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Autore: sleepingwithghosts    09/03/2014    1 recensioni
«Perché non ti svegli?», sussurrò dopo un po’, in preda all’ansia. Doveva rivedere quegli occhi, doveva porre loro delle domande, doveva capire. Le sfiorò le vene del braccio, di un colore scuro che bene conosceva, e sentì di nuovo quella morsa allo stomaco. Da quanto tempo si drogava? Avrebbe voluto saperlo. Perché lo faceva? Che cosa era successo nella sua vita di tanto tragico da farla rifugiare in quello schifo? Perché voleva uccidersi? Aveva bisogno di risposte. «Svegliati, ti prego», disse in un sospiro, il naso appoggiato sul suo polso. Aveva un buon profumo, pesca forse.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2008.

 

“All along it was a fever, a cold with high-headed believers . I threw my hands in the air I said «show me something». He said «if you dare come a little closer».”

 

«Sei pronto?»

Jared saltellò sul posto, un gesto che gli venne automatico, quel gesto che faceva sempre prima di uscire sul palco a cantare, a suonare, a fare una delle poche cose che sapeva fare. «Certo».

«La gola, fa ancora male?», continuò Shannon.

Se sapessi, Shan, che il dolore che sento in gola non è niente rispetto a quello che sento in ogni piccola parte di me.«È  sopportabile. Vuoi stare tranquillo?»

«Non ce la faccio, come pretendi che io possa stare tranquillo dopo…», non riuscì a terminare la frase, il ricordo era ancora troppo vivido, ben visibile anche con le palpebre chiuse, ben udibile anche con le mani a tappare le orecchie.

Jared scoppiò a ridere. «Puoi dirlo».

«Non ce faccio», ammise Shannon, le spalle incurvate. «Non ce la faccio, mi dispiace».

Jared si voltò verso di lui, puntando gli occhi in quelli del fratello. «Non avrei voluto tu assistessi a quella scena».

«Tu non sei questo».

«Un depresso che non sa se buttare giù un barattolo di sonniferi, che non sa se morire oppure resistere un altro giorno? No, è vero,  io non sono questo». Era quella la scena che si era parata davanti agli occhi di Shannon, qualche tempo prima: lo sapeva bene che non stava bene, lo sapevano bene tutti perché lui proprio non ce la faceva a nascondere il suo dolore. Era così, Jared, un egocentrico egoista. Aveva ostentato la sua sofferenza in modo talmente palese che tutti avevano cominciato a girargli alla larga: non potevano farci niente, lei se n’era andata e se l’era portato via. Che cosa potevano fare tutti loro se non aspettare il suo ritorno? E l’avevano fatto, gli avevano lasciato spazio, l’avevano lasciato fare cazzate, ferirsi, ferire, avevano sentito la sua mancanza e sperato in un suo ritorno alla normalità. Fino a quel giorno, in cui Shannon aveva capito che in suo fratello, di normale, non c’era più nulla. Jared non c’era più, e la paura più grande era quella che forse non sarebbe tornato mai più. Punto quei suoi grandi occhi azzurri in quelli del fratello. «Non ero io, non ero in me, io sono quello che dice agli altri che c’è sempre una via d’uscita, vero? Io sono quello forte, quello che ha aiutato te ad uscire dallo schifo, dalla morte. Quello sono io, non quello che non sa più che cosa fare della propria vita. Sono quello creativo, l’artista, quello che, in un modo o nell’altro, ne esce sempre. E te lo giuro Shannon, ti giuro che ce la sto facendo», una risata amara gli scivolò fra i denti serrati. «Quand’ero a Berlino, prendevo la metro tutti i giorni in uno stato di incoscienza. Ubriaco, gli occhi stanchi, vestito come i drogati che chiedevano l’elemosina in alcune stazioni centrali. Spesso non sapevo nemmeno io dove stessi andando. Prendevo dei treni a caso e mi facevo trasportare in zone della città sconosciute. Camminavo per ore, mi guardavo attorno, gli occhi spalancati per la meraviglia del cielo, degli alberi spogli ma intricati come sembrava intricata la mia anima, i palazzi troppo alti, che a volte dovevo piegare fin troppo la testa per vederne la fine. Un giorno ero nei pressi del muro, dove c’è una delle arene più grandi di tutta la Germania e dev’esserci stato il concerto di qualcuno, perché vi erano persone che intonavano le stesse canzoni, persone con lo stesso logo disegnato sulla maglia, con dei sorrisi che prendevano loro tutti i volti. Ho ricominciato a camminare,  non prestando attenzione all’arte magnifica del muro che mi scorreva affianco, guardando solo davanti a me per evitare di colpire le persone. Arrivai a una stazione e mi ci infilai dentro, deciso a prendere qualcosa da bere in un bar, perché ero troppo sobrio e qualcosa mi aveva turbato lo stato di imperturbabilità in cui ero crollato da tempo. Sai che non ricordo nemmeno quanto ci sono stato in quella città?»

«Tre settimane. Non ti sei fatto sentire per tutto il tempo», rispose Shannon, ingoiando la saliva che le si era formata ascoltando il racconto del fratello. Attendeva solo proseguisse.

«Tre settimane che finirono con quella birra. Mentre camminavo verso la metro che mi avrebbe portato da qualche parte a dimenticare quella che una volta era la mia vita e che forse non sarebbe più tornata ad essere, ho notato un cartello. Ausgang, diceva. Significa uscita in tedesco. E un migliaio di voci hanno cominciato a riempirmi la testa, a rimbombarmi dentro, fino a stordirmi. Ricordo che ho lanciato la bottiglia che tenevo in mano e ho cominciato a correre per liberarmi di quel rumore che mi stava ferendo. Dovevo fermarlo, non riuscivo ad ascoltare le loro migliaia di voci, mi stavano facendo male. Corsi fino a quando non ebbi più fiato e dovetti fermarmi. E non so come, ma riuscii ad ascoltare anche tutte quelle voci. Erano i grazie che avevo sentito nel corso degli anni da parte degli Echelon, i loro “mi avete salvato la vita”. Era un continuo rombo di voci, ma riuscivo a distinguerle una ad una dentro di me, associandole a volti che avevo già visto e che si confondevano l’un l’altro», guardò Shannon e sorrise. «Mi avevano detto così tante volte che avevo salvato la loro vita con la mia, la nostra musica, la mia voce, che avevo finito per crederci. Avevo finito per credere che avrei salvato lei, Shan. Ma infine lei non è mai stata come tutti gli altri. Era l’eccezione alla regola», si fermò per qualche secondo e sospirò, poi ricominciò a parlare. «Comunque quella parola così estranea al mio vocabolario, ausgang, era riuscita a portarmi fuori da tutto il nero che mi circondava. Ero di nuovo in mezzo al mio sogno, con te, Tomo, perfino Matt».

«E sei tornato a casa».

«Sono qui». Shannon fissò i suoi occhi in quelli del fratello per dei secondi che non volevano saperne di scorrere in avanti, vide quell’azzurro che fin da piccolo aveva deciso avrebbe protetto, perché non avrebbe mai dovuto essere troppo lucido, o più scuro del normale, perché quei suoi grandi occhi azzurri avrebbero sempre dovuto rimanere se stessi, puri come puro era l’animo di Jared. L’animo buono di un sognatore. Aveva promesso che mai niente sarebbe riuscito a ferirlo, che ci sarebbe stato lui a proteggerlo, in ogni occasione. E non ci era riuscito. Era arrivata ad odiarla, aveva assorbito in lui anche tutto l’odio che non era riuscito a provare Jared, l’aveva incanalato in se e l’aveva scaricato su Christine, facendole male come avrebbe voluto farne a quella ragazza che era stata la rovina di suo fratello. Di slancio si avvicinò a Jared e lo abbracciò. Non lo faceva spesso, non così per lo meno, ma sapeva che era la cosa giusta da fare. «Lo so che ci sei Shannon. Lo so che fin da quando nostro padre se n’è andato la tua missione è stata quella di proteggermi. Te ne sono grato, sei il fratello migliore che potessi desiderare, ma ora, ti prego, potresti lasciarmi andare? Mi stai soffocando», disse, accennando un colpetto di tosse.

Shannon mollò la presa, un sorriso sulle labbra, e stette ad osservarlo un altro po’ con la testa piegata di lato. «Sei veramente tu?»

Jared annuì. «Sono io, e sono pronto a cantare. Infine sono loro quelli che mi hanno salvato», disse indicando con un movimento del capo il rumore che proveniva al di là del palco, dove centinaia di persone li stavo aspettando trepidanti.

Shannon gli diede una pacca sulla spalla. «Andiamo allora».

 

***

Si buttò su una sedia, la fronte e il collo imperlato di sudore. Tutto sommato, dopo tre mesi di pausa, non se l’era cavata male. Aveva dimenticato alcuni versi, distratto dall’energia che lo circondava, e aveva dovuto fare pause più spesso del solito, in mancanza di fiato. Si sentiva comunque soddisfatto, si sentiva bene. La musica sembrava essere il balsamo giusto per cicatrizzare le sue ferite. Sarebbe guarito. Chiuse gli occhi buttando la testa indietro. Aveva così tanta adrenalina in corpo che avrebbe potuto correre per chilometri senza stancarsi. Riaprì le palpebre, le labbra rivolte verso su, e alzò la testa deciso a raggiungere Shannon e gli altri, ma il sangue gli si gelò nelle vene.

Lei era lì, al limitare della stanza, le braccia lungo i fianchi, le gambe lunghe scoperte, un maglione troppo largo che le cadeva sulle spalle e le copriva appena le cosce. Lo stava guardando, osservò ogni suo minimo movimento, come valutando che cosa stesse pensando e quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Jared irrigidì la mascella e strinse le mani a pungo. Non riusciva a parlare, non riusciva nemmeno a chiedergli che cosa ci facesse lì, con che coraggio fosse lì davanti a lui dopo tutto il male che gli aveva procurato. Lei non sapeva nulla, ma lo vedeva nei suoi occhi che capiva cosa aveva fatto. Lei capiva ma era ugualmente davanti a lui. A fargli male di nuovo? A implorare il suo perdono? Buttò fuori l’aria che aveva trattenuto e lei, in risposta, fece due passi avanti. «Non provare ad avvicinarti», sputò.

«Mi dispiace».

«Sembra che quella sia l’unica frase che tu sappia pronunciare».

«Avevo paura».

«Paura di cosa, di cosa?»

«Avevo paura che un giorno avrei rovinato tutto».

Jared scoppio a ridere, una risata raccapricciante. «La sai l’ultima? Hai già rovinato tutto. Tutto».

«Non mi ami più?», chiese lei, la sofferenza nella voce. Era sempre stata così brava a recitare? Jared non sapeva la risposta. Era sempre stato troppo accecato dell’amore, forse, per vedere che cosa realmente si nascondesse dietro quel volto così pulito, così bello. Non ebbe la forza di rispondere, perché lo sapevano bene entrambi che lui non avrebbe mai smesso di amarla, mai, nemmeno tra cent’anni. Lei gli si avvicinò e le posò una mano sulla guancia poi, con le dita sottili, prese a carezzarla, sentendo il pungere della barba ispida sotto di esse. «Perdonami. Forse non lo puoi capire, o non lo vuoi capire, ma io so che una parte di te conosce il motivo per cui me ne sono andata. Non sei tu, era il mio passato. Era il mio passato che continuava a mettersi tra te e me, tra quello che si era creato fra di noi».

Jared sospirò: il contatto con la pelle di lei gli era mancato così tanto nei mesi in cui era stata distante fino quasi a provarne dolore fisico, e ora che sentiva di nuovo la morbidezza della sua pelle contro la propria, una parte del suo cervello non riusciva a pensare ad altro. In più aveva il suo profumo dentro alle narici, e gli stava distruggendo qualsiasi stabilità recuperata. Sempre lo stesso discorso: era in paradiso eppure le fiamme dell’inferno lo circondavano, bruciandolo. «Cos’è cambiato adesso?», riuscì finalmente a dire.

Lei scosse la testa. «Nulla, non è cambiato nulla».

«Perché sei qui, allora?»

Lei abbassò la testa. «Non è ovvio? Mi mancavi».

Una risata uscì dalle labbra di Jared che, con una mano, la spinse lontano da sé, incurante del male che avrebbe potuto provocarle, fragile com’era. Aveva gli zigomi così marcati che un groppo gli si formò subito dopo nello stomaco: non era ancora capace a farle del male, nonostante quello che lei aveva fatto a lui. «Ti mancavo. Ti mancavo!», aggiunse una seconda volta, urlando. «Devo presupporre che tu mi odia, non vedo altro spiegazione per ciò che stai facendo».

Lei corrucciò la fronte. «Io odiare te? Cosa stai dicendo, Jared. Sai che non è così».

«Io non so proprio un bel niente! Non so nemmeno come si chiama la donna che amo da anni, posso secondo te sapere perché, da un giorno all’altro, abbia deciso di lasciarmi, abbia deciso di frantumarmi il cuore dicendomi che nemmeno io riuscivo a riempirle i suoi vuoti, che le dispiaceva tanto, ma nemmeno io ci riuscivo a farla stare bene? Che cosa ho sbagliato, Mary? Che cosa ti faceva dubitare del mio amore, del fatto che io ti avrei sempre protetta, sempre amata, sempre ascoltata, che ci avrei provato sempre a riempirti, in qualsiasi modo possibile? Ti avrei regalato fiori ogni giorno, se solo ci avessi provato a starmi affianco. Ti avrei dedicato canzoni dolci che nemmeno io sapevo di esser capace a scrivere. Avrei fatto tutto per te, tutto, ma non ero abbastanza. Voglio credere che ci sia qualcuno che possa darti più di quello che ti davo io, qualcuno che ti possa far sentire completa, perché se questo qualcuno non esistesse allora arriverei davvero ad odiarti. Odiare te, non più me, perché io ho fatto tutto quello che potevo fare, ormai ne sono convinto».

«Mi chiamo Eveline», disse lei dopo tempo in cui erano rimasti entrambi in silenzio, i respiri grossi e rumorosi, le mani in grembo a tormentarsi «mi piace pensare che mia madre mi abbia chiamato così perché le piacevano i libri di James Joyce», sorrise, rischiando ad alzare lo sguardo verso di lui, e una volta incrociati i suoi occhi gelidi, riabbassarlo. «Mi sono sentita come lei quando me ne sono andata, sai? Ho continuato a sentire il profumo dei pancakes che ti cucinavo ogni mattina sotto il naso per settimane, insieme ad un odore come di polvere che mi si era incastrato in gola. Era l’odore del rimorso. Ho perso tutto per qualche stupida paura che mi tormenta da quando sono nata: non voglio rimare sola, Jared, ma non voglio nemmeno essere un peso per nessuno. Voglio essere indipendente, voglio essere me stessa ed essere amata, e so, so che è quello che hai fatto tu per tutto il tempo, ma forse la risposta più semplice è che non so amare. Non sei mai stato tu il problema, sono sempre stata io. Io che ero continuamente triste anche quando ti dicevo che stavo bene, io che vedevo la vita perfetta che era riuscita a costruirsi tua madre e avevo voglia di urlare perché io non ci sarei mai riuscita. Perché sono una persona difettosa, non sono fatta per amare, non sono fatta neppure per essere amata: sono un involucro vuoto e non so come riempirmi».

Jared deglutì. «Io ci sarei riuscito. Se mi avessi dato del tempo ci sarei riuscito Eveline». Era così strano sapere come si chiamava, e ancora più strano sentire tutte quelle confessioni da parte sua, lei che non si era quasi mai aperta nemmeno con lui, nonostante di notte lo stringesse con le labbra sottili, nonostante facesse l’amore con lui e a volte piangesse silenziosamente nell’incavo del suo collo.

Lei alzò le braccia e si sfilò il maglione pesante, rimanendo nuda. Jared, che non la vedeva così da tempo, pensò che somigliasse in tutto per tutto agli alberi di Berlino: assolutamente senza senso (i rami sottili incastrati l’uno con l’altro, qualcuno di più lungo, piegato verso il basso, qualcuno spinto verso il cielo, i rami sottili che non si capiva dove volessero andare, come avessero fatto a stropicciarsi in quel modo, come avessero fatto a diventare così scuri, quei rami che ti chiedevi, in estate, se fossero pieni di fiori o se rimanessero così, stanchi e aggrovigliati tutto l’anno), assolutamente bellissimo. Ci si possono scrivere poesie, sugli alberi di Berlino. E Jared li aveva visti e amati così tante volte che adesso li rivedeva in  lei, e li amava ancora di più, e amava lei di più. «Fai qualcosa, Jared. Fammi sentire che esisto ancora, fai l’amore con me», gli chiese. Nemmeno le lacrime avevano il coraggio di scendere.

«Avvicinati», disse lui «avvicinati, ma non pensare un secondo solo che lo stia facendo per te. Non ti darà un solo motivo per amarmi ancora».

Lei fece dei passi in avanti, fino a che i palmi delle mani aperti non vennero in contatto con il suo petto poi, alzato il mento, appoggiò le labbra su quelle di lui. «Forse, alla fine di questa notte, saremo pari», sussurrò.

«Forse capirò come cancellarti dalla mia vita», disse lui, le mani strette ai fianchi di lei così forte che ne era sicuro, il giorno dopo ve ne sarebbe stata ancora traccia.

 

 

 

 

Può non sembrare perché fa parecchio schifo, ma questo capitolo è stato un parto gemellare. Non scrivevo di questi due personaggi da così tanto tempo che mi è sembrato di conoscerli ora per la prima volta, e so che la colpa non è di nessuno se non mia. Se non ci state capendo più niente, beh, tutto nella norma, è sempre così quando avete a che fare con la sottoscritta. Ma abbiate fede.
Se trovate assillanti i riferimenti continui a Berlino, posso chiedervi scusa e giustificarmi immediatamente (come ho già fatto nella nota all’altra mia storia, City of Angels): ho trascorso una settimana lì e me ne sono innamorata. Degli alberi in particolare (come se non si fosse notato). Penso che sia la città perfetta per il dolore di Jared, perché li la gente si fa gli affari propri. Ti lascia soffrire in pace, ecco.
Quindi niente, fatemi sapere se vi va che cosa ne pensate anche se non me lo merito. Deb.

  
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