2008.
“All along it was a fever, a cold
with
high-headed believers .
I threw
my hands in the air I said «show me something».
He said «if you dare come a little closer».”
«Sei pronto?»
Jared
saltellò
sul posto, un gesto che gli venne automatico, quel gesto che faceva
sempre
prima di uscire sul palco a cantare, a suonare, a fare una delle poche
cose che
sapeva fare. «Certo».
«La
gola, fa
ancora male?», continuò Shannon.
Se
sapessi, Shan, che il dolore che sento in gola non è
niente rispetto a quello che sento in ogni piccola parte di me.«È
sopportabile. Vuoi
stare tranquillo?»
«Non
ce la
faccio, come pretendi che io possa stare tranquillo
dopo…», non riuscì a
terminare la frase, il ricordo era ancora troppo vivido, ben visibile
anche con
le palpebre chiuse, ben udibile anche con le mani a tappare le orecchie.
Jared
scoppiò a
ridere. «Puoi dirlo».
«Non
ce faccio»,
ammise Shannon, le spalle incurvate. «Non ce la faccio, mi
dispiace».
Jared
si voltò
verso di lui, puntando gli occhi in quelli del fratello. «Non
avrei voluto tu
assistessi a quella scena».
«Tu
non sei
questo».
«Un
depresso che
non sa se buttare giù un barattolo di sonniferi, che non sa
se morire oppure
resistere un altro giorno? No, è vero, io
non sono questo». Era quella la scena che si era parata
davanti agli occhi di
Shannon, qualche tempo prima: lo sapeva bene che non stava bene, lo
sapevano
bene tutti perché lui proprio non ce la faceva a nascondere
il suo dolore. Era
così, Jared, un egocentrico egoista. Aveva ostentato la sua
sofferenza in modo
talmente palese che tutti avevano cominciato a girargli alla larga: non
potevano farci niente, lei se n’era andata e se
l’era portato via. Che cosa
potevano fare tutti loro se non aspettare il suo ritorno? E
l’avevano fatto,
gli avevano lasciato spazio, l’avevano lasciato fare cazzate,
ferirsi, ferire,
avevano sentito la sua mancanza e sperato in un suo ritorno alla
normalità.
Fino a quel giorno, in cui Shannon aveva capito che in suo fratello, di
normale, non c’era più nulla. Jared non
c’era più, e la paura più grande era
quella che forse non sarebbe tornato mai più. Punto quei
suoi grandi occhi
azzurri in quelli del fratello. «Non ero io, non ero in me,
io sono quello che
dice agli altri che c’è sempre una via
d’uscita, vero? Io sono quello forte,
quello che ha aiutato te ad uscire dallo schifo, dalla morte. Quello
sono io,
non quello che non sa più che cosa fare della propria vita.
Sono quello
creativo, l’artista, quello che, in un modo o
nell’altro, ne esce sempre. E te
lo giuro Shannon, ti giuro che ce la sto facendo», una risata
amara gli scivolò
fra i denti serrati. «Quand’ero a Berlino, prendevo
la metro tutti i giorni in
uno stato di incoscienza. Ubriaco, gli occhi stanchi, vestito come i
drogati
che chiedevano l’elemosina in alcune stazioni centrali.
Spesso non sapevo
nemmeno io dove stessi andando. Prendevo dei treni a caso e mi facevo
trasportare in zone della città sconosciute. Camminavo per
ore, mi guardavo
attorno, gli occhi spalancati per la meraviglia del cielo, degli alberi
spogli
ma intricati come sembrava intricata la mia anima, i palazzi troppo
alti, che a
volte dovevo piegare fin troppo la testa per vederne la fine. Un giorno
ero nei
pressi del muro, dove c’è una delle arene
più grandi di tutta la Germania e dev’esserci
stato il concerto di qualcuno, perché vi erano persone che
intonavano le stesse
canzoni, persone con lo stesso logo disegnato sulla maglia, con dei
sorrisi che
prendevano loro tutti i volti. Ho ricominciato a camminare, non prestando attenzione
all’arte magnifica
del muro che mi scorreva affianco, guardando solo davanti a me per
evitare di
colpire le persone. Arrivai a una stazione e mi ci infilai dentro,
deciso a
prendere qualcosa da bere in un bar, perché ero troppo
sobrio e qualcosa mi aveva
turbato lo stato di imperturbabilità in cui ero crollato da
tempo. Sai che non
ricordo nemmeno quanto ci sono stato in quella
città?»
«Tre
settimane. Non
ti sei fatto sentire per tutto il tempo», rispose Shannon,
ingoiando la saliva
che le si era formata ascoltando il racconto del fratello. Attendeva
solo
proseguisse.
«Tre
settimane
che finirono con quella birra. Mentre camminavo verso la metro che mi
avrebbe
portato da qualche parte a dimenticare quella che una volta era la mia
vita e
che forse non sarebbe più tornata ad essere, ho notato un
cartello. Ausgang,
diceva. Significa uscita in tedesco. E un migliaio di voci hanno
cominciato a
riempirmi la testa, a rimbombarmi dentro, fino a stordirmi. Ricordo che
ho
lanciato la bottiglia che tenevo in mano e ho cominciato a correre per
liberarmi di quel rumore che mi stava ferendo. Dovevo fermarlo, non
riuscivo ad
ascoltare le loro migliaia di voci, mi stavano facendo male. Corsi fino
a
quando non ebbi più fiato e dovetti fermarmi. E non so come,
ma riuscii ad ascoltare
anche tutte quelle voci. Erano i grazie che avevo sentito nel corso
degli anni
da parte degli Echelon, i loro “mi avete salvato la
vita”. Era un continuo
rombo di voci, ma riuscivo a distinguerle una ad una dentro di me,
associandole
a volti che avevo già visto e che si confondevano
l’un l’altro», guardò Shannon
e sorrise. «Mi avevano detto così tante volte che
avevo salvato la loro vita
con la mia, la nostra musica, la mia voce, che avevo finito per
crederci. Avevo
finito per credere che avrei salvato lei,
Shan. Ma infine lei non è mai stata come tutti gli altri.
Era l’eccezione alla
regola», si fermò per qualche secondo e
sospirò, poi ricominciò a parlare.
«Comunque
quella parola così estranea al mio vocabolario, ausgang, era
riuscita a
portarmi fuori da tutto il nero che mi circondava. Ero di nuovo in
mezzo al mio
sogno, con te, Tomo, perfino Matt».
«E
sei tornato a
casa».
«Sono
qui».
Shannon fissò i suoi occhi in quelli del fratello per dei
secondi che non
volevano saperne di scorrere in avanti, vide quell’azzurro
che fin da piccolo
aveva deciso avrebbe protetto, perché non avrebbe mai dovuto
essere troppo
lucido, o più scuro del normale, perché quei suoi
grandi occhi azzurri
avrebbero sempre dovuto rimanere se stessi, puri come puro era
l’animo di Jared.
L’animo buono di un sognatore. Aveva promesso che mai niente
sarebbe riuscito a
ferirlo, che ci sarebbe stato lui a proteggerlo, in ogni occasione. E
non ci
era riuscito. Era arrivata ad odiarla, aveva assorbito in lui anche
tutto l’odio
che non era riuscito a provare Jared, l’aveva incanalato in
se e l’aveva
scaricato su Christine, facendole male come avrebbe voluto farne a
quella
ragazza che era stata la rovina di suo fratello. Di slancio si
avvicinò a Jared
e lo abbracciò. Non lo faceva spesso, non così
per lo meno, ma sapeva che era
la cosa giusta da fare. «Lo so che ci sei Shannon. Lo so che
fin da quando
nostro padre se n’è andato la tua missione
è stata quella di proteggermi. Te ne
sono grato, sei il fratello migliore che potessi desiderare, ma ora, ti
prego,
potresti lasciarmi andare? Mi stai soffocando», disse,
accennando un colpetto
di tosse.
Shannon
mollò la
presa, un sorriso sulle labbra, e stette ad osservarlo un altro
po’ con la
testa piegata di lato. «Sei veramente tu?»
Jared
annuì. «Sono
io, e sono pronto a cantare. Infine sono loro quelli che mi hanno
salvato»,
disse indicando con un movimento del capo il rumore che proveniva al di
là del
palco, dove centinaia di persone li stavo aspettando trepidanti.
Shannon
gli
diede una pacca sulla spalla. «Andiamo allora».
***
Si
buttò su una
sedia, la fronte e il collo imperlato di sudore. Tutto sommato, dopo
tre mesi
di pausa, non se l’era cavata male. Aveva dimenticato alcuni
versi, distratto
dall’energia che lo circondava, e aveva dovuto fare pause
più spesso del solito,
in mancanza di fiato. Si sentiva comunque soddisfatto, si sentiva bene.
La
musica sembrava essere il balsamo giusto per cicatrizzare le sue
ferite. Sarebbe
guarito. Chiuse gli occhi buttando la testa indietro. Aveva
così tanta
adrenalina in corpo che avrebbe potuto correre per chilometri senza
stancarsi. Riaprì
le palpebre, le labbra rivolte verso su, e alzò la testa
deciso a raggiungere
Shannon e gli altri, ma il sangue gli si gelò nelle vene.
Lei
era lì, al
limitare della stanza, le braccia lungo i fianchi, le gambe lunghe
scoperte, un
maglione troppo largo che le cadeva sulle spalle e le copriva appena le
cosce. Lo
stava guardando, osservò ogni suo minimo movimento, come
valutando che cosa
stesse pensando e quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Jared
irrigidì la
mascella e strinse le mani a pungo. Non riusciva a parlare, non
riusciva
nemmeno a chiedergli che cosa ci facesse lì, con che
coraggio fosse lì davanti
a lui dopo tutto il male che gli aveva procurato. Lei non sapeva nulla,
ma lo
vedeva nei suoi occhi che capiva cosa aveva fatto. Lei capiva ma era
ugualmente
davanti a lui. A fargli male di nuovo? A implorare il suo perdono?
Buttò fuori
l’aria che aveva trattenuto e lei, in risposta, fece due
passi avanti. «Non provare
ad avvicinarti», sputò.
«Mi
dispiace».
«Sembra
che quella
sia l’unica frase che tu sappia pronunciare».
«Avevo
paura».
«Paura
di cosa,
di cosa?»
«Avevo
paura che
un giorno avrei rovinato tutto».
Jared
scoppio a
ridere, una risata raccapricciante. «La sai
l’ultima? Hai già rovinato tutto. Tutto».
«Non
mi ami più?»,
chiese lei, la sofferenza nella voce. Era sempre stata così
brava a recitare? Jared
non sapeva la risposta. Era sempre stato troppo accecato
dell’amore, forse, per
vedere che cosa realmente si nascondesse dietro quel volto
così pulito, così
bello. Non ebbe la forza di rispondere, perché lo sapevano
bene entrambi che
lui non avrebbe mai smesso di amarla, mai, nemmeno tra
cent’anni. Lei gli si
avvicinò e le posò una mano sulla guancia poi,
con le dita sottili, prese a
carezzarla, sentendo il pungere della barba ispida sotto di esse.
«Perdonami. Forse
non lo puoi capire, o non lo vuoi capire, ma io so che una parte di te
conosce
il motivo per cui me ne sono andata. Non sei tu, era il mio passato.
Era il mio
passato che continuava a mettersi tra te e me, tra quello che si era
creato fra
di noi».
Jared
sospirò:
il contatto con la pelle di lei gli era mancato così tanto
nei mesi in cui era
stata distante fino quasi a provarne dolore fisico, e ora che sentiva
di nuovo
la morbidezza della sua pelle contro la propria, una parte del suo
cervello non
riusciva a pensare ad altro. In più aveva il suo profumo
dentro alle narici, e
gli stava distruggendo qualsiasi stabilità recuperata.
Sempre lo stesso
discorso: era in paradiso eppure le fiamme dell’inferno lo
circondavano,
bruciandolo. «Cos’è cambiato
adesso?», riuscì finalmente a dire.
Lei
scosse la
testa. «Nulla, non è cambiato nulla».
«Perché
sei qui,
allora?»
Lei
abbassò la
testa. «Non è ovvio? Mi mancavi».
Una
risata uscì
dalle labbra di Jared che, con una mano, la spinse lontano da
sé, incurante del
male che avrebbe potuto provocarle, fragile com’era. Aveva
gli zigomi così
marcati che un groppo gli si formò subito dopo nello
stomaco: non era ancora
capace a farle del male, nonostante quello che lei aveva fatto a lui.
«Ti
mancavo. Ti mancavo!», aggiunse una seconda volta, urlando.
«Devo presupporre
che tu mi odia, non vedo altro spiegazione per ciò che stai
facendo».
Lei
corrucciò la
fronte. «Io odiare te? Cosa stai dicendo, Jared. Sai che non
è così».
«Io
non so
proprio un bel niente! Non so nemmeno come si chiama la donna che amo
da anni,
posso secondo te sapere perché, da un giorno
all’altro, abbia deciso di
lasciarmi, abbia deciso di frantumarmi il cuore dicendomi che nemmeno
io
riuscivo a riempirle i suoi vuoti, che le dispiaceva tanto, ma nemmeno
io ci
riuscivo a farla stare bene? Che cosa ho sbagliato, Mary? Che cosa ti
faceva
dubitare del mio amore, del fatto che io ti avrei sempre protetta,
sempre
amata, sempre ascoltata, che ci avrei provato sempre a riempirti, in
qualsiasi
modo possibile? Ti avrei regalato fiori ogni giorno, se solo ci avessi
provato
a starmi affianco. Ti avrei dedicato canzoni dolci che nemmeno io
sapevo di
esser capace a scrivere. Avrei fatto tutto per te, tutto, ma non ero
abbastanza. Voglio credere che ci sia qualcuno che possa darti
più di quello
che ti davo io, qualcuno che ti possa far sentire completa,
perché se questo
qualcuno non esistesse allora arriverei davvero ad odiarti. Odiare te,
non più
me, perché io ho fatto tutto quello che potevo fare, ormai
ne sono convinto».
«Mi
chiamo
Eveline», disse lei dopo tempo in cui erano rimasti entrambi
in silenzio, i
respiri grossi e rumorosi, le mani in grembo a tormentarsi
«mi piace pensare
che mia madre mi abbia chiamato così perché le
piacevano i libri di James Joyce»,
sorrise, rischiando ad alzare lo sguardo verso di lui, e una volta
incrociati i
suoi occhi gelidi, riabbassarlo. «Mi sono sentita come lei
quando me ne sono
andata, sai? Ho continuato a sentire il profumo dei pancakes che ti
cucinavo
ogni mattina sotto il naso per settimane, insieme ad un odore come di
polvere
che mi si era incastrato in gola. Era l’odore del rimorso. Ho
perso tutto per
qualche stupida paura che mi tormenta da quando sono nata: non voglio
rimare
sola, Jared, ma non voglio nemmeno essere un peso per nessuno. Voglio
essere
indipendente, voglio essere me stessa ed essere amata, e so, so che
è quello che
hai fatto tu per tutto il tempo, ma forse la risposta più
semplice è che non so
amare. Non sei mai stato tu il problema, sono sempre stata io. Io che
ero
continuamente triste anche quando ti dicevo che stavo bene, io che
vedevo la
vita perfetta che era riuscita a costruirsi tua madre e avevo voglia di
urlare perché
io non ci sarei mai riuscita. Perché sono una persona
difettosa, non sono fatta
per amare, non sono fatta neppure per essere amata: sono un involucro
vuoto e
non so come riempirmi».
Jared
deglutì. «Io
ci sarei riuscito. Se mi avessi dato del tempo ci sarei riuscito
Eveline». Era così
strano sapere come si chiamava, e ancora più strano sentire
tutte quelle
confessioni da parte sua, lei che non si era quasi mai aperta nemmeno
con lui,
nonostante di notte lo stringesse con le labbra sottili, nonostante
facesse l’amore
con lui e a volte piangesse silenziosamente nell’incavo del
suo collo.
Lei
alzò le
braccia e si sfilò il maglione pesante, rimanendo nuda.
Jared, che non la
vedeva così da tempo, pensò che somigliasse in
tutto per tutto agli alberi di
Berlino: assolutamente senza senso (i rami sottili incastrati
l’uno con l’altro,
qualcuno di più lungo, piegato verso il basso, qualcuno
spinto verso il cielo,
i rami sottili che non si capiva dove volessero andare, come avessero
fatto a
stropicciarsi in quel modo, come avessero fatto a diventare
così scuri, quei
rami che ti chiedevi, in estate, se fossero pieni di fiori o se
rimanessero
così, stanchi e aggrovigliati tutto l’anno),
assolutamente bellissimo. Ci si
possono scrivere poesie, sugli alberi di Berlino. E Jared li aveva
visti e
amati così tante volte che adesso li rivedeva in lei, e li amava ancora di
più, e amava lei di
più. «Fai qualcosa, Jared. Fammi sentire che
esisto ancora, fai l’amore con me»,
gli chiese. Nemmeno le lacrime avevano il coraggio di scendere.
«Avvicinati»,
disse lui «avvicinati, ma non pensare un secondo solo che lo
stia facendo per
te. Non ti darà un solo motivo per amarmi ancora».
Lei
fece dei
passi in avanti, fino a che i palmi delle mani aperti non vennero in
contatto
con il suo petto poi, alzato il mento, appoggiò le labbra su
quelle di lui. «Forse,
alla fine di questa notte, saremo pari», sussurrò.
«Forse
capirò come
cancellarti dalla mia vita», disse lui, le mani strette ai
fianchi di lei così
forte che ne era sicuro, il giorno dopo ve ne sarebbe stata ancora
traccia.
Può
non sembrare
perché fa parecchio schifo, ma questo capitolo è
stato un parto gemellare. Non scrivevo
di questi due personaggi da così tanto tempo che mi
è sembrato di conoscerli
ora per la prima volta, e so che la colpa non è di nessuno
se non mia. Se non
ci state capendo più niente, beh, tutto nella norma,
è sempre così quando avete
a che fare con la sottoscritta. Ma abbiate fede.
Se trovate
assillanti i riferimenti continui a Berlino, posso chiedervi scusa e
giustificarmi immediatamente (come ho già fatto nella nota
all’altra mia
storia, City of Angels): ho trascorso una settimana lì e me
ne sono innamorata.
Degli alberi in particolare (come se non si fosse notato). Penso che
sia la
città perfetta per il dolore di Jared, perché li
la gente si fa gli affari
propri. Ti lascia soffrire in pace, ecco.
Quindi niente,
fatemi sapere se vi va che cosa ne pensate anche se non me lo merito. Deb.