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Autore: holls    15/03/2014    7 recensioni
Gabriel aprì gli occhi.
In un primo momento gli sembrò tutto sfocato, i contorni sdoppiati e indecifrabili; ma, dopo qualche secondo di smarrimento, ogni cosa acquistò nitidezza.
Gli unicorni, qualche chiazza viola e pure un prato d’erba.

... Ma non era rinchiuso in una cella lurida e fredda?
***
Questa storia partecipa al contest "Frasette Ganze" indetto da Princess L
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La prigione dell’unicorno
 


Gabriel aprì gli occhi.
In un primo momento gli sembrò tutto sfocato, i contorni sdoppiati e indecifrabili; ma, dopo qualche secondo di smarrimento, ogni cosa acquistò nitidezza.
Gli unicorni, qualche chiazza viola e pure un prato d’erba.
Sbatté le palpebre un paio di volte e, davanti a lui, ritrovò il muro scrostato a cui si era affezionato, il letto logoro e disfatto e la luce filtrata da quelle sbarre da cui sarebbe passato a malapena un gatto.
Riaprì ancora gli occhi e trovò un albero di noci, sterpaglie in lontananza e di nuovo le chiazze viola. Un mondo sconfinato e luminoso che aspettava soltanto lui.
E allora si alzò, cominciò a vorticare per la stanza, alla ricerca di spazi immensi che esistevano solo nella sua testa.
E mentre i suoi piedi schiacciavano quell’erba inspiegabilmente gelida, il suo tallone calpestò un ciottolo duro e spigoloso.
Click.
Una voce.
« Ciao, Gabriel. »
Aveva pronunciato il suo nome con la erre moscia. E un unicorno correva accanto all’albero di noci. Non c’era nessun altro.
« Ciao. Chi sei? »
« Non mi riconosci? », rispose la voce.
« No. », disse lui a sua volta.
Eppure, quella voce aveva qualcosa di familiare, un’intonazione e un timbro che aveva già sentito da qualche parte.
« Come stai, Gabriel? »
L’unicorno stava fuggendo via. Gabriel gli corse dietro.
« Aspetta, aspetta! Oh, è andato. »
Si ricordo che la voce nella sua testa gli aveva fatto una domanda.
« L’unicorno è scap-- »
« Immaginavo che tu non stessi bene. »
Gabriel si guardò intorno, alla ricerca dell’uomo con la erre moscia che non gli aveva fatto finire la frase. Poi si accorse che, anche lui, non aveva pronunciato correttamente ‘unicorno’.
Unicovno.
Non c’era nessuno, in mezzo al prato. E nemmeno nella cella lurida.
La voce non gli diede tempo di rispondere in alcun modo e proseguì.
« Sì, anche io ho visto giorni migliori. »
Gabriel si stizzì. Aveva perso l’unicorno e la voce non lo faceva nemmeno parlare.
« Io non ti ho detto niente, signor erre moscia. Perché non ti fai vedere? »
« Davvero non mi riconosci? »
Gabriel batté un piede in terra.
« Basta con queste domande sceme! Rispondi alle mie, piutt-- »
Il prato d’erba scomparve e diventò una distesa di sterpaglie. Qualcuno, forse, ne aveva bruciata un po’. Sennò cos’era quel fumo in lontananza?
« Da quanto tempo ci conosciamo noi due, Gabriel? »
« Ma che domanda è, signor erre moscia? Mi hai proprio stancato. »
Ci fu una pausa gracchiante. Un suono ovattato, in lontananza. Un fruscio.
« Se non sai rispondere, Gabriel, vuol dire che sei davvero fottuto.»
Voleva rispondere, eccome se lo voleva! Voleva proprio dare una lezione a quel damerino che non lo faceva parlare.
Ma la porta della cella si spalancò. Entrarono due uomini col camice bianco. La sterpaglia in fiamme davanti a lui scomparve, per lasciare posto solo alla sua lurida e fredda cella.
Lo presero sotto braccio, lo trascinarono via, mentre lui batteva i piedi e gridava di lasciarlo stare.
La porta si chiuse alle sue spalle e la cella fu immersa in un innaturale silenzio.
E poi, appena udibile, la voce sospirò.
Un sospiro lungo, grave, di quelli penosi.
« Se non sai più rispondere, Gabriel, vuol dire che sono fottuto. »
La voce fece una pausa.
« Se non so più rispondere, Gabriel, vuol dire che sono impazzito davvero. »
La bobina del lato A raggiunse la fine.
Il mangianastri fermò la riproduzione.
Click.
   
 
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