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Autore: Ires    06/03/2014    0 recensioni
"Jonathan la stava scrutando da un po’: non sapeva bene il perché, ma non riusciva a staccare gli occhi da quelle iridi verdi e quelle ciocche rosso fuoco."
Jonathan conosce Dakota un giorno al parco. I due pian piano si conoscono ma tra loro c'è un segreto non detto che potrebbe separarli...
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Ta daan! La mia prima storia pubblicata su questo sito! Devo dire, ero molto incerta se pubblicarla o meno. E' stata scritta un po' di mesi fa e ha decisamente bisogno di una revisione, ma intanto volevo pubblicarla per dare ai miei futuri lettori (se ci saranno) un assaggio del mio stile.
Spero vi piaccia!
[Canzoni ascoltate: Are you the one – Within Temptation
Knockin’ on Heaven’s Door – Guns N’ Roses
Pale – Within Temptation
Forgiven – Within Temptation
Safe & Sound – Taylor Swift]

Pale

La prima cosa che lo colpì furono i suoi occhi, i più intensi che avesse mai visto. Erano verdi, profondi e irradiavano una strana malinconia, nascosta a sua volta da sorriso aperto su quel viso rotondo e da bambina. Sedeva in una panchina sotto l’ombra di un grande albero e osservava con curiosità le altre persone, come a studiarne il comportamento per la prima volta nella sua vita. Jonathan la stava scrutando da un po’: non sapeva bene il perché, ma non riusciva a staccare gli occhi da quelle iridi verdi e quelle ciocche rosso fuoco. Il ragazzo era talmente immerso nei suoi pensieri che non si accorse che la sconosciuta non si stava più guardando intorno; ora guardava dritto verso di lui, un accenno di sorpresa appena visibile sul suo viso. Non poteva biasimarla, poiché lui stesso non capiva cosa stesse facendo o perché ora si stesse avvicinando alla panchina. Si sedette di fianco all’adolescente, che lo guardava con incredulità. Rimasero per almeno cinque minuti così, lui guardando davanti a sé e lei guardando lui con una faccia a metà tra lo sconcerto e la meraviglia.

Fu lei a rompere il silenzio. “… Salve” salutò educatamente con voce che era roca, ma calda. “Ciao” rispose casualmente Jonathan passandosi una mano tra i ciuffi scuri. “Sei nuova di qui?” le chiese mentre continuava a guardare il sole sparire all’orizzonte. Un largo sorriso si espanse sul viso dell’estranea e improvvisamente il ragazzo sentì le guance più calde del normale. ’Ha un bel sorriso’. “No, non sono nuova … Ma vivo qui solo da un anno e ho un insegnante privato, per cui non mi si vede molto in giro” disse. Questo spiegava molte cose, prima di tutto perché gli sembrava di non averla mai vista; ne era certo, se mai avesse posato gli occhi su di lei l’avrebbe di sicuro ricordata. “Sono Dakota”. Non gli tese una mano da prendere, solo un grande sorriso che le illuminava gli occhi. Il giovane ricambiò. “Io sono Jonathan. Piacere”
La loro amicizia era definitivamente strana, di questo era sicuro. Si vedevano spesso, ma sempre di sera e sempre alla stessa panchina sotto quella quercia dalla presenza rassicurante. A Dakota piacevano silenzio e calma e Jonathan trovava quelle ore con lei rilassanti e liberatorie. Era un giorno come gli altri e tra loro c’era un confortevole silenzio di chi non ha bisogno di parlarsi per capirsi quando lei fece una domanda insolita: “Credi nei fantasmi?”.

La domanda era semplice ma improvvisamente il ragazzo si sentì un nodo alla gola e un peso nel mezzo del petto. Oh sì, lui ci credeva ai fantasmi. Non solo, lui i fantasmi li vedeva. Benché sin da piccolo si fosse accorto che i suoi occhi scorgevano più cose di quelli degli altri, non l’aveva mai detto a nessuno. Di sicuro l’avrebbero chiamato strano, pazzo o stupido, quindi perché rischiare? In questo momento sentì le paure di bambino tornare in superficie con violenza e scoprì senza troppa sorpresa che gli importava cosa Dakota pensasse di lui. Forse anche un po’ troppo. “Io ci credo - riprese lei mentre scrutava il cielo notturno – e credo anche ci siano persone che li possono vedere”. Lui sollevò lo sguardo da terra e lei lo abbassò dal cielo: il verde incontrò il nocciola. ‘Forse a lei lo posso dire’. Quegli splendidi occhi verdi non si staccarono neanche per un attimo dai suoi. ‘Di lei mi posso fidare’. La ragazza stava per distogliere lo sguardo quando Jonathan prese un respiro profondo e mormorò: “Io li vedo. I fantasmi, dico”. Lo aveva finalmente detto a qualcuno. Sentì un peso scomparire dal suo cuore perché, diamine, per la prima volta qualcuno avrebbe capito per quale ragione ogni tanto salutava il nulla e si scusava quando urtava pura aria. Dopo diciassette anni non aveva ancora imparato a distinguere i morti dai vivi e forse non ci sarebbe mai riuscito; se non altro qualcun altro ora lo sapeva.

Si aspettava una risata, un’occhiata incredula, qualunque cosa che gli avrebbe fatto capire di averla spinta oltre i propri limiti, di averla allontanata. Quello che non si sarebbe mai aspettato fu un sorriso lieve e un sussurro appena udibile: “Ti credo”.
Nei giorni seguenti gli spiriti e l’altro mondo furono argomento frequente delle conversazioni serali. Dakota era un’appassionata di sovrannaturale, tanto da formulare teorie su aldilà e fantasmi.

Secondo lei, se qualcuno faceva una promessa appena prima di morire, la sua anima restava bloccata sulla Terra e senza possibilità di “passare oltre”, almeno finché la parola data non fosse stata mantenuta. Quando Jonathan le chiese cosa le permetteva di formulare tale teoria con tanta sicurezza, la ragazza esitò. Dopo un silenzio pieno di attese, in cui Jonathan si tormentò i capelli in un vano tentativo di cancellare la paura di aver curiosato troppo, la sua risposta lo sorprese parecchio: “Diciamo che... penso di aver visto un fantasma in passato. Mia... mia nonna aveva fatto una promessa prima di morire e... non so, ho pensato che forse avevo visto lei. Ecco.”. Non sapeva bene il perché, ma dopo quell’affermazione l’adolescente si sentì in dovere di condividere un suo segreto con lei. Un altro. “Una volta avevo pensato di farla finita. Ero in quel periodo della pubertà in cui un minuto sei depresso e quello dopo pure... voglio dire, non avrei mai fatto niente, non-”. Uno schiaffo, abbastanza leggero per non fargli male ma abbastanza forte da interromperlo, fermò il suo discorso. “NON PROVARE NEANCHE A PENSARCI” sbraitò lei, gli occhi lucidi. Stava... stava piangendo? Che diamine, lui con le ragazze non ci sapeva proprio fare. Lo stava ancora guardando, furiosa come non mai, quando probabilmente si rese conto della sua espressione sbigottita. “Oh, cavolo, diamine, porca paletta. Scusa, non volevo reagire così, è che... oh cielo, scusa. Scusa tanto. Ho esagerato un pochino, ma ci tengo a te e... oh mio dio, sono un disastro” mugugnò, mentre nascondeva la faccia con le mani. Jonathan riusciva comunque a vedere il rossore che le colorava le guance e cominciò a ridacchiare fino a che non dovette tapparsi la bocca con le mani per non riderle in faccia. “Non c’è niente da ridere!” strillò lei, con un tono a metà tra arrabbiato e divertito. Il ragazzo la ignorò e continuò a ridere, finché non riuscì a dirle che rideva così tanto solo perché da arrabbiata era divertente e anche molto carina.

A quel punto il colore del viso di Dakota avrebbe fatto invidia ad un pomodoro.
Dopo un mese e mezzo dal loro incontro erano una coppia ufficiale. Non perché lo avessero detto ai loro amici o perché avessero conosciuto i genitori dell’altro: semplicemente perché ormai abbracci e passeggiate mano nella mano erano diventate la norma. Si vedevano sempre di sera poiché era l’unico momento del giorno in cui entrambi erano liberi ed erano contenti così, anche se il desiderio era quello di stare sempre insieme.

Non c’era stato nessun bacio, non ancora: Jonathan avrebbe tanto voluto assaporare le sue labbra, ma aveva il terrore di incasinare tutto. Lei d’altra parte era incredibilmente timida e non voleva forzarla.

Quella sera erano seduti su una panchina al parco: Dakota era seduta sulle sue gambe e aveva la testa poggiata sulla sua spalla; poteva sentire chiaramente il suo respiro sulla clavicola sinistra e il battito calmo del suo cuore. I loro visi erano vicinissimi, solo a pochi centimetri di distanza. Il ragazzo guardò i suoi occhi color foglia e ci vide lo stesso amore che lui provava per lei. Perciò ci provò. Avvicinò il suo volto, fino a quando le loro fronti si toccarono, e chiuse gli occhi.

“Aspetta.”

Immediatamente si bloccò e aprì gli occhi. Lo sguardo della sua amata era addolorato e dispiaciuto. Lo sapeva, si era bruciato la sua unica possibilità. Era questione di momenti prima che lei gli dicesse quanto gli dispiaceva, ma non era pronta e forse in fondo non lo amava così tanto. Tuttavia lei lo sorprese ancora una volta. “Jon – cominciò con voce affranta – io non sono di qui”.

Non capiva. Cosa intendeva con “non sono di qui”? Non era di questa città? Questo paese?

Il significato della sua frase penetrò nella sua mente pochi istanti dopo e sentì un macigno incastrarsi nello stomaco.

Avrebbe dovuto capirlo prima. Come gli era sfuggito?  Perché non aveva dato peso alla sua sorpresa la prima volta che l’aveva toccata (“E’ la prima volta che tengo la mano ad un ragazzo”), alla sua convinzione sull’esistenza degli spettri (“Diciamo che... penso di aver visto un fantasma in passato”) o alla sua riluttanza ad essere attorniata di persone (“Non è che non mi piacciono le persone, anzi. Ma ultimamente... diciamo che mi sento invisibile, ok?”)?

Come aveva fatto a non capirlo non lo sapeva neanche lui. Era così ovvio, era stato così cieco.
“Non sono di qui”. Non di questo mondo. Dakota era uno spettro e lui non se ne era mai accorto.
“Da... da quando” chiese, la voce rotta dal dolore. “Ormai sono tre mesi” qualche lacrima le solcava le guance e Jonathan sapeva che anche lui stava piangendo.

Dakota prese un lungo respiro e diede inizio alla sua storia.
La discoteca non le era mai piaciuta: troppi alcolici, troppo rumore, troppa pelle scoperta, troppo. Tutto esagerato, luminoso e falso per essere godibile, almeno secondo i suoi standard. Dakota non era snob. Dakota era solo stanca e voleva tornare a casa.

Non ci arrivò mai.

Era l’una passata quando Callie finalmente si offrì di uscire dall’infernale sala da ballo per accompagnarla. Erano vicine di casa e amiche da una vita, ma non potevano essere più diverse. Forse per questo si capivano così bene. “Oddio ho ballato troppo. Cazzo non sto neanche in piedi, mi fanno male le gambe”. Dakota alzò gli occhi al cielo e, trattenendo una risata e un rimprovero, trascinò l’amica per un braccio fino all’inizio delle strisce pedonali. Dakota era più bassa e magra di Callie, ma era più energica e soprattutto non aveva mosso dito per tutta la serata, quindi lasciò che la compagna si appoggiò sulla sua spalla con tutto il suo peso. “Grazie al cielo domani è domenica – bofonchiò nella sua spalla, il viso nascosto dai capelli neri – giuro che se avessi dovuto alzarmi prima delle nov- oh mio dio! Quella borsa DEVE essere mia, guarda, è stupenda! Diavolo, me la faccio regalare da Mark”. La rossa rise forte, divertita dall’improvvisa vitalità dell’altra, ma dato che la borsa era veramente carina annuì con fervore. Nel tempo in cui Callie si era distratta il semaforo era diventato verde e le poche persone con loro da quel lato della strada (due o tre ragazzi della loro età) avevano già attraversato. La mora era ancora incollata alla vetrina, ma nel frattempo l’argomento della discussione era cambiato. “Vorrei dire anch’io di potermela far regalare dal mio ragazzo... peccato che io il ragazzo per ora non ce l’ho!” scherzò Dakota. Mark era appunto il fidanzato di Callie da più di tre mesi e i due erano veramente felici insieme. La ragazza era contenta per loro, ma sentiva anche una piccola dose di gelosia scorrerle nelle vene ogni volta che diventava l’inevitabile terzo incomodo. L’amica la guardò con una faccia quasi seria, solo per urlare: “Guarda che te lo trovo io un moroso, non vorrai mica morire zitella!”. A quel punto Dakota si era accorta del colore del semaforo, anche grazie agli altri pochi passanti che stavano attraversando in quel momento. Quella pazza che chiamava amica era ancora saldamente ancorata davanti al negozio, ma la rossa non vedeva l’ora di tornare a casa e finalmente dormire. Così, con lo sguardo verso Callie, attraversò le strisce gridando: “Non ti preoccupare, prometto che prima di morire bacerò qualcuno!”.

Non baciò mai nessuno. Non fece nemmeno in tempo a vedere i suoi genitori un’ultima volta, perché la sua fu una morte piuttosto veloce.
Aveva sempre disprezzato gli amanti dell’alcol.

Dakota non si vide sfrecciare davanti tutta la sua vita, non ebbe tempo per pensare a tutto ciò che non avrebbe potuto fare mai più: l’ultima cosa che vide furono due grossi fari, l’ultima cosa che sentì furono le grida di Callie. Il suo ultimo pensiero era ancora rivolto a quella promessa inconsistente, a quel sogno da teenager.

Il camion la travolse in un secondo mentre nella sua mente risuonava ancora l’idea che quella promessa non sarebbe stata troppo difficile da mantenere.
Il viso affilato di Callie fu la prima cosa ad entrare nel suo campo visivo, così come le sue lacrime. “Stai sveglia, stai con me Dakota, sei forte, la farai. Non azzardarti a morire su di me, non osare” l’amica lo ripeteva come un mantra, ma Dakota la ascoltava appena.

Dakota era stanca e voleva tornare a casa. Riuscì a rivolgere un sorriso triste all’amica, ma il suo “mi dispiace” non oltrepassò mai le labbra.

Dakota voleva solo dormire. Così chiuse gli occhi, per l’ultima volta.
Quando Dakota ebbe finito di narrare ormai singhiozzava rumorosamente e cingeva le sue spalle in una morsa ferrea, ma il ragazzo non se ne accorse nemmeno.
“Potresti rimanere qui per sempre – sussurrò tra le lacrime – se io non ti baciassi mai. Rimarresti qui, con me. Per sempre.”
Dakota scostò il viso dall’incavo della sua spalla per guardarlo negli occhi: sorrideva, ma era un sorriso pieno di disperazione. “Lo vorrei anch’io – bisbigliò – ma non posso. Io... io comincio a dimenticare le cose. Qualche volta non mi ricordo neanche il mio nome. Voglio andarmene ora. Voglio andarmene ricordando perché sono qui, chi era la mia migliore amica, come si chiamavano i miei. Voglio andarmene quando ancora ricordo che mia sorella si chiamava Annie, le piacevano tanto le bambole di pezza e aveva i capelli biondi come il miele. Non voglio dimenticare il rumore del vento, il sapore del cioccolato... non voglio dimenticare te. Lasciami andare ora Jonathan, intanto che sono ancora capace di amare.”. Lo spirito premette i palmi sulle guance dell’ innamorato e portò i suoi occhi nocciola all’altezza dei propri. “Lasciami andare quando ancora non sono un’anima in cerca di qualcosa che non avrà mai. Lasciami andare ora. Ora che sono ancora la ragazza di cui ti sei innamorato.”

“Ora che sono ancora Dakota”

Lo fece. La baciò e scoprì che le sue labbra sapevano di fragola, che erano calde e morbide proprio come aveva pensato. Erano le labbra di una persona viva.
Dakota ora sorrideva. Non voleva lasciarlo, ma il suo posto non era più lì. Non apparteneva a quel mondo. Non apparteneva più a lui. Il suo viso da bambina era ancora lì che lo guardava ma il suo corpo diventava sempre più leggero finché lui non si trovò tra le braccia altro che aria.

Le giade che erano i suoi occhi furono l’ultima cosa a sparire.
  
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