fatto, mentre sedeva di fianco a lei, quel pomeriggio, per un poco dimentico del cattivo tempo e del conseguente malumore.
Le piacevano i libri, aveva scoperto – e anche questo era servito a cercare una nuova opinione su di lei, sicuramente.

E anche se alla fine davvero si trattava Stefan – l'avevano capito tutti, in quella stanza, che non era semplicemente una visita di cortesia –, lui le aveva sorriso, aiutandola a salire in carrozza, dopo che la pioggia era cessata, il crepuscolo che incombeva su di loro con la sua coperta rossa e pesante.

Le aveva sorriso – e l'aveva salutata chiamandola per nome. Aveva fatto appena in tempo a vedere la sua fronte improvvisamente aggrottata per quella sua piccola, innocua libertà prima che sua zia chiudesse lo sportello, dando ordine al cocchiere di partire.

 

Lei sta cercando di avvicinarsi – sa perfettamente dove l'aspetta, ma continua a venire fermata per congratulazioni, perplessità o anche solamente per i saluti di rito.
Damon ridacchia, appoggiandosi al tronco del noce e attendendo, paziente, la giacca appoggiata con noncuranza al braccio – nonostante sia appena maggio, soffia una brezza calda che la rende completamente inutile.

È radiosa, Elena – lo vede mentre la sbircia di sottecchi, circondata dalla gente, che sorride e lo cerca con gli occhi, la bocca stretta in un sorriso che per metà è calma e per metà disapprovazione. Non è educato scomparire come ha fatto, da un momento all'altro, ignorando gli ospiti – ma ha assolutamente bisogno di un po' di tranquillità.

L'orchestra suona un'aria vivace, che si perde nel venticello – più tardi balleranno ancora, ma per adesso non ha voglia di tuffarsi fra le altre coppie che volteggiano, sia nel salone che lì fuori.
Riesce a scorgere persino Jenna e Ric, dal suo punto d'osservazione – la complicata acconciatura di lei è ridotta a un ammasso informe di forcine e trecce mezze sfatte, ma non sembra che le importi, e lo sguardo di Saltzman è lo stesso che sa di avere lui, a volte.

Sorride – non è la prima volta che li vede ballare, ma è sempre bello vedere l'amico così felice, soprattutto dopo Isobel.

 

La sera in cui li aveva visti ballare – in cui aveva visto quello sguardo fare capolino negli occhi di Ric – era un tramonto di maggio di un anno prima, per certi versi non dissimile da quella, per altri completamente differente.
Avevano organizzato un ballo, in onore del fidanzamento che ormai sembrava prossimo, fra la piccola Gilbert e il più giovane dei Salvatore – ma non solo lui sapeva che forse così prossimo non era.

C'erano stati altri pomeriggi, certo – anche, una volta, un picnic a Richmond, fra garbate osservazioni e lame di sole –, ma Elena, e persino Giuseppe doveva essersene reso conto, non era particolarmente interessata a Stefan e ai suoi goffi tentativi di corteggiamento.

Rideva, giocava come una bambina – si poteva forse dire che erano amici, magari, ma chiunque avesse passato qualche ora con quel bizzarro gruppo che si era venuto a formare se ne sarebbe accorto.
Elena lo cercava – cercava i suoi occhi e, quando si sentiva particolarmente audace, gli sfiorava le dita mentre gli camminava accanto.

Gli regalava sorrisi – ampi come quelli che solo Elizabeth riusciva a fargli – e riusciva ad aprirsi, senza maschere di buona educazione (non troppe) ed etichetta da rispettare – parlavano ancora di libri, le aveva rivelato che dipingeva; beveva la sua risata ogni volta che la udiva, e faceva il possibile per sentirla il più spesso che gli riusciva.

Era bella, Elena – bella e dolce, bella e forte. Ferita, forse – ma lui conosceva quelle ferite, sapeva, capiva. Poteva provare a curarle – magari c'era anche riuscito, col tempo, a renderle meno dolorose.

L'aveva vista arrivare, con la zia e suo fratello – era andato ad accoglierla, baciamano di rito ad entrambe e stretta di mano decisa al giovanotto Gilbert. Un ragazzo di sedici anni, un bambino, quasi – Jeremy aveva occhi scuri e guizzanti e un sorriso contagioso, e lui aveva pensato fosse una cosa di famiglia.

Le aveva offerto il braccio, osservandola da sotto in su, e lei aveva stretto le labbra, accettandolo con un cenno contenuto del capo – avevano ballato, e ballato, e parlato troppo forte sulla musica da sala, abbastanza da guadagnarsi occhiate di disapprovazione da parte di molti degli ospiti (non da Ric, naturalmente – probabilmente non l'aveva nemmeno notato, considerato che aveva occhi solo per Jenna). Per lui era normale, essere additato e i mormorii alle spalle – lei ci stava facendo l'abitudine a forza di frequentarlo. Gli ricordava sua madre anche per questo – per quel suo modo di essere umana, di essere Elena, in barba agli scandali e alle malelingue, infischiandosene delle piccole sconvenienze perché non puoi vivere la vita se c'è sempre qualcuno che può condizionarla (gliel'aveva biascicato quella sera stessa, sottovoce, mentre la sosteneva aiutandola – di nuovo – a salire in carrozza. E forse quell'improvvisa folata di modernità le era scappata di bocca grazie all'ebrezza leggera che le aveva lasciato addosso lo champagne, ma Damon aveva riso e trattenuto a malapena la voglia di baciarla. Era così, così e basta – così meravigliosamente Elena).

 

L'ha visto, finalmente – ha cambiato di colpo direzione, dirigendosi verso di lui con la schiena dritta e il vestito candido ormai rovinato, l'orlo macchiato d'erba.
Damon inarca le sopracciglia, lei lo fa di rimando e scuote le spalle – lui getta la testa all'indietro, e ride.

Ed è sicuramente solo un'illusione, ma gli pare di sentire lo scroscio dell'acqua e il tramestio degli zoccoli, come quella volta al fiume.

 

Quella volta al fiume era diventata il loro primo segreto.
Erano arrivati lì a cavallo, portandosi dietro cestini da cucito, coperte e libri – avevano passato due ore a trottare nel bosco, rischiando di perdersi, ma alla fine erano riusciti ad arrivare.

Quella volta l'aveva invitata per una passeggiata, porgendole la mano, e lei aveva letto nel suo sorriso la galanteria costruita del gesto – quella volta in cui, allontanatisi da tutti, aveva riso ed era scattato in avanti, sfidandola a rincorrerlo. Quella volta in cui lei aveva accettato e si era lasciata convincere a gettare le scarpe in un angolo del prato – quella volta in cui lui si era lasciato prendere e l'aveva trascinata sull'erba, incurante delle macchie verdi, rivelatrici, che potevano rimanere sulla gonna.

L'aveva abbracciata, ignorando le sue false proteste, acute – le aveva fatto il solletico fino a che non era riuscita a toglierselo di dosso, scalciando e ridendo come un bambina, e lui si era sdraiato supino sul terreno, le mani dietro la testa, ed entrambi avevano il fiatone per la troppa ilarità.

Quando Damon aveva voltato il viso verso di lei, un'espressione felice che doveva essere lo specchio esatto della sua, per un attimo tutto era sembrato immobile, e perfetto – il rumore dell'acqua in lontananza, il sole e i suoi occhi.

Le aveva parlato, quella volta – le aveva raccontato di sua madre. Le aveva detto che era morta quando era un bambino, che amava le rose. Che un po' il suo sorriso gliela ricordava – e lei allora aveva sorriso, e non aveva trovato motivo di ritrarsi quando lui le aveva stretto le dita, trattenendola un po' più vicino a sé. Né quando le si era avvicinato, piano, dandole il tempo di rifiutare – quando l'aveva baciata le era venuta la pelle d'oca, ed era stata una sorpresa scoprire che non si trattava affatto di una pratica invadente, e che quand'anche era diventato qualcosa appena più profondo di uno sfioramento, comunque, non era spiacevole. Nient'affatto.

Il suo primo bacio – e da quella volta non era più riuscita a lavare via il suo sapore dalle labbra.

Le aveva anche regalato un fiore, Damon – una corolla dai petali pastello, selvatica, che cresceva vicino alla sponda del fiume. Non mazzi di rose scarlatte, né titubanti infiorescenze di ciclamino, e neppure giunchiglie sfacciate.
Solo un piccolo fiore di cui non conosceva nemmeno il nome, un fiore di campo – semplice,
vero.

Quando erano tornati dal resto del gruppo, avevano dovuto affrontare sguardi preoccupati e consapevoli – ormai non c'era più nessuno, a Mystic Falls, convinto che la giovane Gilbert si sarebbe sposata con Stefan Salvatore. Era solo questione di tempo.

 

Era stata questione di pochi mesi, alla fine – altri mesi in cui, piano, era stato reso pubblico il cambiamento imprevisto; mesi in cui Giuseppe era stato più irritabile del solito (non aveva progettato di far sposare Elena con Stefan per nulla – i Gilbert avevano piantagioni di cotone che potevano essere discretamente utili, un matrimonio fra il figlio prediletto e l'erede di tali piantagioni gli avrebbe dato un certo potere in città. Ma con la mela marcia, con il nullafacente, era rimasto con un pugno di mosche). Suo fratello, invece, era piuttosto felice per lui – si era affezionato ad Elena, dopotutto, ma al momento sta ballando con la figlia dello sceriffo (l'amica bionda di Elena, in effetti) e pare piuttosto intenzionato a farlo ancora per parecchio tempo.

Il pomeriggio in cui aveva chiesto la sua mano, non fosse stato per la dichiarazione, sarebbe trascorso uguale a mille altri – il ricordo gli invade la mente proprio mentre lei, finalmente, lo raggiunge, gettandogli le braccia al collo.

 

Non aveva scelto un giorno particolare, o speciale – semplicemente, aveva capito che era arrivato il momento (l'aveva guardata, mentre leggeva seriosamente sistemata sul divanetto dove l'aveva vista la prima volta, accanto a sua zia che ricamava maldestramente e, semplicemente, aveva capito).

Si era inginocchiato – come ogni bravo ragazzo dovrebbe fare – e le aveva fatto la proposta, così, senza preavviso – senza nemmeno un anello, a dire il vero, ma ci avrebbe pensato più tardi – sotto gli occhi sconvolti di entrambe le loro famiglie pressoché al completo – in effetti, esattamente come un bravo ragazzo non dovrebbe fare, non aveva prima domandato il permesso a suo padre. Oh, beh – nulla di grave, solo l'ennesimo, succulento pettegolezzo per la buona società di Mystic Falls.

Elena aveva lasciato cadere il libro che teneva fra le mani, e lui ne aveva approfittato per intrecciare le dita alle sue, cercando il suo sguardo.

Quando la ragazza aveva iniziato a balbettare, confusa e arrossita sotto i suoi occhi, le labbra appena dischiuse, – non poteva giurarlo, ma gli era parso di udire qualcosa di molto simile a un “stupido, un immenso stupido” – non aveva resistito: le aveva rubato un bacio, incurante di ogni occhiata attonita che il resto dei presenti aveva lanciato loro.

A quel punto, credeva lei l'avrebbe respinto o perlomeno si sarebbe sottratta a quell'assalto – non aveva calcolato la sua incredibile capacità di sorprenderlo.

La sempre composta signorina Elena Gilbert aveva sorriso sulla sua bocca, prima di lasciarsi cadere in ginocchio di fronte a lui, la gonna ampia aperta attorno a loro come una corolla di petali azzurri – aveva riso, anche, di una risata che aveva coperto la maggior parte dei bisbigli accusatori che che si erano levati subito dopo in mormorii più alti, furiosi e imbarazzati per quella situazione sconveniente.

Li avevano ignorati entrambi, almeno finché Damon non aveva notato, con la coda dell'occhio, il cipiglio minaccioso del fratellino di lei – chissà se quel che lei aveva sussurrato sulla sua pelle, poco prima, in segreto, lo autorizzava a chiamarla ufficialmente fidanzata. Credeva fosse così.

Comunque, per buona misura, aveva badato ad allontanarsi, piano, tentando di non inimicarselo nonostante i buoni rapporti che stavano mantenendo, carezzandole ancora le mani – e il suo sorriso era così pieno, così vivo. Avrebbe potuto illuminare il mondo.

 

Ricorda che i suoi capelli sapevano di primavera e terriccio – ha sempre amato i fiori, e il giardino era casa sua. Anche ora, mentre tiene le mani sulla sua vita, ammiccando appena e facendola ridacchiare, il suo profumo accarezza i sensi e stordisce la ragione –, mentre le sfiorava un'ultima volta la fronte.

Ora la stringe a sé, teneramente, sorridendole – è felice, davvero, sotto le stelle di maggio.

Lei sussurra qualcosa sulla sua pelle, poggiando le labbra nell'incavo del collo – e rimangono così, abbracciati in un angolo del giardino, godendo della reciproca compagnia e tentando di ignorare il resto degli invitati, separati da loro da un velo invisibile.

«Questa nuova moda è assolutamente non necessaria, ed estenuante. Il ricevimento di nozze.» il tono di lei è bonariamente lamentoso, mentre si agita nel suo abbraccio, sollevando il viso verso di lui.

Damon guarda in basso, verso quell'espressione implorante – lo vede che è stanca: del rumore, delle congratulazioni, delle parole. Anche di portare l'abito dal corpetto troppo stretto e le scarpe di raso che le torturano i piedi.

Si abbassa a baciarla, prima di prenderla per mano, ridendo come quel giorno al fiume, e trascinarla verso casa.

Ric gli fa un cenno, da lontano, quando li nota – lui ricambia, la luna che fa brillare di bianco la stoffa dell'abito di lei.

Quando si chiudono la porta di servizio alle spalle – cercare di entrare dal portone principale avrebbe significato una nuova giostra di felicitazioni e sorrisi a labbra strette –, lei è senza fiato, le gote arrossate – Damon la bacia, profondamente, tenendo il suo viso fra le mani.

«Credo sia ora di congedarci ufficialmente, signora Salvatore.» mormora sulla sua bocca, abbracciandole la vita per condurla lungo i corridoi.

Non appena fanno un paio di passi, però, lui si china e le sostiene la schiena, passando l'altro braccio sotto le ginocchia – e forse la gonna ampia è scomoda e sta rischiando di farle perdere le scarpe, e l'acconciatura è disfatta e il buio rischia di farli inciampare, ma quando la solleva e la sua risata gli riempie le orecchie e il cuore, tintinnante come argento, non può non capire sua madre quando gli diceva di amare la pioggia.

 
 
 
   
 
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