Una giornata
tranquilla, questo era stato il pensiero di Molly dopo che la mattinata era
trascorsa tra le procedure di routine e le scartoffie in arretrato, senza che
nulla di anomalo accadesse; poi il primo pomeriggio si era trascinato
nell’identica, monotona corsa al rallentatore.
Una di
quelle giornate in cui tutto era sotto controllo. Banali, banali, banali.
Noiosa,
avrebbe commentato Sherlock nel suo miglior tono uggioso.
Non che
Molly avesse da obiettare. Spesso le idee sue e di Sherlock riguardo un
argomento di qualsiasi natura erano divergenti, ma in quell’occasione si
sarebbero trovati assolutamente in accordo.
Quando il
telefono a muro dell’obitorio – usato solo per chiamate d’emergenza interne –
squillò, Molly sperò senza vergogna nel miracolo di un’urgenza.
Lo era, ma
non del tipo preventivato.
Era una
delle infermiera addette all’accettazione, Rita, che le annunciò che una certa
Mrs. Hudson aveva chiamato per riferire un messaggio da parte di un tale infernale ragazzo. Il tale infernale ragazzo, al secolo Mr Holmes, pregava
che si comunicasse alla Dottoressa Hooper (non testuali parole, Molly era
pronta a metterci la mano sul fuoco) di raggiungerlo a Baker Street, appena
possibile e senza impellenza.
La legge di Archie
Molly andò a
Baker Street senza precipitarsi, con tutta la calma che fu pronta a concedersi.
Finì il suo
turno – il giovedì la sua schedula prevedeva mezza giornata, ma questo lui lo
sapeva, così come sapeva che non sarebbe andata se fosse stato altrimenti.
Da quando
era tornato, riappropriandosi del ruolo unico e insostituibile che aveva
lasciato vacante nelle vite di tutti loro per due anni, Molly aveva posto dei
paletti nel suo rapporto con Sherlock.
Strano, ma
vero, quando glieli aveva elencati, lui – smorfie a parte, ovvio – si era
espresso favorevolmente. Perché era una delle sue principali qualità e le
andava tributata come tale. Il senso del dovere, prima di tutto.
Per questo,
quindi, Molly se la prese con comodo. Per questo e perché, anche se monotona, vista
al di fuori rimaneva una meravigliosa giornata di fine settembre, una di quelle
fruscianti in cui pareva di sentire allungarsi ovunque l’odore di sidro di mele
e caldarroste: aria pura, appena una punta di freddo dietro le orecchie, come
spifferi di corrente; un cielo nitido, senza nubi a intralciare la linea
dell’orizzonte azzurro polvere.
Quando fu
sulla soglia dell’appartamento – cinque anni e nulla era mutato lì dentro; una
costante, come il suo proprietario - fu costretta a fare i conti con il cambiamento
nella figura insospettabile di un bambino. Non doveva avere più di dieci anni, undici
al massimo ed era sprofondato con tutto lagio della sua età nella poltrona di
John.
Molly
cominciò a guardarsi intorno. “Ciao”, disse, esitante. Si fece avanti, muovendosi
come se stesse attraversando le sabbie mobili. Quando se ne accorse, si diede
della sciocca. “Sei da solo?”
Il bambino
fece segno di no, fissandola con curiosità. “Sono con un amico. È andato a
prendere una cosa che aveva dimenticato e mi ha detto di aspettarlo qui nel
frattempo.”
“Come ti
chiami?”
Il bambino
si grattò la guancia, imperturbabile. “Archie.”
Aveva
qualcosa di familiare. Il modo in cui la guardava, dritto negli occhi, senza
filtri, un interesse che sprofondava nella blanda indifferenza, la intenerì. Non perché le ricordasse uno Sherlock
giovane e crucciato, già senza peli sulla lingua, ma meno accigliato nei
confronti del mondo che lo circondava, la realtà nella sua interezza.
Si piegò sulle
ginocchia per portarsi all’altezza del suo viso. “È un vero piacere conoscerti,
Archie. Io sono Molly. Non ci siamo già incontrati da qualche parte?”
Lui la
studiò criticamente, strizzò gli occhi scuri, come per metterla a fuoco. “Al
matrimonio dei Watson”, annuì, alla fine. “Indossavi un vestito verde e un
cappello buffo?”
“Giallo. Era
giallo e per quanto il termine buffo risulti appropriato, il suo copricapo era
un fiocco dalle proporzioni più che discutibili.”
Sherlock era
comparso, molto probabilmente arrivava dalla camera da letto. Aveva un camice
da laboratorio sotto braccio e un paio di occhiali protettivi. Li porse al
bambino – Archie e le fece un breve cenno di saluto a cui Molly rispose con
uno identico, le sopracciglia inarcate. Sherlock?
Era lui l’amico a cui si riferiva?
Archie li
prese senza una parola di ringraziamento. Cominciò a piegare il camice e si
mise gli occhiali al collo, come una strana collana ornamentale. “È la tua
ragazza?” chiese a Sherlock, intanto che compiva questa serie di azioni con precisione
meticolosa.
Sherlock batté
le palpebre. La prospettiva sembrò confonderlo. O forse era il fatto che
qualcuno, fosse anche un bambino, potesse essere sfiorato da quell’idea a
sconvolgerlo?
“È Molly”,
rispose con semplicità e una genuina nota di meraviglia.
E Molly allontanò
lo sguardo e arricciò le labbra per nascondere il sorriso che quelle due
semplici parole avevano fatto nascere.
“Che è un
modo per dire che non lo è”, ribatté Archie, storcendo il naso con aria
scontenta. Si voltò verso di lei. “Ora ricordo. Sei la fidanzata di Pugnale di
carne.”
“Come?”
Pugnale di carne? Cosa? Oh- oh.
“Lo hai
lasciato?” proseguì Archie. “Se frequentassi qualcuno così stupido e me ne
accorgessi, rimedierei subito.”
“Tom non è
stupido”, lo difese Molly con convinzione. Si domandò quale fosse il modo più
giusto per spiegare a un bambino di dieci anni le folli logiche che spingevano
un adulto a rendersi ridicolo. “Ha solo una grande immaginazione.”
“O sei
gentile o sei molto stupida anche tu.”
Prima che
Molly potesse dire qualcosa, qualunque cosa, la mano di Sherlock scattò verso
Archie. Due secondi più tardi Archie era in piedi di fronte a lei, forzato
dalla presa di Sherlock che lo aveva afferrato per lo scollo della maglietta e
lo costringeva in una posizione dimessa e di sicuro poco piacevole.
“Chiedi
scusa”, ordinò, brusco.
“Cosa?” esalò
Molly. Nello stesso momento, con un identico accento di sconcerto e una punta
di fastidio, Archie chiese: “Perché?”
“Sei stato impertinente
quando lei invece è stata cortese, inoltre le hai mancato di rispetto senza un
motivo. Ora chiedile scusa”, ribadì Sherlock, dandogli una leggera scrollata.
Quindi se le avesse mancato di
rispetto, ma per un motivo del tutto plausibile, sarebbe andato bene? Molly dovette mordersi la lingua,
divisa tra incredulità, disagio e senso di colpa.
Archie
abbassò il mento, strusciò le scarpe da ginnastica sul tappeto. “Mi dispiace.”
Sherlock
roteò gli occhi e aprì la bocca. A quanto pareva il tono delle scuse non lo aveva
soddisfatto.
Senza farsi
vedere da Archie, Molly lo colpì sull’avambraccio con la borsa, prima
che potesse dire qualcosa di tragicamente vero, ma comicamente fuori luogo.
Sherlock
sgranò gli occhi in un’espressione grottesca.
Era l’aria
oltraggiata di un pavone e lo sguardo dichiarava a chiare lettere: Sei nei guai, Molly Hooper. Come hai osato –
e altre facezie del tipo.
Molly non
gli badò. Carezzò la testa ad Archie, imbronciato nell’offesa tipica di un
bambino che viene rimproverato perché ha sbagliato. “Non fa nulla, Archie.
Sono abituata agli individui che fraintendono la cortesia e cercano di
comprarmi con le lusinghe.”
Prendilo in quel posto, Sherlock,
avrebbe
detto John, ridacchiando sotto i baffi.
Molly era
più incline alla ragionevolezza, perciò pensò un più indulgente: Ben ti sta.
Quando
incrociò lo sguardo di Sherlock fu sorpresa di non trovarvi alcuna traccia di
fastidio o disappunto o irritazione. Aveva già visto quella luce – un lampo
indefinito ad attraversarlo -, quella faccia.
Non riuscì a
ricordare quando e il non-ricordo le rose il petto e le affilò il respiro.
Saltò fuori
che la non-urgenza di Sherlock fosse in effetti una non-apertamente-dichiarata
richiesta di baby-sitting.
Saltò fuori
che Sherlock avesse un caso in corso (un sei, niente per cui allarmarsi, comunque) e che nonostante questo non “avesse avuto
il cuore” (questo era stato il gentile accorgimento linguistico trovato da
Molly che, tuttavia, credeva fermamente si fosse trattata di una
dimenticanza in piena regola) di rinviare o cancellare l’appuntamento preso in
precedenza con Archie.
John era al
lavoro (sbuffo irriverente), lo stesso dicevasi di Mary. Mrs. Hudson era andata
a trovare un’amica di vecchia data per rivangare una gioventù da tempo espatriata (alzata di spalle, altro sbuffo di
pura impudenza).
Nel circolo
di alternative l’unica disponibile rimaneva dunque lei, Molly.
Da prosaica
e tranquilla che era stata, la giornata si era trasformata in una girandola di
occasioni e soluzioni.
Molly
avrebbe potuto arrabbiarsi per il relativo preavviso che Sherlock le aveva dato,
avrebbe potuto sentirsi offesa dall’assunto incontrovertibile che vedeva
Sherlock dare per scontato – e a ragione, accidenti a lui! – che lei non avesse
niente di meglio da fare nel suo unico pomeriggio libero infrasettimanale.
Molly preferì non rimuginarci.
Era diventata piuttosto abile nel trascurare i brutti pensieri.
Si deliziò, rendendo
la cucina di Sherlock un incubo di Dita mozzate di Strega, Occhi Strappati e
Insanguinati, Ossa Spolpate, Cervelli di Zombie, un Cimitero di Pietre Tombali,
Omini di Scheletro, Ragni Pelosi, nel divertimento condiviso con Archie a cui
raccontò – le braccia affondate fino ai gomiti nell’impasto per dolci - la
storia di Jack-o'-lantern, un fabbro
astuto, avaro e ubriacone, che un giorno al bar incontrò il diavolo*, (Sherlock
dal salotto borbottava carinerie sull’ignoranza collettiva, sul Samhain, sul
Capodanno Celtico e sulla “fine dell’estate” e: “Molly. Ti avevo chiesto di
guardare il bambino, non di fare la piccola pasticcera.”).
La soddisfazione
sfumò in un sorrisetto flessibile quando l’ombra calante di Sherlock si
proiettò sul pavimento, nello spazio tra lei e Archie, seduti come indiani di
fronte al forno.
Lo sguardo
di Sherlock indugiò su tutto e niente nella cucina a soqquadro – le teglie
nell’acquaio, il tavolo infarinato, le siringhe da pasticcere con la glassa e la
gelatina abbandonate in un angolo. Arcuò un angolo della bocca, sembrava che lo
spettacolo lo divertisse. Possibile? “Niente Mele Stregate, vedo.”
“In compenso
hai scoperto di avere un forno e che mischiando uova, latte, burro e farina si
possono creare produzioni artistiche degne di una scena del crimine.”
Sherlock
alzò gli occhi al cielo e - Non essere
ridicola, Molly, sembrava dire.
Come tutte
le esperienze piacevoli, al pari di quelle spiacevoli, anche il pomeriggio ebbe
fine. Archie aveva fatto incetta di Occhi Strappati. Aveva il camice che
Sherlock gli aveva dato, piegato con cura nello zainetto, e gli occhiali
protettivi al collo.
Molly gli
aveva promesso che la prossima volta sarebbe stata dedicata a esperimenti chimici
caserecci.
Lunga vita
alla scienza, era stato il commento derisorio di Sherlock.
“Salutatevi
come si conviene a persone civili dotate di ragionevolezza e di una certa
intelligenza”, ingiunse Sherlock, senza alzarsi dalla scrivania.
Molly si
voltò di scatto. “Hai appena detto che sono intelligente?” domandò, sorpresa.
Arrossì. “Scusa. È che non lo avevi mai fatto prima.”
Sherlock
roteò gli occhi. “Un’altra osservazione del genere e non dovrai domandarti perché.”
Molly scosse
la testa e si chinò verso Archie. Aveva un sorriso smagliante.
Si sorprese
quando il bambino si alzò sulle punte e ne approfittò per buttarle le braccia
al collo e stringerla con tutta la forza che aveva. “Non puoi lasciare Pugnale
di carne per lui?” le mormorò con veemenza all’orecchio. “Anche lui ti-”
Molly poté
solo immaginare quello che era stato sul punto di dire.
“Archie.” Di
nuovo Sherlock, una chiara nota di avvertimento nella voce di velluto. “Tua
madre inizia a mostrare segni d’impazienza. Altri quindici secondi e mi
sguinzaglierà contro tutta Scotland Yard.”
Archie
annuì. Le lanciò un’ultima occhiata, una di quelle in cui i bambini riescono a
contenere tutte le parole del mondo. Poi corse via.
Molly aveva ripulito
il macello in cucina. All’inizio non avrebbe voluto farlo, ma la coscienza
l’aveva avuta vinta, supportata dall’idea che, se non lo avesse fatto lei, l’ingrato
compito di rassettare sarebbe toccato a Mrs. Hudson o a John.
Una volta
finito, ritornò in salotto per prendere il cappotto e la borsa. Lì rimase, le
braccia incrociate sul petto e l’espressione raccolta, a guardare Sherlock
mentre effettuava le sue ricerche al laptop.
“Tu eri
così? Intendo da piccolo.”
Per chiunque
altro la domanda, posta all’improvviso e senza preamboli, sarebbe suonata
strana, nonché un’incresciosa mancanza di rispetto. Per Sherlock, invece, tutto
quanto concerneva la curiosità e l’immagazzinare informazioni – anche se non necessarie
come quella – era logico, naturale atto di vita.
“La
percezione che abbiamo di noi stessi è deformata. Dovresti chiedere a Mycroft.”
Sherlock spostò gli occhi dal monitor, destinandole un minuscolo sorriso
obliquo. “Si divertirebbe a demolirmi in centotre, no, centoquattro modi
diversi.”
“Quando hai
sgridato Archie…” iniziò Molly. “Non era necessario, sai. Ha dieci anni. È
normale che sia antipatico e insolente, a volte.”
“La
maleducazione non ha niente a che spartire con l’età. È tutta questione di
mentalità e da bambini ha il pregio di essere ancora malleabile, non scolpita
nell’intemperanza dell’esperienza e in una personalità definitiva.”
Da quale pulpito.
Molly scosse
la testa, annodando la sciarpa. “Se avessi un penny per ogni volta in cui tu sei stato sgarbato, sarei una donna
decisamente ricca.”
Sherlock non
ribatté e Molly intuì che la sua risposta lo avesse infastidito.
“Lo dici
anche di me, Molly?” Gli occhi di Sherlock si erano fatti gelidi e duri,
opprimenti. “Ha modi impossibili, ma una mente brillante. Inventi attenuanti
per giustificare le mie azioni e il criterio che seguo nel compierle?”
Come
spiegare a un sordo perché non riusciva a sentire? A un cieco la sua cecità?
“Quando si
ama qualcuno se ne amano anche i difetti peggiori.”
“Come tu ami Tom?”
Molly
strinse le labbra, rilasciò un sospiro. Aveva ricollegato quel lampo, quella faccia a un momento preciso. Non
si mosse e neppure Sherlock.
Era uno di
quegli attimi sospesi nel tempo, decise lei, uno tra quelli che avrebbero
potuto decidere vite e cambiare la storia. Portare qualcuno ad essere una
persona completamente diversa, a compiere scelte che non avrebbe mai pensato di
prendere prima, strade mai percorse. Sarebbero bastati pochi passi.
Alla fine Molly
si decise a inghiottire il grumo di sentimenti. Si schiarì la
gola e mosse i piedi, ma nella direzione opposta, verso la porta.
“Arrivederci,
Sherlock.”
“Arrivederci,
Molly Hooper.”
Forse lo
sognò. Forse successe davvero. D’altronde Sherlock era stato capace di
chiederle scusa una volta, perché non avrebbe potuto ringraziarla, allora?
Fatto stava
che Molly quel ‘grazie’ fu quasi certa di esserselo solo immaginato, insieme
all’ombra che gli aveva oscurato la fronte quando le aveva chiesto se amasse
Tom.
Molly non lo
sapeva. Per giorni preferì non farlo. Un giorno, però, uno a caso, non ne fu
più in grado. Non riuscì a smettere di fantasticare su ‘come sarebbe stato se’.
Fu il giorno
in cui restituì a Tom il suo anello.
Prima che
Archie andasse a Baker Street trascorsero molti e molti mesi.
Ad ottobre
c’era stata un incidente, gli aveva spiegato sua madre, e il signor Holmes era
rimasto coinvolto. Nulla di pericoloso, ma era per questo che non poteva andare
a trovarlo. Potevano mandargli dei cioccolatini, se voleva.
Archie
aveva detto di no ai cioccolatini. Il signor Holmes non era tipo da
cioccolatini, quindi no, davvero, niente cioccolatini. Mele Stregate, aveva
detto.
E Mele
Stregate erano state.
Perciò, quando
Archie mise piede nel 221B, un nuovo anno era cominciato, vari casi si erano
succeduti nel frattempo e qualcos’altro era cambiato.
Si rese
subito conto che c’era qualcosa di nuovo e strano nell’aria. Non perché
l’appartamento avesse un aspetto decisamente più pulito o perché sulla trave
del camino ci fosse un piccolo vaso di fiori, di quelli minuscoli che passano
inosservati, ma sono i più profumati, mughetti o margherite di campo. C’erano
molti più libri – non che prima fossero pochi -, un paio di cuscini sul divano
e un plaid.
C’era un giradischi
su un vecchio baule in un angolo e un paio di fotografie, di cui una in bianco
e nero.
Non era
quello il qualcosa di diverso. Il qualcosa non era nei profumi o nei colori.
Era nel silenzio, o meglio nella diversa qualità di silenzio. Prima era di quelli
granulosi, pieni di pensieri inespressi, pieni delle parole che il suo proprietario
preferiva tenersi per sé, fino al momento in cui esporle gli avrebbe portato un
beneficio.
Ora era un
silenzio nuovo. Un silenzio che faceva da intermezzo.
Un silenzio
rotto da una risata e da un borbottio, entrambi provenienti dalla cucina.
Molly era
china sul microscopio e cercava di spingere via Mr Holmes che era dietro di
lei, le mani sulle sue spalle. Molly rideva e così Mr Holmes, anche se la sua
risata era intrappolata negli occhi, come certi insetti nei bicchieri
capovolti.
“Archie”,
disse Mr Holmes, segno che aveva preso atto silenziosamente della sua presenza
sin dall’inizio. Lo guardò da sopra la testa di Molly, lasciando lentamente la
presa. “Quando si entra in casa d’altri, si porgono i saluti.”
Archie
sorrise. “Giusto. Buongiorno a tutti. Cosa state facendo?”
“Mi sembrava
di averti assicurato una giornata all’insegna della scienza. Mantengo solo le
mie promesse.”
Il sorriso
di Archie si ingrandì. “Era stata Molly a prometterlo.”
Mr Holmes
roteò gli occhi. “Giusto per rimanere in tema di chiarimenti, devo modificare
un’osservazione che ho fatto in passato. Molly è la mia patologa e coinquilina.”
Molly lo
spinse di lato per andare a salutarlo con un abbraccio e arruffargli i
capelli. Gli strizzò l'occhio. “Non gli badare. Odia
la parola ragazza o fidanzata o compagna o qualsiasi variante
proponibile.”
Mr Holmes arricciò il naso con fare sdegnato. “Questo perché sono tutte ridicolmente imbarazzanti e
fuorvianti. Non abbiamo quattordici anni, Molly.”
Archie,
ormai, aveva un sorriso enorme, come quelli da smile. Per chiunque avesse orecchie aveva in serbo un gigantesco, euforico: Lo sapevo!
Prima legge di Archie, applicata
in natura.
In
condizioni di pressione costante, la concentrazione di una mente è inversamente
proporzionale al sentimento che la agita.
Espresso in
parole spicciole. Metti sotto pressione un adulto (“sulla graticola”, diceva il
nonno) di fronte all’adulto che gli piace e vedrai che tre volte su tre,
qualcosa andrà su.
E Archie
ovviamente aveva pensato al sangue al cervello e altre cose di questo tipo. Il
nonno, ricordava, aveva riso finché la nonna non lo aveva strigliato a dovere
sul non irretire giovani anime innocenti.
N/a:
Sono state
un paio di settimane disastrate tra esami, lavoro e febbre – di cui ho patito
fino a sabato i “postumi”. Per fortuna ho avuto questi quattro giorni di
festa tutti per me e me li sono goduti fino alla fine.
Questo è il
mio modo – sciocco e… l’ho già detto sciocco? - per festeggiare la fine di Sofismi. È stata la mia prima storia a
più capitoli e sono felicissima che sia piaciuta e anche di averla finita, sì. Quindi
un abbraccio gigantesco a tutti voi. Ne approfitto per augurarvi buon Carnevale.
Mangiate tante chiacchiere e divertitevi ;)
Giusto per attribuire agli altri colpe non loro, ebbene tutto è nato
per colpa di mio fratello. Stava studiando chimica, io lo interrogavo e mentre
mi ripeteva la prima legge di
Gay-Lussac, ecco che la mia testa ha partorito questo. Quando si parla
di voli pindarici xD.
Nota
all'estero come legge di Charles
e chiamata anche legge di Volta
Gay-Lussac, essa afferma che in una trasformazione isobara, ovvero in
condizioni di pressione
costante, la densità
di un fluido ideale
è inversamente proporzionale alla temperatura.
(wikipedia docet)