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Autore: TheShippinator    23/02/2014    0 recensioni
Jackson ed Isaac sono vicini di casa, ma a Jackson non è mai importato molto delle urla che provenivano dalla dimora dei Lahey, finché un giorno non decide di andare a sbirciare dalla finestra del loro seminterrato. Quello che scopre, lo costringerà ad immischiarsi in affari che non avrebbe mai pensato potessero arrivare a riguardarlo. Ci vorranno comunque mesi interi ed un periodo passato dall’altra parte del mondo, per fargli capire quanto si può arrivare a tenere a qualcuno.
• What if? (E se Jackson avesse scoperto che Mr Lahey chiudeva il figlio in quel freezer?)
• Jackson/Isaac friendship (e anche qualcosa di più)
• Jackson lievemente OOC (ovviamente a causa del percorso di crescita, diverso da quello che ha nella serie originale)
Attenzione: SPOILER della Stagione 3b. Sono trattati (non in modo esplicito) gli elementi della violenza domestica e del bullismo. Accenni Jackson/Lydia.
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Isaac Lahey, Jackson Whittemore
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Violenza
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Ciao a tutti! Vi prego di non uccidermi, già da adesso e di ascoltare questa canzone (You Know Where to Find Me, di Matthew West) prima, durante o dopo la lettura. È stata la canzone che mi ha ispirato incredibilmente e dalla quale è tratto anche il titolo. Grazie, ci leggiamo a fine capitolo!

- - -

Anche quella sera, dalla casa dei Lahey provenivano rumori violenti e grida.
Come sempre, Jackson aveva provato ad ignorarle, ma era quasi impossibile quando nel quartiere c’era silenzio ovunque, tranne che dai suoi vicini.
Questa storia andava avanti da quando il maggiore dei Lahey era morto in guerra. Tutti sapevano che Mr Lahey si era lasciato andare, da quel giorno, e che l’unica cosa che gli rimanesse fossero il suo lavoro e suo figlio. E l’alcol, del quale sembrava essere diventato un grande amico. Incontrandolo, ormai, non si riusciva più a capire se fosse sobrio o sbronzo, visto che passava il 90% della giornata con il whisky che gli circolava nel corpo, insieme al sangue. A scuola, nessuno parlava mai con Isaac, il figlio minore. Jackson lo conosceva e l’aveva visto spesso, anche perché entrambi facevano parte della squadra di Lacrosse.
Era un ragazzo alto, molto magro, e parlava davvero poco. In classe non interveniva mai, a pranzo se ne stava per conto suo e durante gli allenamenti faceva quello che gli veniva richiesto e apriva bocca solo per respirare e confermare di aver capito cosa fare. Era, comunque, un bravo giocatore. Il suo problema erano le assenze. A volte, non si faceva vedere per un paio di giorni e quando tornava sembrava stanco. Jackson era stato obbligato ad andare da lui, in quei frangenti, ma gli aveva sempre aperto il padre ed aveva ritirato i compiti senza mai nemmeno chiedergli di entrare. Non che a lui interessasse, chiaramente. La scusa, comunque, era sempre che Isaac si era preso qualcosa di contagioso ed era meglio non stare nella stessa stanza.
Quella sera, però, Jackson stava cercando di studiare per un test di storia piuttosto importante che avrebbe avuto il giorno dopo, e sapeva che anche Isaac avrebbe dovuto farlo, perché frequentavano quel corso insieme.
Sbuffando, si alzò dalla scrivania e sollevò la parte mobile della finestra, sporgendosi all’infuori per sbirciare verso la casa dei suoi vicini. Le luci erano accese al piano inferiore e poteva vedere un paio di ombre muoversi in maniera concitata all’interno della stanza. Quello che stava urlando, era chiaramente Mr Lahey.
Jackson restò a guardare come, all’improvviso, anche le luci del piano di sopra si accesero, subito seguite da quelle che, Jackson lo sapeva, si trovavano nella camera di Isaac.
La sua finestra era aperta e dava proprio su quella della camera di Jackson, ma la parte di stanza che inquadrava era priva di qualunque essere umano.
Jackson sentì ancora un paio di grida, poi un forte botto, quindi silenzio. Qualche secondo dopo, le luci del piano di sopra si spensero, ad esclusione di quelle della camera di Isaac. L’ombra di suo padre si proiettò sulle tende della stanza al piano di sotto e lì rimase.
Per alcuni, lunghi minuti, nel quartiere ci fu solo silenzio e Jackson stava per tornarsene finalmente alla scrivania, quando la figura di Isaac entrò nella cornice di legno della finestra della sua camera. Si teneva una mano sulla bocca e l’altra sulla spalla opposta, quasi si stesse stringendo in un abbraccio da solo e si stesse, allo stesso tempo, impedendo di urlare. Poi Jackson lo vide: Isaac aveva spostato la mano dalla bocca e l’aveva allontanata un po’, portandola davanti agli occhi.
Il ragazzo sollevò le sopracciglia, per poi aggrottarle confuso: Isaac stava controllando di non perdere sangue?
Non riuscì a capirlo, perché d’un tratto Isaac si voltò proprio nella sua direzione. Se fosse stato più vicino, avrebbe potuto notare l’evidente panico nei suoi occhi, ma anche così lontano non fu difficile immaginarlo, visto che la finestra fu in fretta chiusa e le tende velocemente tirate, a nascondere qualunque visione.

Non si può dire che Jackson, il giorno dopo, avesse provato a parlare con Isaac di quello che aveva visto. Anzi, per essere onesti, non si può dire che gli sia anche solo venuto in mente di farlo. Probabilmente, però, questo era quello che Isaac pensava che Jackson avrebbe fatto, visto che lo evitò per tutto il giorno.
Il ragazzo lo notò distogliere in fretta lo sguardo da lui, durante il test di storia, e, allo stesso modo, Jackson lo beccò a fissarlo diverse volte, durante il pranzo. Ogni volta che lo coglieva in flagrante, Isaac distoglieva lo sguardo ed infossava la testa tra le spalle, rinchiudendosi in sé stesso.
Agli allenamenti di Lacrosse, Isaac non poté chiaramente evitarlo, ma Jackson, di nuovo, non cercò di parlare con lui. Notò, invece, che non sollevava la racchetta tanto quanto avrebbe fatto solitamente. Aveva lasciato ad altri un paio di passaggi veloci e ne aveva effettuati alcuni che, negli allenamenti precedenti, aveva concluso in maniera diversa. Aveva continuato a massaggiarsi la spalla per tutto il tempo e, a fine allenamento, non si era cambiato ed era tornato a casa con la divisa, senza farsi la doccia.
Jackson non si era preoccupato di fermarlo o di seguirlo: quello che succedeva in casa d’altri, restava un affare degli altri e, decisamente, non un suo problema. 

Per circa una settimana, Mr Lahey se n’era stato buono, non aveva gridato né fatto casino durante le ore notturne ed Isaac era andato a scuola e tornato a casa tutti i giorni, senza mai saltare una lezione.
Poi arrivò La sera. La sera nella quale Jackson capì che la filosofia del “non è un mio problema”, in questo particolare caso, non poteva essere applicata.
C’era stato silenzio per tutto il giorno, nel quartiere, e Jackson aveva appena finito di svolgere alcune equazioni di matematica che gli avevano dato parecchi problemi, quella mattina. Era sceso in cucina per recuperare un sacchetto nuovo da infilare nel cestino in camera sua, quando un forte rumore interruppe la quiete serale.
«Quell’idiota lo sta picchiando di nuovo?» si domandò Jackson, a mezza voce.
Si diresse verso la porta di casa, sbirciando attraverso lo spioncino; le luci, in casa Lahey, erano spente, eccetto che per quelle del seminterrato.
Jackson aveva notato che, quando Mr Lahey dava di matto la sera e si accendevano le luci del seminterrato, di solito, il giorno dopo Isaac saltava la scuola. Considerando che il padre già lo picchiava, che cos’avrebbe potuto fare, di peggio? Tanto peggio da costringerlo a non presentarsi alle lezioni?
«Mamma, vado da Danny, non aspettarmi alzata, okay?» si affrettò a gridare Jackson, per avvisare sua madre che stava uscendo.
Lei gli lanciò dietro qualche raccomandazione, ma lui non le badò. Non prese nemmeno le chiavi della macchina, per rendere credibile la sua bugia, né il cellulare: niente. Era uscito esattamente come era, con i pantaloni da ginnastica, la t-shirt grigia e la felpa nera con il cappuccio, la zip aperta sul davanti. Ai piedi aveva solo le calze e le ciabatte, che abbandonò vicino al proprio bidone dell’immondizia, per non fare rumore. Attraversò la strada e s’infilò nell’ombra prodotta dalla casa, cercando di avvicinarsi quanto più possibile alla finestra del seminterrato.
Un altro forte rumore, come di qualcosa che andava a schiantarsi contro il muro, lo fece sobbalzare. Jackson si affrettò ad abbassarsi, tanto da ritrovarsi completamente sdraiato a terra, nascosto nell’ombra.
Il vecchio Lahey stava urlando qualcosa, sembravano insulti rivolti ad Isaac. Jackson captò qualche riferimento al test di storia e altri riferimenti al suo fisico gracile e l’incapacità addirittura di eccellere nello sport.
S’accigliò, il ragazzo, a quell’ultimo commento: Isaac era un bravo giocatore e, anche se non possedeva un grande spirito di squadra o una grande chimica con i compagni, era bravo con la tattica di gioco e riusciva sempre a regalare qualche vantaggio al team, durante le partite.
Sentì una voce debole, troppo bassa perché potesse distinguerne le parole, ma a quella subito si sovrappose quella possente di Mr Lahey. Jackson si azzardò a sbirciare dalla finestra vicino alla quale era sdraiato.
Il seminterrato di casa Lahey era pieno di cianfrusaglie, per lo più roba che cadeva a pezzi. Sembrava ci fossero vetri e cocci dappertutto, attrezzi da lavoro e vecchi mobili con le gambe rotte o l’imbottitura di fuori. Isaac e suo padre erano vicino alle scale che portavano al piano terra. Isaac era seduto per terra e si copriva la testa con le braccia, il padre, invece aveva i pugni serrati e, in una mano, stringeva una corda.
«Non costringermi a trascinartici di nuovo, sai che detesto farlo!» esclamò l’uomo.
«No ti prego… per favore, papà…!»
Questa volta, Jackson riuscì ad udire le parole di Isaac. Il ragazzo aveva alzato la voce e stava cercando di alzarsi in piedi. Jackson riusciva a vedere che le sue guance erano lucide di lacrime, che, probabilmente, aveva appena iniziato a versare.
«Non si pregano gli uomini, ma i Santi, figliolo. E adesso entra lì dentro, per scontare la tua punizione!» esclamò di nuovo Mr Lahey.
Jackson strinse i pugni contro il terreno, gli occhi incollati alla scena che aveva davanti. Non riusciva a distogliere lo sguardo, era come ipnotizzato. Restò a guardare anche quando il padre di Isaac lo afferrò per le spalle e lo gettò di nuovo a terra, schiaffeggiandolo e lottando con lui per legargli i piedi.
Isaac riuscì ad assestargli qualche debole calcio, ma era a piedi nudi e più che far arrabbiare di più suo padre, non fece. Quando alla fine i piedi di Isaac furono legati, all’altezza delle caviglie, l’uomo iniziò a trascinare il ragazzo verso destra. Jackson fece guizzare lo sguardo in quella direzione e lo stomaco gli si aggrovigliò. Le mani corsero velocemente alle anche, ma, con orrore, si ricordò di aver ancora addosso la tuta e di non aver preso il cellulare.
Quello che aveva davvero spaventato Jackson, era stato l’enorme freezer sistemato contro la parete. Era chiaramente staccato dall’alimentazione, visto che era spento, ma aveva il coperchio alzato e, su una delle chiusure, pendeva un grosso lucchetto. Il padre di Isaac lo stava tirando da quella parte e sembrava avere tutta l’intenzione di infilarcelo dentro.
Fissò Isaac cercare di resistergli, provare ad aggrapparsi a qualcosa, anche al pavimento di cemento con le unghie, pur di evitare di essere infilato in quel freezer. Jackson si morse il labbro inferiore, trattenendo l’istinto di gridare contro quell’uomo. Non riusciva a trovare la forza di alzarsi e tornare in casa, la testa gli girava ed aveva come l’impressione che se fosse andato via adesso, qualcosa di ancora più brutto sarebbe potuto succedere.
Isaac continuò a supplicare il padre, che, invece, lo tirava trascinandolo per la corda che gli aveva legato ai piedi. Quando furono in prossimità del freezer, l’uomo smise di tirare e sollevò un Isaac ormai quasi stremato per la fatica che aveva posto nel resistergli. Cercò di allontanare il padre da sé, di mantenersi in piedi da solo, ma tutto quello che fece fu sbandare verso quella grande gabbia, tanto che il padre ne approfittò e ce lo spinse dentro. Prima di dargli il tempo di fare altro, mentre ancora il figlio stava gridando di, per favore, non chiuderlo lì dentro, l’uomo abbassò il coperchio e diede un giro di chiave al lucchetto.
I colpi iniziarono subito. Forti e rimbombanti tonfi che Jackson aveva sempre attribuito a qualche animale selvatico che faceva cadere i bidoni della spazzatura in lontananza. Ora capiva da dove provenivano quei suoni: era Isaac che chiedeva aiuto, Isaac che colpiva i lati ed il coperchio della sua prigione, Isaac che graffiava il metallo, disperato ed alla ricerca di aria, in preda a quella che, sicuramente, era la paura più cieca che portava la claustrofobia.
Il padre del ragazzo non disse nulla, lasciò la chiave all’interno del lucchetto, scosse la testa e si diresse verso una vetrinetta in un angolo. Sembrava l’unico luogo di quella cantina privo di polvere. L’aprì e ne estrasse una bottiglia di scotch. Non si preoccupò di portare con sé anche un bicchiere: la stappò e vi si attaccò a canna, ingollando un lungo sorso e rabbrividendo. Con la bottiglia tra le mani, si diresse al piano di sopra, spegnendo le luci e chiudendo anche la porta della cantina. I colpi provenienti dal freezer non cessarono, alternandosi ai rumori stridenti delle unghie di Isaac che provavano a scavarsi una via di fuga nelle pareti di quello spazio angusto.
Jackson si guardò attorno, il cuore a mille. Avrebbe potuto andare a chiamare la polizia, ma se non l’avesse prima tirato fuori, Isaac sarebbe potuto anche morire, lì dentro. O farsi male sul serio. La finestra davanti a lui era chiusa, ma non quella dall’altro lato della casa: poteva vederla proprio da lì, era socchiusa e lui era abbastanza magro da passarci. Sotto a quella, poi, c’era un grande ripiano da lavoro molto spesso, ricoperto di attrezzi. Sarebbe anche riuscito a scendere e risalire.
Fece in fretta il giro della casa, poi si fermò. Se fosse entrato adesso, Mr Lahey avrebbe potuto sentirlo e scendere nel seminterrato. Doveva aspettare di vederlo andare a dormire. Si morse il labbro e fece marcia indietro. Con il cuore che pompava adrenalina, si schiacciò contro la parete della casa, vicino all’unica finestra illuminata: quella della cucina.
Sbirciò cautamente da un angolo, solo per pochi secondi, quindi si ritrasse. Mr Lahey era seduto a  capotavola e si stava scolando lo scotch, che adesso aveva deciso di versare in un bicchiere. A giudicare dalla quantità di liquido presente nella bottiglia, se n’era già scolato un bel po’.
Jackson dovette aspettare un buon quarto d’ora, sbirciando ogni tanto, prima che l’uomo crollasse definitivamente con la testa sul tavolo. Probabilmente, aveva già bevuto abbondantemente prima di prendersela con Isaac, di questo Jackson non dubitava.
Fece, finalmente, il giro della casa, raggiungendo la piccola finestra socchiusa del seminterrato. La spalancò e c’infilò una gamba, poi un’altra, quindi ruotò e si portò a pancia in giù. Facendo attenzione, si calò abbastanza da toccare la sommità delle mensole sopra al piano da lavoro con la punta dei piedi. Si lasciò andare, cercando di non fare troppo rumore, e scese verso il ripiano, utilizzando quelle mensole come appigli.
Per un istante, i colpi e gli stridii smisero di riempire l’aria, quindi ricominciarono ancora più forti. Poteva anche sentire delle parole, che però non riconosceva, sotto a quei suoni. Erano, chiaramente, le grida di aiuto e di supplica di Isaac. Probabilmente, pensava che il padre fosse già tornato indietro e voleva chiedergli di liberarlo.
Jackson si affrettò a scendere, quindi corse verso la prigione di Isaac, cercando di fare meno rumore possibile. S’inginocchiò vicino al freezer, avvicinando le labbra al punto in cui il coperchio posava sulla scatola sottostante.
«Lahey! Lahey fa silenzio, sono Jackson!» esclamò sottovoce.
Isaac s’immobilizzò e zittì all’istante. Jackson cercò di stare zitto a sua volta, leccandosi le labbra e dando all’altro il tempo di metabolizzare.
«Whittemore? Cosa ci fai qui?» chiese la voce di Isaac, che l’altro riconobbe come alterata dal pianto.
«Davvero, Lahey? Credo che tu abbia un problema più grosso, in questo momento. Sto per farti uscire, va bene? Non urlare, però. Tuo padre è svenuto sul tavolo della cucina, quindi non svegliarlo con le tue lamentele.» sbottò Jackson, senza riuscire a trattenere la sua vena menefreghista, che in quel momento era tutto fuorché genuina.
«No! Non farlo! Se domattina non mi trova qui dentro, sarà anche peggio!» esclamò Isaac, battendo sul coperchio del freezer, come a contrastare le proprie parole.
«Come vuoi, allora ti lascio lì dentro a soffocare.» esclamò sarcasticamente Jackson, tacendo, però, e non parlando più.
Passarono alcuni secondi, prima che Isaac tornasse a battere sulle pareti del freezer.
«Whittemore? Sei lì? Ho cambiato idea, ti prego, tirami fuori! Tirami fuori!»
Jackson sorrise tra sé e sé e non gli rispose.
Si alzò in piedi, quindi girò la chiave nel lucchetto, sbloccandolo e sfilandolo dalla chiusura del freezer. Sollevò il coperchio, rivelando la figura di Isaac. Lo guardò, dall’alto, ed Isaac lo fissò dal basso.
Le palpebre del ragazzo erano semichiuse e gli occhi gonfi e rossi, le guance bagnate di lacrime, le mani chiuse vicine al volto e le gambe rannicchiate, perché lo spazio era troppo piccolo perché lui ci stesse disteso.
Le dita erano rivolte verso il palmo delle mani, ma non chiuse a pugno, perché le unghie erano ricoperte di sangue ed evidentemente spezzate in più punti.
Jackson si chinò, mentre Isaac si copriva il volto con le mani e singhiozzava in silenzio. Prima gli liberò i piedi dalla corda, poi gli afferrò i bicipiti.
«Avanti, tirati su. E non sporcarmi la felpa di sangue.» disse di nuovo, ostentando un menefreghismo che in quel momento non possedeva.
Isaac non disse nulla, comunque, anzi… quasi non lo avesse proprio sentito, si aggrappò forte alle sue spalle stringendo la felpa tra le dita, cercando contemporaneamente di tirarsi su e restare stabile sulle proprie ginocchia. Una volta in piedi, non ci mise più di mezzo secondo per uscire dal freezer, salvo poi rischiare di cadere a terra di nuovo, per essersi mosso troppo in fretta.
«È solo… è solo un giramento di testa…» disse piano, lasciandosi cadere a terra e posando la schiena contro il lato del freezer. Jackson rimase a fissarlo qualche istante, per poi sedersi di fianco a lui.
Rimasero in silenzio, mentre Isaac si riprendeva e, pian piano, cominciava a respirare normalmente.
Nessuno dei due disse nulla, all’inizio, finchè proprio Isaac decise di rompere il silenzio.
«Non era così prima. Non lo faceva. Non beveva così tanto e non mi chiudeva… qui dentro…» cercò di giustificarlo sotto voce, come Jackson sapeva che le vittime di violenze domestiche spesso facevano.
«Importa davvero quello che faceva prima? Non importa più il fatto che ho dovuto tirarti fuori dal freezer in cui lui ti ha ficcato questa sera?» domandò il ragazzo, stringendo la mascella in preda ad una lieve rabbia. Perché quello era suo figlio ed un padre non dovrebbe comportarsi così. Un padre non dovrebbe odiare il proprio figlio o maltrattarlo, dovrebbe volergli bene, dovrebbe sostenerlo. Odiava quell’uomo che aveva gettato nel cesso un rapporto che Jackson avrebbe pagato oro, pur di aver avuto con il suo vero padre. Non che l’uomo che l’aveva adottato fosse stato poco gentile con lui o gli volesse meno bene, solo che, in qualche modo, il pensiero che non fosse biologicamente suo genitore e che il suo vero padre fosse morto in un incidente d’auto, l’aveva reso diverso ai suoi occhi. Vedere come quell’uomo stava distruggendo la vita del suo unico figlio, lo riempiva di rabbia.
«… è solo perché beve molto…» tentò nuovamente Isaac, ma Jackson lo interruppe sbattendo forte la mano contro la parete del freezer.
«Non è una scusa!» esclamò, a voce forse troppo alta. «Non è una scusa, Lahey! È orribile che qualcuno chiuda una persona in uno spazio così piccolo, ma è ancora più orrendo che un padre lo faccia al proprio figlio. Andrò a dirlo alla polizia, che ti piaccia o no!»
Jackson abbassò subito la voce, riducendola ad una serie di sussurri rabbiosi. Isaac strinse forte gli occhi, ascoltando le sue parole, per poi voltarsi di fretta verso di lui quando venne nominata la polizia.
«No! Non devi andare dalla polizia! Ti prego, per favore, non farlo! L’anno prossimo… l’hanno prossimo sarò maggiorenne ed andrò via. Devo solo tenere duro ancora un po’.» pigolò il ragazzo, respirando affannosamente.
«Non stai avendo un attacco di panico, vero?» domandò Jackson piano, sollevando le sopracciglia.
Isaac non disse nulla, continuò solo a respirare in maniera affannosa, quindi scosse la testa.
«Non andrò alla polizia… devi essere tu a farlo…» disse alla fine Jackson, distogliendo lo sguardo da lui e fissando il pavimento. Subito, notò i segni delle unghie di Isaac sul cemento della pavimentazione.
«Io non…»
«Lo so. Quando sarai pronto…» lo interruppe subito Jackson, voltandosi alla fine verso di lui. «Nel frattempo, io verrò a liberarti ogni sera, quando vedrò le luci della tua cantina accese… e ti farò compagnia. Tanto soffro di insonnia, in questo periodo, quindi non dormirei comunque. E i rumori che fai mi terrebbero lo stesso sveglio.»
Tentò di risultare antipatico, tentò di non dare a vedere che, tutto sommato, gli stava a cuore che Isaac non finisse ammazzato in quel seminterrato. Ecco perché mentì: lui non soffriva d’insonnia, proprio per niente, ma non poteva lasciare quel ragazzo lì, tutto solo, abbandonandolo all’ira di un padre che, il giorno dopo, l’avrebbe trovato fuori dal freezer e si sarebbe accanito su di lui per farsi dire come fosse uscito.
Isaac non riuscì a trattenersi, quindi sorrise timidamente ed in maniera imbarazzata.
«Mi dispiace… io soffro tremendamente di claustrofobia… è… si sente tanto?» domandò in un sussurro tremante.
«Sembra che provenga da molto più lontano. E ogni tanto si sentivano anche delle voci. Pensavo che fossero gatti in amore, invece eri tu che strillavi come una femminuccia, senti un po’…!» continuò Jackson, dandosi mentalmente dello stupido: forse questa volta aveva esagerato.
Isaac, però, non si scompose. Scosse piano la testa e ridacchiò sottovoce. Quindi apertamente. Rise e Jackson non riuscì a trattenere un sorriso ed uno sbuffo divertito a sua volta.
Quando si voltò a guardare l’altro, però, non c’era nulla che facesse credere che il ragazzo si stesse davvero divertendo. Gli occhi erano socchiusi e ad accompagnare le risate c’erano delle lacrime, che avevano iniziato a scorrere di nuovo sulle sue guance. Isaac trasformò in fretta la risata in una serie di singhiozzi, quindi posò i gomiti sulle ginocchia piegate al petto ed infilò le dita, ancora sporche di sangue mezzo secco, nei capelli. Si artigliò i riccioli biondi, tirandoli e piangendo, singhiozzando con gli occhi ora serrati e chiusi.
Jackson sbatté le palpebre, incredulo e frastornato. Non sapeva esattamente cosa fare, quindi si limitò a posare una mano sulla spalla del ragazzo.
A quel contatto, Isaac si mosse in fretta. Quasi fossero stati amici da una vita, quasi lui fosse stato una sorta di fratello, si gettò verso Jackson e nascose il volto tra quello di lui e il suo braccio, posando la fronte sul freddo lato del freezer. Non spostò le mani dai capelli, ma Jackson posò comunque entrambe le mani sulla sua schiena, tenendolo stretto e fissando il vuoto, sconvolto. Deglutì, ma non si spostò, permettendo ad Isaac di sfogare tutto il suo dolore, la sua frustrazione e la sua paura.
Non seppe mai per quanto lo strinse e per quanto il ragazzo pianse, semplicemente, ad un certo punto, si ritrovarono ancora in quella posizione, a parlare. Le mani di Isaac non erano più strette attorno ai propri capelli, ma aggrappate alla felpa di Jackson, in prossimità della sua vita. Le mani di Jackson erano, a loro volta, ancora posate sulla schiena di Isaac. Non si guardarono mai in faccia, l’altro restò tutta la notte con la fronte posata alla parete del freezer e Jackson a fissare il vuoto, mentre discutevano del più e del meno, della scuola, dei professori, dei loro genitori, dei compiti.
Jackson lo strinse per tutta la notte e quello avrebbe fatto per altre, molte, notti a venire.

Passarono i mesi e le cose cambiarono, ma non il rapporto segreto tra Isaac e Jackson. Erano, ormai, diventati amici, amici che non si mostravano alla luce del sole. Il loro era un rapporto di amicizia che conosceva soltanto la notte, quelle notti in cui qualcosa andava particolarmente storto ed il padre di Isaac s’infuriava. Quelle notti, Jackson le passava con lui, sdraiati sul pavimento della cantina, mentre Mr Lahey russava svenuto sul divano, in camera da letto, in cucina, talvolta in bagno, con la testa infilata nel cesso. A Jackson non era mai dispiaciuto vederlo perdere i sensi mentre vomitava, come avrebbe potuto?
Ci voleva sempre un po’, prima che Isaac tornasse in sé dopo essere stato liberato da Jackson, ma ogni volta andava sempre meglio. Sapeva che Jackson sarebbe arrivato e lo avrebbe aiutato, quindi, lentamente, le crisi di pianto e gli attacchi di panico erano diminuiti. La  claustrofobia, quella no.
Ogni volta che il sole sorgeva, Jackson controllava l’ora e, mezz’ora prima che la propria sveglia suonasse, aiutava Isaac a rientrare nella sua prigione. Gli prometteva che sarebbe andato tutto bene, che si sarebbero visti a scuola, quindi lo chiudeva dentro. Era sempre più difficile, ogni volta, guardare Isaac che chiudeva gli occhi e faceva respiri profondi, mentre Jackson abbassava lo sportello del freezer e girava la chiave nel lucchetto.
Lentamente, Isaac aveva anche iniziato a venire a scuola anche dopo quelle notti. Suo padre sembrava guardarlo e decidere che non gli sembrava abbastanza stanco, abbastanza punito, quindi, invece di permettergli di passare la giornata nel letto, a recuperare il sonno che solitamente lui perdeva a gridare e dimenarsi nel freezer, lo obbligava ad andare a scuola, seguire le lezioni, svolgere i test, anche se sapeva che aveva appena passato una notte d’inferno.
Ma ad Isaac questo andava bene, perché così poteva vedere Jackson anche di giorno. Non si parlavano quasi mai, a scuola, tranne che a Lacrosse. Ognuno mangiava per conto suo, in mensa, Jackson stava con i suoi amici in corridoio, Isaac stava da solo… ma Jackson lo guardava. Scambiava con lui alcuni sguardi ed Isaac sapeva che quegli sguardi volevano dire che lui gli era vicino, che stava controllando che stesse bene.
Isaac, semplicemente, ricambiava lo sguardo, sorrideva timidamente, prendeva i suoi libri e si dirigeva alla classe successiva.
Ci fu un solo episodio, durante il quale Jackson ruppe la tacita regola del silenzio, tra loro, ed accadde prima che Jackson iniziasse a cambiare, prima che Isaac iniziasse a cambiare. Prima che il sovrannaturale prendesse il sopravvento delle loro vite.
Nessuno aveva mai mostrato grandi segni di ostilità nei confronti di Isaac, ma allo stesso modo c’era chi, invece, aveva perpetrato lievi atti di bullismo nei suoi confronti. Era capitato che qualcuno lo spintonasse contro un armadietto o che gli venissero rovesciati i libri dappertutto, in mezzo al corridoio, proprio un istante prima del suono della campanella.
Erano cose da nulla, ma a volte potevano trasformarsi in veri e propri incubi, se veniva presa tra le dita la paura   più grande di una persona e questa veniva costretta a stringerla e a sopportarla.
Entrando negli spogliatoi di Lacrosse, quel giorno, Jackson si diresse, come al solito, al proprio armadietto. In fondo alla fila, erano radunati alcuni dei suoi compagni di squadra e questi sembravano ridere animatamente. Jackson non badò a loro, perché non stavano facendo nulla di male, finché non li sentì. I colpi.
Qualcuno stava prendendo a pugni un armadietto, lo capiva dal suono rimbombante, ma quello che fece scattare davvero il campanello d’allarme fu il rumore stridente che seguì uno dei botti. Come se qualcuno stesse graffiando una lastra di metallo.
Si voltò di scatto verso i ragazzi che stavano ridendo, quindi li raggiunse in fretta, serio e con le mascelle serrate.
«Vi prego! Tiratemi fuori!»
Non c’erano dubbi, quella era la voce di Isaac, che, ansimante, supplicava i bulli di farlo uscire.
Jackson fissò i tre ragazzi negli occhi e quelli, lentamente, smisero di ridere.
Sentì montargli in petto una grossa rabbia, ma non disse nulla e si limitò a voltarsi verso l’armadietto che, evidentemente, nascondeva Isaac al suo interno.
Lo aprì e portò le mani in avanti, pronto, come sempre, ad afferrare il ragazzo per i bicipiti e a sorreggerlo. Come previsto, Isaac non si resse sulle gambe e fu solo per miracolo -e grazie all’amico- che non cadde lungo disteso a terra.
Jackson lo aiutò a sedersi su una panchina ed Isaac subito si voltò, per impedire a quei ragazzi di vedere che aveva gli occhi lucidi.
«Idioti! Soffre di claustrofobia! Andate dal Coach e ditegli che mi rifiuto di giocare, se non vi sospende nella prossima partita.» esclamò Jackson, con la voce tremante di rabbia.
«Ma Jackson… se non giochiamo, sarà costretto a far entrare in campo Stilinski!» esclamò uno dei ragazzi, avanzando e cercando di posare la mano sulla spalla di Jackson. Il ragazzo di scansò e lo fulminò con lo sguardo.
«Vuoi che ti procuri un altro motivo per non giocare? Ti concedo di scegliere su quale gamba ti passerò accidentalmente sopra domani con la mia Porche, se non vai immediatamente a costituirti dal Coach. Tutti e tre. Io sono il Capitano, io decido chi gioca!» esclamò Jackson. Di malavoglia, i tre ragazzi si avviarono verso l’ufficio del Coach, così Jackson fu libero di voltarsi verso Isaac.
«Va tutto bene?» chiese cautamente, posandogli una mano sulla spalla. Non aveva potuto riprendersi come al solito, ma sentire Jackson prendere apertamente le sue difese era decisamente servito.
«Sì… abbastanza.» disse piano Isaac, voltandosi. Gli occhi erano un po’ rossi, ma nel complesso sembrava tranquillo, ora.
«Mi dispiace, quei tre… sono… perché l’hanno fatto?» domandò Jackson, sollevando le spalle e lasciando andare le braccia lungo i fianchi.
«Hanno detto che sono un secchione perché un Professore si è fermato a farmi i complimenti per come sono riuscito a tirare su i miei voti… sai che mio padre si arrabbia un sacco soprattutto per i voti e io… ho dovuto per forza studiare di più.» disse piano Isaac, sottovoce, fissando prima Jackson e poi iniziando a guardare nel vuoto.
«Se non prendo buoni voti, mio padre mi chiude in un freezer in cantina, se li prendo, mi chiudono negli armadietti a scuola… io… cosa… cosa devo fare, Jackson?»
Sollevò lo sguardo verso l’altro e, in quel momento, Jackson poté leggerci tutta la disperazione contenuta dentro di lui. Scosse lievemente il capo, le labbra separate ed un’espressione sconvolta il faccia.
«Io… io non lo so…» riuscì solo a dire, piano.
Isaac deglutì e fece un paio di respiri profondi, annuendo, quindi si alzò in piedi.
«Scusa… non dovrei sfogare i miei problemi su di te…» disse piano Isaac.
«Dovresti prenderti il pomeriggio libero… tornare a giocare dopo una crisi di claustrofobia…»
«No. Non posso tornare a casa. Se torno a casa ora, mio padre mi chiederà perché ho fatto presto e non gli piacerà se gli dico quello che è successo… vado a fare un po’ di riscaldamento.» rispose subito Isaac, indicando, con un cenno del capo, le porte degli spogliatoi.
Jackson le fissò a sua volta, ritrovando, ad attraversarle, i ragazzi che avevano chiuso Isaac nell’armadietto.
Li stavano guardando e non si preoccupavano nemmeno di tenere bassa la voce.
«Ho sentito che suo padre beve tutto il giorno…»
«Non mi stupisco che stia a casa così tanto, probabilmente gliene da così tante da farlo svenire.»
«Non riesce nemmeno a tenere a bada il suo vecchio…!»
Isaac deglutì, fingendo di non aver sentito, ma come poteva non esserci riuscito, quando Jackson ce l’aveva fatta benissimo?
«Isaac…» tentò di nuovo il ragazzo, ma Isaac scosse il capo.
«Va bene così. Grazie per quello che hai fatto.» disse alla fine, stringendogli la spalla con la mano e fissandolo a lungo, prima di prendere la divisa da allenamento e cominciare a cambiarsi.

Dopo quell’episodio, lentamente, tutto iniziò ad andare a rotoli. O, per lo meno, quasi tutto.
Jackson era visibilmente distratto, non come al solito dalla sua ragazza, ma da qualcun altro. Scott McCall.
Per tutto il mese di Febbraio, Jackson fu più distante, distratto, Isaac poteva vedere che non stava bene, ma lui non voleva parlarne. Nonostante tutto, continuò a presentarsi a casa di Isaac ogni volta che il padre decideva che era ora di punirlo. Parlavano sempre molto, quelle notti. Parlarono soprattutto del ballo della scuola e di come Jackson avesse deciso di andarci con Allison, invece che con Lydia, che aveva deciso di lasciare. Si era stupito, quando Isaac aveva detto che lui non ci sarebbe andato. La verità, era che comunque suo padre non gliel’avrebbe permesso, ed inoltre, l’unica persona con la quale avrebbe voluto ballare, sarebbe stata impegnata a farlo con qualcun’altra.
E poi… Poi arrivò Derek Hale. Derek Hale e le sue promesse, le sue parole, finalmente l’occasione che gli serviva per poter essere in grado di tener testa a suo padre.
Non disse nulla a Jackson, ma si fece mordere. Fu orribile, all’inizio, e doloroso, ma con il passare dei giorni andò meglio. Suo padre non lo rinchiuse più nel freezer per diversi giorni, ma arrivò una sera in cui Isaac pensò che probabilmente l’avrebbe fatto di nuovo.
I voti. Ancora i voti. Era solo l’inizio della seconda metà dell’anno scolastico, a suo padre lui l’aveva detto, ma non era servito a nulla: si era arrabbiato.
In qualche modo, era anche riuscito ad evitare di essere trascinato di sotto… peccato che suo padre non fosse ubriaco come al solito, quella volta. Gli lanciò contro la brocca dell’acqua ed un pezzo di quella per poco non lo accecò. Anche se l’avesse fatto, comunque, non sarebbe stato un grosso problema: tra i vantaggi dell’essere diventato un lupo mannaro, c’era anche la pronta e veloce guarigione.
Quando suo padre, sconvolto, gli chiese come aveva fatto a far sparire il graffio sotto l’occhio in meno di dieci secondi, in preda al panico, Isaac scappò.
Quella fu l’ultima discussione con suo padre, fu l’ultima cena con suo padre e fu anche l’ultima volta che lo vide, perché suo padre, quella sera, morì.
Isaac non sapeva se sentirsi sollevato o triste o orribile, per essere contento della sua morte.
Sapeva solo che suo padre non c’era più e non avrebbe mia più dovuto entrare in quel maledetto freezer.
Veloce com’era arrivata la gioia, arrivò anche la tristezza. Senza le punizioni di suo padre, nulla avrebbe più obbligato Jackson ad andare da lui, soprattutto ora che entrambi sembravano aver trovato altre persone con le quali uscire.
Fu solo alcune settimane dopo, che scoprì la verità.
Era, ormai, entrato a far parte del branco di Derek, insieme ad Erica e Boyd. A volte aveva parlato con Erica, ma con Boyd mai: gli faceva paura ed ora gliene faceva anche di più.
In qualche modo, Jackson aveva scoperto a sua volta dei lupi mannari, ma al contrario di Isaac su di lui il morso non aveva funzionato a dovere.
Nel giro di pochi giorni, Isaac si ritrovò a dover affrontare problemi più grossi del non poter più passare notti insonni con Jackson; si ritrovò a dover affrontare il fatto che forse avrebbero anche addirittura dovuto ucciderlo, perché era diventato un Kanima, una creatura mostruosa che si aggirava per la città uccidendo prede designate.
Era stato Jackson ad uccidere suo padre. Non sapeva se fosse stato cosciente, in quel momento, o se fosse consapevole di essere lui l’assassino, perché non ebbe mai la possibilità di chiederglielo.
Veloce come si era sviluppata la loro amicizia, si erano dovuti separare. A malapena Jackson parlava ancora con Danny. Stava sempre da solo, sempre sulle sue, a scuola, e nonostante sapessero che era lui il Kanima, a nessuno era permesso toccarlo in forma umana… e nemmeno in forma animale. Se possibile, volevano salvarlo ed Isaac era d’accordo.
Non voleva uccidere Jackson e non voleva nemmeno che lo facesse qualcun altro.
Aveva ancora troppe cose da dirgli, non era nemmeno riuscito a confidargli il più grande dei suoi segreti, quello che riguardava lui e lui soltanto.
Ma alla fine, ovviamente, le cose non andarono come Isaac aveva sperato.
Si sentì quasi morire -molto più di quanto si fosse sentito con i pugnali di Allison conficcati nella carne- alla vista di Derek e Peter che infilzavano il corpo di Jackson. Vedere Lydia che confermava di amare ancora il ragazzo e vedere Jackson abbracciarla sollevato, dopo essere tornato in vita come Lupo Mannaro, fece quasi ancora più male. A nulla servì lo sguardo che Jackson gli lanciò, mentre ancora se ne stava abbracciato alla ragazza.

«E così, hai deciso di trasferirti…»
«Mio padre ha deciso di farmi trasferire… dice che starò meglio lontano da Beacon Hills per un po’…»
Isaac e Jackson stavano passeggiando per il bosco. Lontano da casa Hale, lontano dalla vecchia casa di Isaac, lontano da tutti. Chiacchieravano nell’unico luogo in cui nessuno avrebbe guardato Jackson in modo strano.
Dopotutto, il ragazzo era stato dichiarato morto sul campo da gioco e, la sera stessa, era tornato in vita sottoforma di Kanima. Poi era morto di nuovo e tornato in vita sottoforma di lupo mannaro.
Dopo aver affrontato tutti gli esami del caso, aiutato dalla mamma di Scott, Jackson aveva potuto lasciare l’ospedale dopo solo un paio di giorni. I suoi genitori avevano subito deciso che si sarebbe trasferito a Londra, da alcuni parenti, per terminare gli studi in attesa che le voci, su di lui, fossero scemate.
«Quando partirai?» domandò ancora Isaac, calciando un sasso grosso quanto un pugno, facendolo rotolare davanti a lui quasi fosse stata semplice ghiaia.
«A metà agosto, circa. Ora che tuo padre è… è…»
«È morto. Puoi dirlo. Era uno stronzo… e devo ringraziarti…» borbottò Isaac, senza guardare l’altro. Jackson non disse nulla e scosse semplicemente il capo.
«Dove starai?» chiese Jackson, alla fine, saltando un mezzo tronco d’albero.
«Dove sono stato fino ad ora: a casa di Derek. Le autorità mi danno il permesso di vivere dove voglio perché ho 16 anni e nessun parente ancora in vita. L’unica scocciatura è che mi obbligano ad andare da una psicologa due volte a settimana.» disse semplicemente Isaac, continuando a camminare e fermandosi solo davanti ad un albero particolarmente possente. L’osservò dal basso e sollevò le mani, posandone i palmi sulla corteccia ruvida.
«Derek si è offerto di aiutarmi…» disse Jackson, raggiungendolo e fissando l’albero a sua volta.
«Credo sia il minimo.» intervenne Isaac, senza guardarlo.
Jackson sorrise tra sé e sé.
«Mi insegnerà a controllarmi, per evitare che io vada in giro ad uccidere persone a caso, a Londra. Sarà difficile, credo… ho un’indole piuttosto iraconda.» commentò, girando attorno al tronco. «Cos’ha questo albero?»
«Non sarà così difficile, se trovi un’Ancora. Trova qualcosa a cui aggrapparti, qualcosa di umano che ti tenga con i piedi per terra quando la Luna cerca, invece, di farti dimenticare chi sei.» rispose Isaac, sbirciando dall’altra parte del tronco, per incontrare lo sguardo di Jackson. «Ricordati delle persone che hai ucciso e di quelle che hanno rischiato la vita per salvare la tua. Riuscirai a mantenere il controllo. E comunque, l’albero sta benissimo.»
Jackson ricambiò il suo sguardo, silenzioso e pensieroso, per poi tornare a fissare la cima dello stesso.
«Facciamo a chi arriva prima?» domandò Isaac, seguendo lo sguardo di Jackson, per poi tornare a fissarlo.
Jackson lo guardò a sua volta, sollevando le sopracciglia quando vide gli occhi di Isaac cambiare colore ed iniziare ad illuminarsi di quella sfumatura ambrata che precedeva una trasformazione o l’utilizzo dei suoi poteri da lupo. Isaac sorrise, anche, accucciandosi un po’ e premendo le dita contro la corteccia dell’albero. Fissandole, notò che le unghie dell’altro stavano crescendo, lunghe e puntute, pronte ad infilarsi nel legno e a permettergli di scalare il tronco.
Jackson ghignò e separò le labbra, lasciandosi andare ad una vaga risata che aveva quasi il sapore di un ringhio. Chiuse gli occhi, concentrandosi, mentre il battito cardiaco aumentava. Quando dischiuse le palpebre, dal lieve sorriso di Isaac capì che i suoi occhi erano diventati di un azzurro luminoso. Si fissò le mani, quella lieve sensazione sulle dita, come se qualcuno gliele stesse tirando, preannunciò l’allungamento delle sue stesse unghie. Ben presto, si ritrovò con gli artigli infossati nel legno del tronco.
Si accucciò a sua volta e, come grazie ad un segnale invisibile, i due iniziarono ad arrampicarsi, utilizzando le loro unghie quando i rami non erano a portata di mano. Man mano che salivano, il tronco si faceva sempre più sottile e Jackson, invece, sempre più impetuoso. La competizione stava facendo uscire il suo lato mannaro, ancora incontrollato.
Raggiunse per primo la cima, sporgendosi per esibirsi in un ruggito di vittoria, quindi abbassò il volto, quando Isaac lo raggiunse. Era ancora dall’altra parte del tronco, circa mezzo metro più in basso rispetto a lui.
Jackson si sporse nella sua direzione, le orecchie a punta, i peli delle basette e delle sopracciglia più folti, le zanne ben sviluppate e taglienti nella sua bocca.
Gli ringhiò contro, ruggendo subito dopo. Quello era il suo posto, lui era arrivato per primo, lui aveva vinto quella competizione e il lupo stava semplicemente gioendo. Isaac, comunque, non si fece spaventare. Non si trasformò interamente, ma le zanne spuntarono da sole. Si spinse in avanti, distendendo le gambe e superando Jackson in altezza, quindi ruggì più forte di lui, aggrottando le sopracciglia, per tenerlo a bada.
Fronteggiarlo in quel modo servì, perché Jackson fece subito marcia indietro, uggiolando mentre la trasformazione si invertiva e il suo viso tornava liscio come sempre. Niente più folte sopracciglia, niente più zanne, niente artigli e nemmeno niente occhi azzurro acceso. Isaac si sporse in fretta ad afferrarlo, stringendolo parzialmente a sé, per evitare di farlo cadere.
«Non so… non so cosa mi sia preso… scusa…» balbettò Jackson, occhi sbarrati ed un’espressione spaventata sul viso.
«Non è successo nulla, hai solo vinto… Siamo lupi, non devi preoccuparti di queste cose. I cuccioli di lupo giocano tra loro facendo la lotta. Imparano a combattere, così… È normale che tu mi abbia ringhiato contro.» disse solo Isaac, abbozzando un mezzo sorriso.
«Ah sì…?» domandò Jackson, afferrando il tronco quando l’altro lo lasciò andare.
Isaac si limitò ad annuire, restando immobile solo per qualche secondo. Un istante dopo si sporse verso Jackson, facendo scattare le zanne e ritraendosi subito dopo, quindi lo fece di nuovo.
Jackson scosse il capo, come intontito, quindi si sporse a sua volta verso Isaac, facendo scattare le zanne che non si era nemmeno accorto gli fossero rispuntate.
Isaac rise, quella risata che sembrava un ringhio, quindi portò le mani verso di lui, stringendosi saldamente al tronco con le ginocchia. Gli colpì la testa con una mano, non troppo forte, e Jackson tentò di afferrarla e morderla.
Non ci riuscì, perché l’altro aveva già iniziato a scendere in fretta lungo il tronco. Lo seguì e, prima di quanto si sarebbe potuto aspettare, erano di nuovo a terra. Isaac stava correndo lontano da lui, quindi Jackson iniziò a rincorrerlo, mettendosi a quattro zampe per raggiungerlo più in fretta. Lo vide fermarsi, accucciarsi ed aspettarlo.
Solo quando fu abbastanza vicino, si accorse che Isaac era del tutto intenzionato a tendergli un agguato.
Gli saltò addosso e lo fece sbilanciare. I due iniziarono a rotolare per qualche metro, finché non si fermarono. Isaac era sopra di lui. Jackson cercò di ribaltare le posizioni, sporgendosi con la bocca verso il suo fianco sinistro, ma l’altro lo schivò e cerco, invece, di mordergli il collo.
Jackson sentì solo la punta delle sue zanne sfiorarlo, prima di riuscire a scrollarselo di dosso con un colpo di reni. Si affrettò a bloccarlo a terra, cercando, quindi, di attaccarlo in viso con le zanne. Isaac spostava la testa e gli impediva di riuscirci, attaccando a sua volta e provando a liberare i polsi, bloccati dalle mani dell’altro.
Si diede ad un ululato di frustrazione, cominciando quindi a dimenarsi per provare a liberarsi; Jackson, sopra di lui, rise in maniera roca e spostò le mani dai suoi polsi. Si lasciò andare, respirando pesantemente, ma con il sorriso sulle labbra, sul petto di Isaac. Non gli sembrava strano, dopotutto si erano abbracciati molto spesso a causa degli attacchi di panico del più piccolo. Inoltre, immersi com’erano nei loro istinti da lupo, quella condizione non sembrava pesargli più di quanto non l’avrebbe fatto il vedere Isaac decidere di fare pipì contro un albero.
Sotto di lui, Isaac rise piano a sua volta. Sempre in preda al gioco, raggiunse con le zanne un orecchio di Jackson, stringendolo piano tra i denti e tirando, quindi gli diede un morso fantasma sul sopracciglio. Si fermò, quando lo sguardo di Jackson, il suo sguardo umano, si posò su di lui in maniera interrogativa. Si ritrasse, quindi, mentre anche lui riprendeva il suo normale aspetto umano. Jackson si sollevò sulle braccia, posando le mani aperte sul terreno. Non disse nulla, ma restò a fissarlo.
«Jackson…» sussurrò solamente Isaac, distogliendo lo sguardo.
L’altro, invece, lo tenne ben fisso su di lui.
Rimasero in silenzio per qualche attimo, immobili, prima che Isaac, sempre senza fissare Jackson negli occhi, si sporgesse un po’ verso di lui. Raggiunse l’angolo della sua bocca, quindi vi depositò un bacio davvero lieve, per lo più sulla pelle della guancia che sulle sue labbra.
«Io… ci tengo davvero a te…» sussurrò nuovamente. Jackson poteva sentire il battito del suo cuore accelerare, ma non perché stava mentendo. Isaac ci teneva sul serio a lui, come aveva detto, e non lo diceva tanto per dire. Jackson, però, non poteva prendersi il lusso di discutere i propri gusti sessuali proprio qualche mese prima di partire, non quando doveva preoccuparsi di imparare a mantenere il controllo. Se si fosse fatto trascinare da Isaac, se si fosse permesso anche solo di prendere in considerazione l’idea che Isaac potesse piacergli, non sarebbe riuscito a tenere la mente concentrata dove più gli interessava.
Jackson scosse il capo, tirandosi su e strofinando i palmi delle mani l’uno contro l’altro.
«Questo è ridicolo, Lahey. Ci conosciamo troppo poco, tra qualche mese me ne sarò andato a Londra e tra qualche anno ci ricorderemo a malapena i nostri nomi.» disse piano Jackson, senza guardarlo in viso, perché sapeva che stava mentendo.
«No, non è vero… facciamo parte dello stesso branco. Siamo… compagni.» sussurrò Isaac, alzandosi in piedi a sua volta e stringendosi nelle spalle, come faceva quando ancora la sua vita, per l’altro, era un mistero.
«Io non faccio parte del “branco” di Derek, okay? Io non voglio che qualcuno mi dica cosa fare e non mi interessa essere uno dei suoi “cuccioli”. Io sono Jackson Whittemore, sono un lupo mannaro e sto da solo!» esclamò quindi Jackson, guardando l’altro e restando a fissare la sua espressione ferita per qualche istante. «E non posso permettere ad uno dei suoi cuccioli di dirmi che sono il suo compagno, perché anche se io volessi fare parte di questo branco, non potrei farlo. Mio padre mi farà trasferire a fine anno, non posso permettermi di legarmi a nessuno. Nemmeno a Lydia. Nemmeno a te.»
Isaac continuò a fissarlo con quell’espressione triste, quindi annuì. 
«Giusto. Hai ragione… ti chiedo scusa, avrei dovuto immaginarlo…» disse piano, cominciando a camminare in direzione della casa degli Hale.
«Dove stai andando?» chiese Jackson, senza pensarci troppo.
«Derek non vuole che sto in giro tutto il giorno. Ho ancora degli allenamenti da fare e devo studiare per il test di Economia, o il Coach mi terrà in panchina tutta la stagione.» disse in fretta l’altro, continuando a camminare.
Jackson ne ascoltò il battito cardiaco: era affrettato, ma non come prima. Isaac stava mentendo. Si affrettò a raggiungerlo, afferrandolo per un braccio nel tentativo di costringerlo a voltarsi.
«Isaac…»
L’altro si voltò di scatto, ma non era più l’umano e deluso Isaac. Al posto dei denti erano ricomparse le zanne e gli occhi brillavano d’ambra. Ruggì nella sua direzione, facendolo arretrare in fretta.
«Lasciami andare e basta, Whittemore! Non sei l’unico che non è abituato a ricevere un rifiuto, qui, sai? La differenza è che alla fine tu ottieni sempre quello che vuoi. Io, invece, non ho mai chiesto niente a nessuno e l’unica volta che l’ho fatto… un rifiuto è quello che ottengo. E mi sta bene. Ma lasciami andare.» disse Isaac, la voce alterata dalle fastidiose zanne che gli graffiavano le labbra.
Jackson annuì, quindi osservò Isaac voltarsi e tornare a camminare verso la casa degli Hale. Il fatto che non stesse correndo, forse, voleva dire che preferiva arrivare da Derek completamente calmo, così che lui non potesse chiedergli che cosa fosse successo.
«Isaac… siamo ancora amici, vero?» chiese Jackson, senza riuscire a trattenersi, a voce alta.
L’altro si fermò, quindi, senza voltarsi, fece solo un breve cenno di assenso con la testa.
«Non potrei mai smettere di essere tuo amico…» sussurrò Isaac, ma le sue parole Jackson le udii perfettamente, quasi le avesse pronunciate proprio al suo orecchio. 

Per il resto dell’estate, Derek aiutò Jackson a controllare la sua rabbia. Talvolta, anche Scott, Isaac e Stiles si univano agli allenamenti. Cioè, Scott ed Isaac si allenavano con Derek e Jackson, Stiles restava in un angolo a strillare ogni volta che qualcuno di loro faceva troppo rumore e lo distraeva dai compiti delle vacanze.
Le Lune Piene le passarono insieme. La prima fu abbastanza brutta; sia Derek che Scott che Isaac avevano un’Ancora alla quale aggrapparsi, per non perdere il controllo. Jackson no.
Avevano impedito a Stiles di far loro compagnia e lui sapeva che sarebbe stato pericoloso, quindi non aveva opposto resistenza. Derek ed Isaac avevano legato l’altro, con delle catene, ad uno dei sedili del bus nel seminterrato degli Hale. Peter aveva gironzolato per un po’ intorno a Scott, osservandolo, finché Derek non gli aveva urlato di smetterla di essere così inquietante.
Quando la Luna era sorta del tutto e si era alzata in cielo, Jackson aveva iniziato a dare di matto. Ringhiava, ruggiva, sembrava aver perso completamente il controllo. Non era uno spettacolo che non avevano mai visto e, allo stesso tempo, Jackson non era così pericoloso quanto lo era stato Boyd alla sua prima Luna Piena. Derek da solo era in grado di tenerlo fermo contro il sedile, mentre gli urlava contro di cercare dentro di sé un punto di controllo, qualcosa al quale aggrapparsi per mantenere la calma.
Per tutta risposta, Jackson gli aveva assestato un potente calcio nell’addome, tanto da spingerlo contro la parete opposta dell’autobus. Scott si era gettato subito contro i piedi di Jackson armato di pesanti catene. Aveva iniziato a sistemargli le gambe, bloccandole con quelle che lui già aveva rotto e con quelle nuove. Isaac si era intromesso, portando le mani ai lati del volto di Jackson e forzandolo a tenere la testa ferma. Sia lui che Scott non erano in grado di trattenersi abbastanza da impedire ai loro corpi di assumere le sembianze del lupo, come invece riuscivano a fare Derek e Peter, ma erano abbastanza loro stessi da avere un perfetto controllo.
Aveva costretto gli occhi azzurri di Jackson a fissare i suoi ambrati.
«Jackson!!» aveva gridato, sovrastando il suo ultimo ruggito. «Jackson, ricordati di quello di cui abbiamo parlato! Aggrappati a quel ricordo, Jackson, so che puoi farcela!»
C’era voluto qualche altro secondo di persuasione, prima che Jackson cominciasse a tranquillizzarsi. I suoi occhi non abbandonarono mai quelli di Isaac, non finché non fu abbastanza calmo da smettere di cercare di colpire chiunque.
Isaac non disse mai a nessuno a che cosa si era riferito quella sera.
La seconda Luna Piena fu più facile e a Jackson fu permesso anche di uscire all’aperto. Corsero per i boschi, sfogando l’energia della luna correndo o lottando tra loro.
Agosto, però, arrivò in fretta. Andarono tutti a salutarlo all’aeroporto, anche se Jackson aveva fatto intendere che non voleva vedere nessuno. Scott era perfino riuscito a convincere Derek a venire con loro.
Ci fu imbarazzo e ci furono lacrime. Da parte di Jackson, ci fu anche la promessa di venirli a trovare presto, promessa che tutti sapevano, però, non sarebbe stata mantenuta perché il padre era intenzionato a non farlo tornare in America fino alla fine delle Superiori.
Isaac e Jackson si scambiarono un veloce abbraccio, sotto gli sguardi sorpresi degli altri, poi il ragazzo fu rapito da Lydia ed Isaac si allontanò, fingendo di essere interessato al pannello dell’annuncio dei voli in partenza. Non voleva vederli, perché sapeva che Jackson non aveva detto a nessuno di quello che lui gli aveva confidato.
Sapeva che aveva continuato a vedersi con Lydia più per abitudine (e per quello che lei gli aveva detto quando era tornato umano) che per vero e puro piacere personale.
Non si voltò nemmeno quando Jackson li salutò un’ultima volta, prima di passare sotto al meta detector. Continuò a restare voltato verso il pannello, di fianco a Derek. Nemmeno lui prestava più attenzione a quello che era stato il suo primo beta.
Isaac non aveva raccontato mai a nessuno quello che Jackson aveva fatto per lui, né quello che lui provava per l’altro. Era sicuro, però, che Derek l’avesse capito. Il tocco della sua mano ben aperta tra le sue scapole, fu l’unica cosa che gli permise di prendere un profondo respiro e mantenere un’espressione di neutrale malinconia, finchè non fu libero di lasciarsi andare completamente nella sua camera a Casa Hale.

Jackson mantenne la sua promessa. Il padre gli concesse di tornare a casa comprandogli un biglietto di sola andata, perché il figlio si era detto determinato a non tornare a Londra finché “quella storia” non sarebbe finita.
Non aveva più varcato la soglia dell’Ospedale di Beacon Hills da quando vi era uscito, circa sei o sette mesi prima. Quel reparto, in particolare, non l’aveva mai visitato. Avanzò lentamente, inspirando in maniera profonda.
L’odore dei medicinali e dei disinfettanti ricopriva quasi tutto, ma quello di Isaac era lì, lo poteva sentire chiaramente, assieme a quello di Allison. E a quello di carne viva.
Seguì il suo naso, che lo portò ad una doppia porta. Una delle due era aperta, così lui l’attraversò e la richiuse distrattamente dietro di sé.
Subito, la sua attenzione si focalizzò sulla figura sdraiata sul lettino al centro della stanza.
Isaac era ancora privo di conoscenza, la parte destra del suo corpo vagamente sfigurata da bruciature e cicatrici. Derek gli aveva detto che quando si parlava di elettricità e fuoco, perfino loro erano vulnerabili. Un lupo è contro quelle cose e la sua capacità di guarigione era pressoché inutile.
«Jackson?» 
La voce stupefatta di Allison lo costrinse a spostare gli occhi dalla figura del ragazzo ed a sollevarli verso quella della ragazza che gli stava correndo incontro. Lei lo abbracciò stretto, poi si allontanò.
«Non sapevo fossi tornato. Pensavamo di non rivederti almeno fino a Natale!» esclamò Allison, portandosi indietro i capelli con aria stanca e tornando al fianco del letto.
«Ho convinto mio padre, non appena ho saputo…» disse solamente il ragazzo, indicando con un cenno del capo il corpo di Isaac.
Allison lo imitò, quindi tornò a guardarlo.
«È stato gentile, da parte tua, tornare. So che gli farà piacere vederti, quando… si sveglierà… Mrs McCall ha detto alle infermiere del piano di lasciarci venire a fargli visita. Non ci sarebbe stato nessuno, altrimenti, lo sai… Noi siamo la sua famiglia, giusto?» sussurrò la ragazza.
Jackson si leccò le labbra, inspirando di nuovo, profondamente, ed annuendo.
«Perché non vai a prenderti un caffè, Allison? O a riposarti… Ci sto io con Isaac, non ti preoccupare.» disse il ragazzo, posando una mano sulla spalla di Allison.
Lei annuì, quindi si lecco le labbra, distrattamente.
«Vado a prendere un caffè, sì… magari chiedo a Mrs McCall se posso sdraiarmi solo un attimo da qualche parte…» disse la ragazza, sorridendo nuovamente con aria stanca. «Grazie ancora per essere venuto, Jackson… stasera ci troviamo da Derek tutti quanti, se vuoi… Stiles è scomparso un’altra volta e abbiamo paura che farà anche di peggio…»
Allison indicò con un cenno del capo Isaac, quindi prese un profondo respiro, allontanandosi verso la porta e camminando all’indietro.
«Ho sempre saputo che Stilinski ci avrebbe fatti ammazzare, prima o poi.» scherzò Jackson, abbozzando un falso sorriso.
Restò a fissare Allison che usciva e richiudeva, meccanicamente, la porta dietro di sé, quindi si voltò in fretta e si diresse al fianco di Isaac.
Lo restò a guardare, fissando le sue cicatrici e quelle parti del corpo che ancora non erano guarite. Melissa teneva costantemente monitorate le sue condizioni, impedendo a chiunque di occuparsi della somministrazione dei medicinali. Era l’unica a vedere che il ragazzo guariva più in fretta, ma non abbastanza. E, chiaramente, continuava a dormire.
Titubante, Jackson si sedette, fissandolo.
«Isaac… mi senti?» domandò, a bassa voce.
Non si scompose, quando il ragazzo non si mosse di un millimetro. Se l’era immaginato, ma ci aveva sperato, per un secondo.
«Sono Jackson. Sono tornato, come avevo promesso.»
Di nuovo silenzio.
Jackson si sistemò meglio sulla sedia, leccandosi le labbra nervosamente.
«Lydia… Lydia mi ha detto che c’è qualcosa tra te ed Allison, adesso. Non so cosa sia, ma sono contento che tu abbia trovato qualcuno che non ti ha detto di no… come invece ho fatto io. Mi dispiace, sai, se ti ho fatto stare male.» cominciò a parlare, il ragazzo, fissando distrattamente il lenzuolo che copriva il corpo dell’altro. «È l’ultima cosa che avrei voluto fare, ma non avevo scelta. Ero serio, quando dicevo che non potevo permettermi di prendere in considerazione l’idea che tu potessi iniziare a piacermi… perché più o meno mi piacevi. Come amico. Credo… Cioè, io non lo so. Mi sei mancato molto, Isaac…»
Jackson fece un profondo respiro, chiudendo gli occhi e posando il mento sulle dita delle mani, incrociate. I gomiti poggiavano sulle ginocchia, lievemente distanti tra loro.
«Ho avuto modo di riflettere, in questi… tre mesi? Mi mancano le nostre chiacchierate. Era un modo come un altro per sfuggire alla routine quotidiana… Lo sai che, con te, ho smesso da tempo di essere quel Jackson che tutti gli altri conoscono… Guardami adesso, ti sto parlando e tu non sei nemmeno sveglio, per ascoltarmi… però ti parlo lo stesso. Sono un idiota…»
Si lasciò andare ad uno sbuffo vagamente divertito.
«È stato Derek a dirmi che eri stato ricoverato. Mi ha chiamato, dopo settimane che nessuno di voi si faceva sentire, nemmeno Lydia. Mi ha detto che Stiles era nei casini e che tu ti eri fatto male. Gli ho detto “che importa? Fatelo stare un giorno a letto e tornerà come nuovo”, ma lui mi ha risposto che a letto già c’eri e che non ti saresti alzato per un po’. Non ha saputo dirmi quanto… Isaac, ho bisogno di parlare di nuovo con te.»
Jackson aprì gli occhi nuovamente, deglutendo e sentendo il sapore salato delle lacrime in bocca, lacrime che non avrebbe mai permesso a sé stesso di lasciar scorrere sulle sue guance. Avrebbe, come sempre, ingoiato il suo dolore e i suoi problemi, perché lui era Jackson Whittemore e non poteva mostrarsi per il fragile ragazzo che in realtà era.
«Se aprirai gli occhi, magari… magari potremmo parlare di nuovo. Potremmo parlare di quest’estate… non dico che dovresti dimenticarti di Allison, ma magari, ecco… magari potrei prendere in considerazione l’idea di tenere anche io davvero a te… Non so che cosa… È che non mi capisco, okay? Non so che cosa mi è successo quando Derek mi ha detto come stavi, io mi sono… paralizzato. Ho avuto paura. Mi importa di te, più di quanto pensassi. Più di quanto vorrei, perché se è così, allora è sbagliato che io sia costretto a stare dall’altra parte del mondo.» disse di nuovo, con voce tremante di rabbia, che non poteva sfogare contro nessuno. «Però, anche se non posso restare a Beacon Hills, voglio che tu lo capisca. Sai che non te lo dirò. Non te lo dirò in faccia, quando sarai sveglio, ma so che lo capirai. Quindi svegliati, Isaac, per favore. Voglio che tu lo capisca…» 
Jackson allungò una mano, afferrando quella del ragazzo sdraiato sul lettino.
Di nuovo, come si era aspettato, Isaac non mosse un muscolo. Jackson chiuse gli occhi, concentrandosi. Quando li riaprì, quelli rilucevano d’azzurro. Li puntò sul viso di Isaac, fissandolo con attenzione. Aggrottò anche le sopracciglia, ritrovandosi a strofinare delicatamente il pollice contro la mano ricoperta di unguento del ragazzo.
Pian piano, lentamente, i vasi sanguigni presenti sulle dita, sul dorso e sul palmo di Jackson cominciarono a tingersi di nero. Il dolore, che il lupo stava assorbendo dall’altro -perchè questo era tutto quello che poteva fare-, gli stava entrando in circolo, diramandosi in un disegno meraviglioso ed allo stesso tempo spaventoso; saliva lungo il polso e poi ancora su per il braccio, scomparendo sotto alla manica della felpa.
Dopo alcuni istanti, passati a cercare di lenire la sua pena, Jackson lo lasciò andare e chiuse gli occhi di nuovo, lasciandoli tornare al loro pacato azzurro cielo. Si alzò, avvicinandosi di più al lettino; allungò la stessa mano e la posò su quella sana di Isaac, ascoltando il suo cuore.
Batteva debolmente, al contrario di quello di Jackson, che era frenetico. Con il fiato sospeso, restò in attesa.
Nonostante non avesse aspettato altro per tutto il pomeriggio, scattò all’indietro e tornò subito in avanti, quando vide, effettivamente, che le sopracciglia di Isaac si erano aggrottate. La sua espressione, rilassata e pacata, stava cambiando in favore di una un po’ più sofferente.
Jackson deglutì, stringendo piano la mano dell’altro.
«Isaac…» sussurrò, con voce tremante, mentre il ragazzo muoveva debolmente le dita strette sotto a quelle di Jackson. Fu un movimento quasi impercettibile, ma per lui fu come se l’altro l’avesse abbracciato di getto.
Chiamò a gran voce l’infermiera, senza nemmeno prendere in considerazione l’idea di andare a cercare qualcuno.
Non si sarebbe spostato, non avrebbe lasciato la mano dell’altro. Isaac ci si era aggrappato e viceversa.
Non avrebbe mollato la presa, l’avrebbe trascinato di nuovo fuori da quel buco buio e sarebbe stato lì, pronto a sorreggerlo, come aveva sempre fatto.

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Ciao a tutti!
Ho scritto questa cosa dolorosissima perchè evidentemente soffro di masochismo. Non l'ho nemmeno fatta betare, perchè era semplicemente una cosa che volevo scrivere... so che è sicuramente piena di incongruenze, errori o altro, ma avevo semplicemente bisogno di scriverla.
Scusate, non mi uccidete!

Lasciatemi il vostro parere, se volete, e se invece preferite insultarmi per le mie ff precedenti o fare due chiacchiere, vi lascio il link della mia Pagina d'Autore su fb (Cliccate pure qui)!
Se volete contattarmi potete farlo anche su Twitter (The Shippinator), su Tumblr (TheShippinator (Ship All The Characters!)) e su Ask (Andy TheShippinator)

Un bacio, Andy <3

  
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