Atmosfera sbiadita, poi, la sua stessa voce.
“Sasha, smettila, davvero, smettila!”
Sasha aveva un’altra volta cominciato ad infastidire Igel con la punta del compasso. Igel era abituata al trambusto giornaliero, ma ogni volta che si ritrovava a subire quella persecuzione insensata si chiedeva il motivo per cui una dodicenne non potesse avere come unico amico un randagio incontrato per la strada di casa. Amico che aveva, in effetti, e che, per fortuna, non poteva parlare.
“Igel, Igel, Igel! Cos’è questo comportamento così remissivo? Vuoi fare qualcosa, Igel?”, provocò Sasha.
Igel si girò verso il suo banco di scatto.
“Se cominciassi a reagire ogni volta che fai tutta questa tarantella, secondo te quella con i lividi, tra le due, chi sarebbe?!” avrebbe voluto dirle, ma non le uscì un singolo suono dalla bocca, a parte il solito mugugno.
“Cosa, Igel, cosa?”, rise Sasha.
Igel si alzò di colpo, trattenne le lacrime e andò a sistemarsi vicino alla porta d’ingresso della classe.
“Devo finire con l’odiare anche questa mezz’ora di intervallo”, disse a bassa voce.
La sua attenzione si spostò, come accadeva spesso, su quel che era intento a fare Verloren, che in quel momento aveva costruito la solita catapulta costituita da pastelli, e infastidiva Hure dall’altra parte della classe, la quale non lo degnò neanche di uno sguardo.
“Dieci punti. Hai lo sguardo più concentrato del mondo anche quando fai queste cose”, rise Igel. Non le riusciva quasi mai di parlare con Verloren, per questo spesso le frasi si concludevano con un rimprovero , quasi come se fossero rivolte ad un estraneo “Comunque, lascia stare Hure.”
Verloren si limitò a destreggiarsi in qualche smorfia facciale, poi disse “Dopo che abbiamo?”
“Ora buca, Verlo.”
“E perché non siamo a casa?”
“Che hai da fare a casa?”
“Non lo so, di preciso, come non so che sto facendo qui.”
Igel interruppe la discussione e osservò le persone che passavano per il corridoio. La infastidiva parlare con una persona che stimava per non sapeva di preciso quale ragione, perché si sentiva sempre la stupida della situazione.
“Se solo sapesse”, pensò .
Verloren si era alzato, nel frattempo, e aveva cominciato ad elucubrare qualcosa assieme alle uniche persone con cui passava il tempo in classe: Fugsam e Schulter.
Loro tre erano le persone con cui la ragazza si trovava meglio.
Il motivo era molto semplice: le davano l’impressione di persone con cui si potesse parlare non delle solite banalità, ma con cui fare discorsi davvero interessanti.
Tuttavia, come faceva sempre, non aveva mai provato ad approfondirne più di tanto la conoscenza, perché si sentiva vincolata dalle sue amicizie, le quali erano ben diverse da un trio di ragazzi silenziosi con poco riguardo per gli altri.
Le rare volte in cui si scambiavano qualche battuta, erano momenti che si imprimevano nei ricordi di Igel con molta piacevolezza.
Le capitava quando era intenta a pensare intensamente, che Verloren si avvicinava per una sciocchezza e le facesse domande stupide, la maggior parte delle quali erano osservazioni sul suo pessimo umore quotidiano.
Le giornate scolastiche proseguivano in quel modo: Igel cercava di rimanere nell’ombra, ma aveva finito col legare con persone con cui poteva passare i finesettimana, in modo tale da non farsi infastidire dalla madre che altrimenti l’avrebbe cercata di coinvolgere da qualche improponibile figlia di amica di famiglia.
Quando la giornata scolastica finì, Igel si diresse in fretta e furia verso l’uscita della scuola e arrivò stremata nei pressi del parcheggio del comune.
“Almeno qui non posso essere disturbata da nessuno.”, pensò.
Aspettava sempre un po’, prima di tornare a casa, in questo modo aveva l’opportunità di fare il percorso da sola quando voleva.
Distesa in cima ad un muretto, intenta ad osservare i rami di un salice piangente che la copriva dalla visuale delle persone che si allontanavano dal plesso, canticchiava a bassa voce una canzone cui era molto affezionata da alcuni mesi:
“Sarà un’avventura, vero? I sogni sono le cose che ci danno forza, non sono per gli altri.”
Poi, in silenzio, cominciò a monitorare il suo respiro.
“Salice, salice, che noia, salice.”
Si sedette tranquilla, poi, d’improvviso, notò nelle vicinanze una capigliatura che gli era piuttosto familiare.
“Verloren!”, esclamò, e si coprì immediatamente la bocca con entrambe le mani.
Verloren si incamminò pacatamente verso di lei.
“Ige.”, il ragazzo disse il suo nome senza una particolare nota vocale: probabilmente, stava pensando a qualcos’altro, pensò Igel, dato che i suoi occhi si erano rivolti altrove un millisecondo più tardi.
Convinzione che venne tradita quando Verloren cominciò a parlare: “Tipo… tipo posto segreto.”
La ragazza lo osservò per qualche secondo dritto negli occhi, poi sbiascicò: “I-ironia? Che vuoi?”, Verloren sorrise con fare nervoso.
Il vento soffiava leggero tra le foglie.
“Quando sei nervosa, ti mordicchi le mani.”
Igel si levò immediatamente da bocca la mano destra, storpiò le labbra e fece finta di nulla.
“Perché?”, disse solamente Verloren, osservandola inclinando il capo.
“…che vuoi, è istintivo.”
“No, non intendevo quello. Perché sei nervosa?”
Dall’orecchio destro, Igel sentì un breve fischio, che le attraversò il cranio per poi arrestarsi dopo qualche secondo. Le succedeva quando sentiva cose che non credeva avrebbe mai sentito.
“È in alto…”
“Come?”
“Qui, è in alto, ho sempre paura di scendere.”, riuscì a dire, con calma.
“Ah. Vuoi una mano?”
“No! No che non voglio una mano, ce la faccio benissimo da sola!”, disse scendendo con un balzo subito dopo.
Igel si svegliò di colpo: la madre aveva aperto la persiana e la luce era entrata bruscamente nella stanza.
“Vai, su, il caffè è sul comodino.”, disse la madre.
“Salutamelo.”, rispose Igel rannicchiandosi sotto le coperte.
Perché sognare una scena avvenuta tre anni prima proprio in quel momento?
Le vennero i brividi, scese dal letto e prese in fretta e furia il necessario dall’armadio esclamando “Tornerò, madre, tornerò.”
“Immagino sia una minaccia”, rispose la madre.