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Autore: Fannie Fiffi    03/03/2014    1 recensioni
John Watson si alza tutti i giorni e la prima cosa che fa è controllare la camera di Sherlock Holmes – ecco, finalmente l’ha pensato – per vedere se lui è tornato.
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Note: siete tutti avvisati, questa OS è terribilmente angst e sdolcinata, perciò fate pure a vostro rischio e pericolo :D




Who Knew
 
 
You took my hand 
You showed me how 
You promised me you'd be around 


If someone said three years from now 
You'd be long gone 
I'd stand up and punch them up 
Cause they're all wrong 
I know better 
Cause you said forever

Remember when we were such fools 
And so convinced and just too cool 
I wish I could touch you again 
I wish I could still call you friend 
I'd give anything 

I’'ll keep you locked in my head 
Until we meet again 
And I won't forget you my friend 
What happened?


And time makes 
It harder 
I wish I could remember 
But I keep 
Your memory 
You visit me in my sleep 
My darling 

Pink, Who Knew.


 
 
 
 John corre con tutto il fiato che ha in corpo. I muscoli bruciano, tirano, fanno così male da sembrare pronti a staccarsi dalle articolazioni da un momento all’altro. Eppure John continua a correre.
Corre sempre di più, si lancia all’inseguimento di quel dannato Belstaff grigio scuro e di quei ricci che sembrano volare via per il vento di Londra.
Le sue mani si protendono in avanti, cercano di raggiungere in qualche modo quel punto che si fa sempre più lontano, sempre più inarrivabile.
L’ex soldato si accorge di star perdendo terreno, perciò lancia un urlo, si dà la carica per compiere un ultimo scatto e finalmente riesce ad avvicinarsi. La figura che continua a scappare da lui non si volta mai indietro, John non riesce più a vedere il suo viso, eppure sa benissimo di chi si tratta. E sa molto bene che se non riuscirà a fermarlo ora, poi lo perderà per sempre. Non ci sarà più una seconda possibilità. Non c’è mai.
I suoi polpastrelli vengono finalmente a contatto con la stoffa familiare di quel lungo cappotto mentre nessuno dei due smette di correre e John sta per lanciare un sospiro di sollievo, ma cade.
Si aspetta di sentire da un momento all’altro l’urto dell’asfalto contro il proprio corpo, tuttavia non c’è alcuna superficie ad attutire la sua caduta. Non c’è niente sotto di lui, semplicemente il vuoto.
E John precipita.


Il rintocco metallico della sveglia sembra coordinato ai battiti del suo cuore. John apre di scatto gli occhi e si ritrova a fissare il soffitto bianco della sua camera da letto; sbatte le ciglia una, due, tre volte prima di riuscire a muovere le gambe. Si ritrova costretto in un impasto di lenzuola e sudore, perciò passano alcuni secondi mentre cerca di districarsi e mettersi seduto sul materasso. Il petto continua ad alzarsi e abbassarsi freneticamente a intervalli irregolari, mentre gli ultimi effetti dell’incubo che lo perseguita da un anno scivolano via insieme ai respiri affannosi.
La prima volta che ha sognato quella scena è stata tredici giorni dopo aver saputo della Caduta. Da quel giorno, non è passata notte in cui non sia riuscito a scampare a quel tormento. Il chirurgo militare pensava che dopo un po’ sarebbe semplicemente andato via, o perlomeno che sarebbe riuscito ad abituarsi.
Questo è mai successo.

Sono passati poco più di trecentosessantacinque giorni da quando vive da solo al 221B di Baker Street.
 Inizialmente era dura, non riusciva a guardarsi intorno senza sentire un vuoto tedioso ghiacciargli le vene. Ogni centimetro di ogni stanza gli ricordava il fatto che non ci sarebbe più stato il suo migliore amico a creare disordine, che i muri sarebbero rimasti illesi e che non c’erano più proiettili da scaricargli contro.
Perfino vedere il frigorifero pulito lo infastidiva, come se fosse qualcosa di innaturale. Come se fosse molto più logico che contenesse parti umane invece che latte, uova, verdura.
Aveva perfino pensato di andarsene da quell’appartamento, John Watson. Ma come poteva? Come poteva voltargli le spalle? Come poteva abbandonare il luogo in cui era stato più felice che in qualsiasi altro posto in tutta la sua vita?

John riesce a respirare più tranquillamente, ora.
Il groppo è sempre lì, non se ne va, non se ne andrà mai, ma lui riesce a conviverci. Va avanti con la sola speranza che questa possa essere una prova, un qualche tipo di test a cui quel burlone del suo migliore amico lo sta sottoponendo. John Watson si alza tutti i giorni e la prima cosa che fa è controllare la camera di Sherlock Holmes – ecco, finalmente l’ha pensato – per vedere se lui è tornato. Lo fa da un anno, lo continuerà a fare finché respirerà. Finché ci sarà un minimo di lui su quella Terra infame, lui aspetterà.


Dopo aver bevuto una tazza di caffè rigorosamente amaro, il dottor Watson si siede sulla sua poltrona e tiene per qualche minuto il computer portatile sulle ginocchia. La luce che entra dalle tende ingiallite non sembra infastidirlo, anzi crea un’atmosfera di luminosità che trova quasi pacifica.
John non può fare a meno di pensare a che tonalità di colore assumerebbero gli occhi di Sherlock se incontrassero questo particolare riverbero. Immagina che non lo saprà mai.

L’ex soldato fa un sospiro e attende che la schermata iniziale del suo blog si carichi. Da quando è successo quel che è successo, ha chiuso il suo sito giornaliero al pubblico, perché in qualche modo si sente geloso del ricordo dell’unico consulente investigativo al mondo. Vuole tenerlo solo per sé, sente che il resto delle persone non possa meritarsi nemmeno quello.
Sherlock non ha bisogno dell’ipocrita pietà post mortem di tutti quegli idioti.
Quando vede la pagina bianca di fronte a sé, John posa delicatamente i polpastrelli sulla tastiera, l’accarezza per un attimo e poi comincia a scrivere. È l’unico modo.


“ Caro SH,
oggi è una splendida giornata. Il sole a contatto con le tende di casa nostra crea dei curiosi giochi di luce e in alcuni attimi mi fermo a guardarli affascinato, mentre le poche nuvole del cielo londinese scorrono pigre. Tu lo odieresti. Mi diresti che non devo usare la mia ordinaria mente per pensare a questi stupidi fattori poetici. Forse hai ragione. ”

John si ferma un attimo, stacca le dita dai tasti del portatile. Pensi davvero che a lui importi qualcosa del tempo?

“ Sono sicuro che non t’importa niente del tempo, vero? È che sono un po’ nervoso, in realtà. Di cosa? Di annoiarti. Sono certo che tu sia molto annoiato e non è proprio mia intenzione annoiarti ancora di più. Quindi, mh, vediamo.
Il fatto è che mi manchi. Mi manchi come se... Non lo so, insomma, mi manchi e basta. Non so quantificarlo, semplicemente perché non ho mai avuto così bisogno di qualcosa in vita mia. Immagino che se fossi qui, in questo esatto momento, mi prenderesti in giro per il mio assurdo desiderio di romanzare qualsiasi cosa.
Non so perché io continui a scrivere su questo blog, soprattutto perché nessuno può vederlo. Cioè, lo so il perché.
L’unico modo per sentirti vicino è ricordare il peggior avvenimento della mia esistenza. Ma devo sopportarlo, perché lasciarti andare farebbe più male di qualsiasi altra cosa. Perché tutti gli orrori che ho visto in guerra non eguagliano l’attimo in cui ti ho visto cadere.
Eri un angelo, Sherlock.
Ne sono sempre stato convinto, anche se tu dicevi di no. Eri un angelo che ha salvato me e la mia vita in ogni modo possibile e questo era già più di quanto potessi immaginare di pretendere.
Hai realizzato così tante cose, hai lasciato un ricordo di te che rimarrà vivo e terrà al caldo ogni persona il cui percorso si sia mai intrecciato con il tuo, ma a me non basta. Perdonami per quest’atto di arroganza, sai che non è da me, ma io non ci sto.
Non voglio il tuo ricordo. Io voglio il tuo ritorno. Voglio vederti entrare da quella porta come se niente fosse, non è nemmeno necessario che tu dica una parola, solo... torna. Torna qui. Fallo per la signora Hudson, per Molly, per Lestrade. Fallo per me.
Niente ha più senso senza di te. Non so da dove riesca a tirare fuori tutto il coraggio di scriverti queste cose, eppure lo sto facendo. Immagino che questo mio bisogno sia più forte di qualsiasi altro pudore, eh?
Non so nemmeno più il motivo per cui continuo ad alzarmi dal letto ogni mattina. Da quando non ci sei più è come se fossi ritornato alla mia vecchia vita. Mi sveglio, trascorro la giornata nell’indifferenza e torno a fare gli incubi. I colori hanno perso la loro vivacità e gli stimoli esterni non fanno che darmi la nausea. È come se tutto fosse spento e la mia vita fosse un eterno blackout.
Non ho toccato nessuna delle tue cose. Sono ancora lì, esattamente come tu le hai lasciate. So quanto ti darebbe fastidio se io provassi a mettere un po’ d’ordine, perciò ho semplicemente lasciato stare. In fondo le vorrai ancora lì, no? Per quando tornerai, intendo.
È come se non te ne fossi mai andato, qui dentro. Tutti i tuoi vestiti sono ancora nell’armadio. Le tue vestaglie sono intatte, non le ho nemmeno portate a lavare. I tuoi libri, i resti dei tuoi esperimenti, perfino il tuo adorato teschio sono rimasti nello stesso posto. All’inizio ho avuto l’istinto di bruciare tutto, ci credi? Non sopportavo l’idea che quelle erano le uniche cose che mi fossero rimaste di te. Ora invece non riesco nemmeno a concepire la prospettiva di sbarazzarmene.
A volte mi sembra di sentire la tua voce, sai? Sto leggendo, oppure sto analizzando qualche cartella per il lavoro, e mi sembra di ascoltarti parlare. Poi mi giro e tu non ci sei. È come se ormai ci fossi solamente io che continuo a girarmi all’infinito verso di te e tu che invece non ci sei. E fidati, questo mi fa incazzare da matti. Mi fa impazzire.
Perché hai dovuto farmi questo, Sherlock? Perché mi hai lasciato? Ti amavo nonostante tutto e avrei continuato a farlo anche se tu non fossi stato il grande Sherlock Holmes, anche se fossi stato una semplice persona banale. Ecco, finalmente l’ho detto. Ci sono riuscito. L’ho buttato fuori più velocemente di quanto mi ritenessi capace e ora mi sento un po’ meglio. Torna, e forse avrò la possibilità di fartelo sentire.
Ti amo, ti amo, ti amo. Lo ripeterei per tutte le volte che ti ho guardato negli occhi e non ho potuto dirlo. Sono proprio uno stupido, eh? Ma cosa posso farci, l’ho capito quando mi sono accorto che senza di te nulla ha significato.
Negli ultimi dodici mesi ho riflettuto spesso sulla prima volta in cui ti ho visto. Ricordo di aver sentito i tuoi occhi insinuarsi in una parte di me che non credevo nemmeno esistesse. Non ho mai provato niente di così forte e universalmente naturale per nessun’ altra persona, uomo o donna che fosse.
Vedi, penso che quello che provo per te sia qualcosa che va oltre qualsiasi etichetta, stereotipo, classificazione. Sono gay? Sono etero? Leggo romanzi d’amore? A chi importa. Quello che so, Sherlock, è che c’è in me un’urgenza di averti vicino che mi impedisce di vivere senza di te. Dio, sono così sdolcinato. Scommetto che se ora mi vedessi faresti una di quelle tue smorfie infastidite, come quando cerco di farti guardare la televisione.
Il punto è che non posso farcela. Non posso andare avanti senza di te e quindi ti prego, ti prego, ti supplico, torna. Sei tu e sei sempre stato tu tutto ciò di cui ho bisogno.
Eri un angelo, Sherlock, quindi c’è solo un’altra cosa... solo un’altra cosa... un altro miracolo. Non. Essere. Morto. Smettila e basta, metti fine a tutto questo.
Torna da me.
JW. ”

John Watson smette finalmente di scrivere. Sa di non aver espresso abbastanza, sa che ci sono ancora così tante cose da dire il cui solo pensiero gli grava sulle spalle come un macigno, eppure si sente sollevato.
John Watson prende un respiro profondo e si asciuga le lacrime che gli hanno imperlato il viso, poi sorride. Un po’ lo fa perché si sente totalmente ridicolo, un po’ perché sa che, in qualche modo, quelle parole hanno raggiunto il loro destinatario.


 
  
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