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Autore: whiteangeljack    10/03/2014    1 recensioni
Serventi, Alonso e Isaia: tre uomini, tre storie, tre figure diverse e fondamentali nella vita di Gabriel che hanno contribuito, ognuna a modo proprio, a tessere le fila del suo destino e a renderlo l'umo che conosciamo.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Gabriel Antinori, Padre Isaia
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Note dell'autrice: bene, prima di lasciarvi alla lettura vorrei dire a mia discolpa che non ho idea di quello che ho scritto. Scherzi a parte, l'idea originale era quella di descrivere tre momenti della vita di Gabriel dal punto di vista di tre personaggi fondamentali della serie. La citazione che trovate sotto è la causa di tutto mentre il primo capitolo della raccolta è incentrato sul tema del passato e in particolare sulla figura di Serventi. Mi sono divertita un po' a giocare con la disposizione del testo e i flashback, quindi spero che si capisca tutto. Anche gli eventi raccontati sono in larga parte frutto della mia immaginazione e delle mie supposizioni da mente bacata. Alle solite un ringraziamento anticipato a chi avrà il buon cuore di leggere tutto e farmi sapere cosa ne pensa.
Buona lettura.



 
“Altre tre donne sedevano in cerchio a uguale distanza, ciascuna sul proprio trono: erano le Moire figlie di Ananke, Lachesi, Cloto e Atropo, vestite di bianco e col capo cinto di bende; sull’armonia delle sirene Lachesi cantava il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro.”
 -Platone, Repubblica (X,135,3)
 
 


Sic volvere Parcas
 
1.Lachesi
 
 
Grida, polvere, fumo. Profili distorti emergono dal nero pece dei vicoli più bui di Roma.
Al rogo! Al rogo! Al rogo!
Un ruggito. Lo strepitio insensato della folla è un ruggito terrificante che riecheggia per tutta la piazza e che si innalza su Roma con la stessa furia di un gigante ferito.
Al rogo!” Ringhia il titano. “Al rogo!” Decreta il banditore, le mani nodose artigliate alla ruvida pergamena del decreto . “Al rogo!” Grida la folla.
Inspiri ma l’aria ha la stessa consistenza e lo stesso tanfo di quell’ipocrisia strisciante che vedi colare dai palazzi. Serri le braccia al petto, il cuore che batte così forte da renderti impossibile la formulazione di qualsiasi pensiero, chiudi gli occhi.
Al rogo!”
 
 
“Papà, non scrive più!”
Apri gli occhi, il tuffo di un gabbiano nel cristallo: “Gabriel..”
Il rogo è spento.
“Gabriel, quante volte devo dirti di non…”
Sospiri, ti passi una mano sul viso. I ricordi piovono dagli affreschi di quella stanza come cenere e d’un tratto trovare la via di fuga da quel labirinto di memorie diventa difficile anche per te.
“…quante volte devo dirti che io non…” la voce ti muore in gola.
 
 
“Io non sono tuo padre e tu non devi chiamarmi così, chiaro?”
La voce dell’uomo che ti ha cresciuto è un’eco ancora chiara nei tuoi ricordi. Un suono che ti raggiunge ogni volta con la stessa violenza di uno schiaffo.
“Ma maestro, io…”
Hai la voce esitante, gli occhi venati di incomprensione, le mani strette alle pagine del manoscritto che stai studiando e lui è lì, le dita sporche di inchiostro puntate sulla stessa riga che stai leggendo.
“Giordano Bruno: fintanto che ho un nome, preferisco che la gente lo usi.” Ti rimbecca. E tu chini il capo, arrossisci. Ma non vuoi tacere, non puoi tacere, non quando quello che vuoi dire è solo il vero. E il vero non va mai taciuto: è stato lui a insegnartelo.
“Sì, maestro ma io…”
Ira. Questo è quello che credi di scorgere sul suo viso quando l’uomo alza il capo con uno scatto e:“Taci!” Esclama. Ma poi la rabbia si eclissa e i suoi lineamenti si addolciscono. Ti scompiglia i capelli con un gesto sbarazzino.
“Dio solo sa quanto il buon vecchio Bonifacio ti rassomigli!”Sospira. E tu lo guardi stupito, con la stessa espressione che hai quando lui si fa serio e inizia ad esporre una delle sue strane teorie.
“Bonifacio?”Lo pungoli, allora.
 “Il candelaio.” Conferma lui. Ma poi la sua espressione muta, come se nell’euforia generale si fosse appena lasciato sfuggire una parola di troppo. Ti guarda negli occhi, sospira e poi aggiunge: “Magari un giorno, quando crescerai, ti spiegherò di chi parlo. E ora riprendi a leggere.”
 
 
Bonifacio.
Sorridi tra te e te, accarezzando i contorni di quel ricordo con tenerezza. Sorridi e Gabriel è ancora lì che ti guarda. Un bambino ignaro, con il suo pennarello a mezz’aria, le labbra appena socchiuse, le sopracciglia corrugate e le guance colorate di verde: lo osservi e vedi questo.
Un bambino. Nient’altro che un bambino come lo eri tu.
“Gabriel, cosa hai fatto con quei pennarelli?”
Colpa, faresti di tutto per scacciar via quel senso di colpa.
E allora inspiri, inspiri come a voler consumare il vuoto immenso di quelle stanze, di quei corridoi, il nulla anelante di quella casa troppo grande per un essere così piccolo.
Inspiri e:“Il verde non scriveva!”
Scuoti il capo: “Dallo a me!”
Prendi il pennarello tra le mani, te lo rigiri per un po’ tra le dita, socchiudi appena gli occhi.
Non dovresti usare i tuoi poteri per questo ma…
“Ecco, vedrai che ora funziona.” Lo rassicuri, restituendoglielo.
Gabriel prende la penna, la guarda ed esita un attimo, perplesso.
“Sicuro?” Sussurra.
“Sicuro.”
 
“Ne siete sicuro?”
La cella in cui l’hanno gettato è uno spoglio stanzone umido, con le pareti luride e il pavimento interrato. Sei aggrappato alle sbarre, percepisci la ruggine e le imperfezioni del ferro graffiarti le dita. L’odore di quel posto ti dà il voltastomaco.
Maestro, ne siete sicuro?”
Hai gli occhi che ti bruciano, il cuore stretto in una morsa ma non vuoi piangere. Ti sforzi di non farlo. E allora: “Maestro…” supplichi, ma non riesci ad aggiungere altro che la sua voce ti interrompe.
“Vattene!”Ruggisce. E il tono che usa è autorevole e tremendo come non l’hai mai sentito. 
“No. Io non vi lascerò morire qui dentro!”
Strattoni le sbarre. Hai gli occhi lucidi, in bilico tra due colori diversi e la tua forza è improvvisamente tale da riuscire persino a piegare quel maledetto ferro.
“Io vi farò uscire di qui!” Ringhi, e la cancellata cigola pericolosamente
“Per amor di Dio, no!”
Le sue mani si posano sulle tue e ti fermano. È allora che lo vedi e la prima impressione che hai è quella di non esserti mai soffermato veramente ad osservarlo. Ha i polsi incatenati, il volto scavato e scarno. I suoi occhi sono quelli di un angelo in bilico sulla linea di caduta.
“Io non voglio fuggire. E non voglio abiurare.”
Il suo tono di voce è pacato e amorevole come lo era durante le vostre lezioni.
Senti le sue dita intrecciarsi alle tue: stai tremando.
“Papà…”
 
“Avevi ragione: il pennarello scrive!”
La voce di Gabriel ti riporta alla realtà. Di nuovo.
“Mi insegni come hai fatto?”
“Maestro, spiegatemi come ci siete riuscito!”
Sorridi.
Fuori dalla finestra l’autunno sta morendo, seppellito sotto un candido manto di neve e ricordi. Se sforzi un po’ la tua immaginazione riesci a vederla, Lachesi, intenta a svolgere con le dita il filo rosso di una nuova storia.
“Non ora Gabriel. Magari quando sarai più grande.”
“Ma io sono già grande!”
“Non abbastanza.”
“Va bene…”
Ha il volto imbronciato. Intuisci che vorrebbe aggiungere qualcosa dal modo in cui ti scruta di sottecchi poco prima di riprendere a disegnare, ma non hai tempo per aggiungere altro che: “Gabriel, sono a casa!”
Clara.
“Gabriel, dove…?”
Hai giusto il tempo di vederla comparire dal corridoio, il cappotto ancora indosso e le buste della spesa in mano, che la sua espressione cambia aspetto e si indurisce.
“Non mi aspettavo di trovarti qui.” Prorompe severa.
Neanche tu te lo aspettavi, ma non dici nulla. Semplicemente scosti la sedia, ti alzi.
“Mamma, guarda che bel disegno mi ha aiutato a fare papà!” Chiosa Gabriel.
Ti irrigidisci.
Sgomento. Non riesci a trovare una definizione più adatta al sentimento che le deforma il viso al solo udire quelle parole. Per un istante Clara Antinori esita, le pupille ridotte a due spilli per la sorpresa. Le buste della spesa le sfuggono dalle mani e cozzano contro il pavimento duro.
Dovresti aiutarla a raccoglierle ma non riesci a muoverti.
È così piccola e indifesa ora, mentre ti guarda.
Una bambina anche lei.
"Papà sta arrivando.”
O forse no.
Clara ti oltrepassa, schiarendosi la voce per rivolgersi nuovamente a Gabriel. “Forse dovresti mettere a posto i colori e andare a lavarti il viso.” Aggiunge, scompigliandogli i capelli. “Guarda che ti sei combinato,” sussurra poi, sfiorandogli il viso e cercando di raggiungere la sua mente, distante.
Ma Gabriel non la sta ascoltando: Gabriel guarda te, cercando nei tuoi occhi le parole giuste da dire. Le risposte che anche tu vorresti avere ma che al momento non hai.
Così annuisci.
“Va bene, mamma.” Ribatte Gabriel, come di riflesso.
Poi scappa via. “Allora ciao…” azzarda, poco prima di svanire nei meandri della villa.
Alle tue spalle riesci a percepire Lachesi smettere di filare il fuso e sorriderti, perfida.
“Ciao.” Biascichi, e ti rendi conto solo ora di aver trattenuto il respiro.
Poi ti volti: “Sarà meglio che vada.”
Clara annuisce: “Ti accompagno.”
 

L’inverno è alle porte, i piedi affondano nel fango con un ansito strozzato. Ti volti verso la villa, illuminata a tratti dalle luci delle sirene. Ti rivedi bambino ad osservare attonito le fiamme eterne di quel rogo, le pupille bucate dall’intensità dello sguardo che il tuo maestro ti rivolge.
“Sic volvere Parcas.” Sembrano scandire le sue labbra in un ultimo, dolente sorriso.
Così vollero le Parche.
 
Riprendi a camminare, inquieto, e Lachesi è lì. Riesci a percepirla, puoi scorgerla, a tratti, nel riflesso fugace di una pozzanghera, nel soffio irato del vento. Le sue dita, gelide e sottili, hanno appena terminato di annodare al  tuo polso uno dei suoi fili e il suo sorriso, beffardo, sembra sfidarti a far meglio di quanto lei non abbia già fatto.
“Perderai.” Continua a ripeterti, ma tu non ti fermi.
Sorridi, stancamente. Sai che ha ragione: intravedi le ambulanze sfrecciare per la strada.
Non c’è nulla da fare, è la fine.
E l’inizio di tutto.
Sopravviverà il migliore.
.
 
 
 

 
  
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