Sempre più semplice, insomma. Dopo secoli che non pensavo a Slam Dunk, rivederlo mi fa di questi effetti. Dovrei prendere appunti per il futuro... Giusto per voi che dovete soportarmi.
Sentence
Hanamici
guardò aspramente il ragazzo di fronte a sé; Per
una volta sveglio, vedeva
tutto più chiaro [ capiva finalmente ].
“Come hai potuto?”, gli domandò,
sussurrando. Come se ogni parola costasse
fatica.
Il ragazzo dai capelli corvini si limitò a fissarlo.
“T-tu non puoi essere così, sei
spregevole!” Cominciò ad urlare il rossino.
Rukawa spostò i suoi occhi glaciali sull’altro e
finalmente mormorò: “Non sono
affari tuoi.”
Era sempre così. Gelido, impassibile.
Non sembrava nemmeno umano, tanto era indifferente; Non cambiava mai
espressione, ne lo vedevi mai emozionato.
Proprio per questo era l’opposto, la
contraria nemesi di Hanamici.
Lui era socievole, allegro, istintivo, passionale; Coltivava
l’idea del momento
fugace, del divertirsi in ogni momento. Eppure ciò non
indicava superficialità,
né felicità, no.
Perché lui aveva sofferto, molto, troppo, e
troppo a lungo. Ora, doveva seguire se stesso.
La loro rivalità, però, andava oltre il carattere
o l’indole; Era qualcosa di
più profondo, di istintivo, quasi.
Riguardava ciò in cui uno eccelleva, e l’altro,
invece falliva miseramente,
sempre.
Lui odiava essere considerato un fallito; Non lo era, non lo era. [ Si
ripeteva, si convinceva ].
E benché avesse l’occasione di mostrarsi
diverso, alle volte, gli rubava il palcoscenico.
[ Si impadroniva della sua occasione di
Essere ].
Lei, l’unica ragazza che gli si era avvicinata,
l’unica che aveva visto al di
là… Del sorriso, della sua stupida, inutile,
maniacale boria.
E lui gliel’aveva portata via. Come tutto.
E senza sfiancarsi, senza ringraziare per
ciò che aveva ottenuto.
Solo con uno sguardo, come se tutto gli
fosse dovuto.
Lei lo amava.
O meglio, amava ciò che si rifletteva
all’esterno.
Ciò che Kaede Rukawa era per il mondo
intero; Slanciato, bello,misterioso.
[ Amarlo intorno, senza sapere che nulla vi
è all’interno. Solo… Il freddo ].
E aveva preso il coraggio.
Confessargli quello che provava perché,
dopotutto, non poteva andare peggio dell’indifferenza che le
mostrava, giorno
dopo giorno.
Eppure lui aveva trovato il modo: l’aveva umiliata.
Doveva esserne felice.
In fondo il suo rifiuto la portava a sé, ma
non era così.
Vederla piangere, disperarsi come se il
cuore le si fosse spaccato… Era atroce.
Avrebbe preferito osservarla da lontano, ma
col cuore al sicuro tra le illusioni d’amore che non erano
per lui.
E alla fine, lo aveva affrontato.
“Mi viene naturale…” ironizzò
il bruno, totalmente indifferente alla sua furia.
Eppure lo vedeva che era diverso. [
Più
consapevole, forse ]. Non solo per la mancanza di insulti o di urla.
[ Di quella
che lui chiamava leggerezza ].
Tuttavia non
gl’ importava; Lui era lì per il basket, solo e
soltanto per quello.
“Hai freddo
per caso?” gli chiese sorridendo. [
Per
la prima volta… ]
Rukawa
non parlava molto.
Rukawa non era molto attivo.
Rukawa non scherzava.
Rukawa non rideva. Mai.
Eppure era un sorriso che si apriva sul
viso. Un infame sorrisetto di derisione.
“Ti
stai prendendo gioco di me?” Voce calma, quasi tranquilla,
incredula. [
Forse delusa ].
Rukawa gli
si avvicinò guardandolo direttamente negli occhi:
“Si.”
Non ci vide più e come suo solito partì in
quarta: afferrò il compagno, il
rivale, con il pugno levato.
“Hana!”
La voce di Haruko lo svegliò, si fermò a pochi
passi dall’altro e la guardò:
”H-Haruko…”
Il suo
Essere, celato a tutti con la baldanza, nel frattempo era cresciuto.
Si era
svegliato e aveva capito: per lei era un amico, un buon amico,
perché lui si
era comportato da tale.
E non aveva
dato una possibilità.
Non si era dato una
possibilità.
La ragazza si avvicinò ai due: Aveva
ancora gli occhi arrossati di pianto, ma
avanzò, decisa come non lo era mai stata, nel silenzio della
palestra. Guardò
Hanamichi, e gli sorrise.
Non era più l’ “Harukina”,
sorella del
capitano. Era di più, molto, molto di più.
E Hanamichi non era la
“scimmia rossa”, re di tanti troni.
Aveva abdicato… Il
tempo dello Shohoku era finito.
Haruko guardò Rukawa,
in attesa.
Il suo solito sguardo inespressivo
la fissava, ma solo ora capiva [ Lui
non la guardava. Non sul serio ].
Guardava qualcosa di estraneo a chiunque, di alieno. Un
ideale, al quale
aveva sacrificato ogni cosa.
Lo avrebbe bruciato, vivo, dall’interno.
Fino a distruggerlo.
Sperò, semplicemente, che almeno ne valesse
la pena.
“ Mi spiace”.
Fece, con
voce ferma, flebile, a malapena udibile.
Un’intonazione
diversa, infinitamente differente eppure uguale a se stessa.
[ Perché,
tutto ad un tratto, il velo era
caduto ].
Rukawa la guardava, e per la prima
volta vide e
capì.
Se Hanamichi
non fosse stato così vicino, nemmeno lo avrebbe intuito [
Un tremore, leggero,
di nervosismo, quasi ]. Lo
guardò, ma
di sottecchi, come quando si assiste a qualcosa che non si dovrebbe
conoscere.
E al richiamò di Haruko, faticò a girargli
le spalle.
“ Ci si vede, volpe. “
Salutò, ma con un
sussurro, quasi con timore. [ Perché lasciare il futuro che
avrebbe potuto
essere, è sempre difficile .]
Lei, poi, era cambiata? Tutto ciò, l’aveva
cambiata?
“Corriamo…”
Forse sì. Ma
col tempo, lo avrebbe capito.
Senza alcun altro sguardo che
[ lo temeva, lo
sperava ] avrebbe potuto indurlo a restare, si chiuse la porta alla
spalle.
La palla
rossa, la sua vita, era lì.
Salta, pronto per il tiro, la
mano trema
leggermente…
Centra il tabellone, colpendo il cesto, le
palle si rovesciano per il campo.
La squadra,
quei compagni tanto indesiderati e tollerati per anni.
Tolleranza
che si era trasformata, nel tempo, con impercettibile pazienza. In
qualcosa di
più.
[ Di più forte,
più profondo o, semplicemente,
più interessante ].
E
ora, senza
giustificazioni, doveva affrontare il mondo.
Non più era
poco cordiale per colpa di Hanamichi.
Non più era
stacanovista per colpa di Akagi.
Non più era
veloce in campo [ lasciando tutti dietro ] per colpa di Miaghi.
Non si
allenava ore e ore per sfidare Mitsui. [ Non più ].
Senza
maschere, senza veli, senza scuse.
Che si
piacesse o meno era irrilevante. Ciò che [ solo ] contava
era il suo Ideale.
Mortificò il
corpo e la mente, fino a quando le forze che lo reggevano, defluirono
via.
E quando
uscì dalla palestra [ quella sera stessa ], si sorprese ad
farsi una promessa.
Così come
accadde nei mesi a seguire.
Ma non era
per loro.
[ No, lui
non si puniva per quello che aveva perso. Ne era sicuro. ]