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Autore: _Blanca_    16/03/2014    1 recensioni
| Spoiler VIII Stagione |
Jane Leigh, ragazza inglese trasferita nel nord della Pennsylvania, trascorre le sue giornate nel negozio di libri della signora Sternwood, dove lavora come commessa. Ma quando la piccola libreria diventa il palcoscenico di una morte inspiegabile, Jane dovrà vedersela con due cacciatori di mostri e un doppio mistero da sbrogliare.
"Jane si volta, rallentata da un vago senso di panico. I legittimi occupanti della camera sono sulla soglia. La stanno guardando male, ma almeno non ci sono fucili spianati nelle vicinanze. La donna si schiarisce la voce, rilassa le spalle e chiude il diario, avvicinandolo al petto. Chiama a raccolta tutta la sua capacità di affabile chiacchiericcio: «Oh, be', questo sarebbe il momento di una frase brillante per... convincervi che non sto facendo quello che sembra che io stia facendo. Ma non riesco a pensare a niente del genere. Anche perché sto facendo esattamente quello che sembra che io stia facendo, quindi... oh, smettetela con le occhiatacce. Qui siete voi quelli che vanno in giro a farsi passare per agenti federali. Io ho solo forzato una serratura. Che, per la cronaca, era una serratura da quattro soldi»."
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Ottava stagione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Hardy Boys & Nancy Drew '
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part 1
N/A. Chiedo venia per il mostruoso ritardo, ma studio disperato e tirocinio serale mi succhiano via tempo, energie mentali e forza vitale. Insomma, soffrirei di meno se dovessi chiuderle io le porte dell'Inferno, ma alla fine mi sono concessa una giornata libera e ho (anche) sistemato il capitolo. Sperando di non aver combinato una schifezza, ecco a voi il gran (quasi) finale! (ノ◕ヮ◕)ノ*:・゚✧

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x










Parte settima










Jane racimola un po' di coraggio e oltrepassa la soglia. La stanza è piccola, bassa e arredata: un baule e uno scrittoio vicino alla finestra; un mobile da toeletta in un angolo; una lunga poltrona trapuntata di velluto bianco al centro. Vecchi libri occupano gli scaffali più alti di un mobile pieno di ante e di cassetti. Una disciplinata folla di quadretti e acquarelli punteggia le pareti. Vezzosi pavoni, blu e verdi, emergono dallo sfondo niveo della carta da parati. Ciò che stupisce Jane non è la presenza di arredi nell'ultima stanza di una polverosa casa abbandonata da decenni. Non è nemmeno il fatto che i mobili — eleganti, scolpiti in linee dolcemente ricurve, impreziositi da delicati intarsi floreali e guarnizioni in bronzo — siano antichi. La vera sorpresa è la lucidità del legno, è il pavimento spazzato, è il profumo di fiori.
E questo perché sopra lo scrittoio, in un vaso colmo d'acqua, riposa un mazzolino di freschi narcisi autunnali: fiori minuti, bianchi come fiocchi di neve.
La stanza è abitata.
Riguardo all'identità dell'abitante, Jane formula un'ipotesi inquietantemente plausibile, mentre la sensazione d'essere spiata diventa tanto nitida da farle pizzicare la nuca.
Eppure, il grosso specchio sopra la teoletta continua a restituirle il proprio solitario riflesso: una sagoma scura nel candore funereo e straniante delle quattro pareti.
Jane guarda alle proprie spalle. Non c'è nessuno. Ha lasciato la porta spalancata e il corridoio è deserto.
Ma dita fredde e invisibili le stanno accarezzando una guancia.
Tesa com'è, la ragazza annaspa in un attimo di terrore... prima di comprendere che la causa del suo principio d'infarto non è un alito sovrannaturale.
È la corrente tra la porta e lo spiraglio aperto della finestra a ghiogliottina: lo spostamento d'aria gonfia la tenda, leggera e quanto un velo nuziale.
Jane si riprende e va vicino alla toeletta. Il piano è occupato da fotografie incorniciate e da piccoli ritratti realizzati a mano. Sono così numerosi da essere stati disposti in tre file, in modo da disegnare una sorta di ventaglio. Il soggetto delle immagini è sempre lo stesso: una figura femminile con capelli neri e occhi chiari. Di ritratto in ritratto, di foto in foto, cambia l'abbigliamento, la capigliatura, il luogo, le persone che l'accompagnano: sono chiaramente immagini di epoche differenti.
Recuperato il cellulare, Jane indirizza il bagliore del display verso le cornici della prima fila.
Aguzza lo sguardo e aggrotta la fronte.
Non riesce a capire: si tratta della medesima donna o sono solo persone molto somiglianti? È forse una lunga generazione di madri e figlie?
I volti, per quanto simili, non le sembrano uguali. Coglie minuscole ma innegabili differenze: la forma del viso e degli occhi, la linea del naso e della bocca.
In una fotografia, di bianco e nero sbiadito, Jane riconosce la Yuki-onna. Ha lo sguardo vuoto, serio e distante delle donnine degli inizi del Novecento. Dritta come un pioppo, vitino da vespa e una gonfia acconciatura raccolta, posa sullo sfondo di un lussuoso salone dipinto, in un abito da sera con una profonda scollatura. Osservando le altre immagini, Jane intuisce che la meno recente dev'essere una piccola miniatura su avorio: ritrae una donna con un nastro blu tra i fitti riccioli scuri. Un altro nastro blu le cinge la vita del vestito, di mussola bianca, appena sotto al seno. Accanto alla miniatura, un dipinto a olio: un'altra sconosciuta, vestita d'azzurro, seduta all'ombra di un albero, immersa nell'atmosfera brumosa di una campagna. Il ritratto abbonda di particolari: i riflessi argentati delle pieghe della gonna, le increspature dello stretto corpino, le piume sul cappellino di feltro. Ma tra la moltitudine di immagini, due foto catturano con prepotenza l'attenzione di Jane. Nel mondo tinto di seppia del dagherrotipo, la solita figura di donna siede in un cupo salottino vittoriano: i capelli lisci severamenti spartiti sul capo e la mastodontica gonna che fagocita il sedile della poltrona. Ha una bambina sulle ginocchia: una creaturina di quattro o cinque anni al massimo, infagottata di un abitino tutto merletti e balze. Il visetto, tondo e imbronciato, è contornato da una cascata di boccoli chiari. Nella seconda foto, la bambina è sola e sempre sulla medesima poltroncina. Sembra più grande, stringe una bambola al petto e ha gli occhi chiusi.
Jane non s'illude che qualcuno abbia scattato una fotografia a una bambina addormentata.
Con un senso di disagio sempre più pressante, drizza la schiena e fa un passo indietro, sfiorando il bracciolo della sedia con il dorso della mano fasciata.
E nota adesso che uno dei cassetti della toeletta sporge in avanti di qualche millimetro, come se non fosse stato richiuso bene.
La ragazza è restia a toccare qualsiasi cosa, in quello strano posto, ma si sforza di superare l'avversione. Allunga il braccio, con lo scatto incerto di chi teme di venir morso da un animale inquieto, e fa scivolare le dita sotto l'incavo del pomello a forma di conchiglia. Apre il cassetto per metà — è più pesante di quanto si aspettasse — e ne tira fuori l'unico oggetto all'interno: una cartellina rilegata in pelle e gonfia di fogli.
Jane esita, in bilico tra ansia e morbosa curiosità. Alla fine, si sposta verso lo scrittoio e mette giù la cartellina.
I fogli sono sottili e per la gran parte macchiati e ingialliti dal tempo. Foglio dopo foglio, Jane passa in rassegna vedute campestri, scorci di città, disparati ritratti di sconosciuti. Alcuni sono di schizzi incompiuti, altri sono dettagliatissimi, ma tutti palesemente opera della stessa mano. Nessuno dei ritratti è accompagnato da un nome, anche se ben presto appare chiaro che molte sono effigi della bambina morta. Per ogni ogni paesaggio, al contrario, qualcuno non ha dimenticato di appuntare una data e un nome sull'angolo di ciascuna pagina.
Vienna, 1907. Bristol, 1878. Parigi, 1810. Amiens, 1823. Londra, 1850. Portsmouth, 1937.
Jane si sofferma sull'immagine di una colossale colonna che sorregge una riconoscibilissima statua di George Washington: Baltimora, 1911.
Inarca un sopracciglio, stupita dalla precisione delle proprie deduzioni.
Poi passa al disegno successivo: un grazioso edificio in stile coloniale. Ha solo il tempo di leggere la parola Concord, prima di vedere qualcosa che la lascia completamente raggelata e leggermente inorridita. Sollevando quel foglio, ha scoperto il sottostante. Un altro ritratto. Ed è il suo. È lei la giovane donna che la fissa dalla superficie della pagina. Suoi sono i lineamenti del volto rotondo — tracciato con il rugginoso rosso di una sanguigna. Suoi gli occhi a mandorla dall'espressione risoluta. Sua la bocca piccola e regolare. Suoi i folti capelli.
Per un lungo attimo, Jane guarda il ritratto senza osare muovere un muscolo.
Batte le palpebre.
Lo sguardo guizza di nuovo al foglio tra le sue mani.
Concord, 1964.
«Concord» mormora. «Concord... è... la capitale... del New Hamsphire».
Jane lascia cadere il foglio, corre verso il mobile della toeletta, fa vagare la luce tra le cornici.
Il suo stomaco si contrae in un nodo quando allunga la mano sana per sollevare una fotografia, rimasta letteralmente nascosta dal piccolo ritratto a olio.
La fotografia è in bianco e nero ma molto più nitida delle altre, perché di epoca più recente. Dev'essere stata scattata in un un parco o in un giardino: la donna è seduta su di un telo steso sull'erba, nel bel mezzo di un pic nic, e rivolge uno sguardo malizioso e un sorriso civettuolo all'obiettivo. Ha un look degno di una modella degli anni Sessanta: occhi grandi, dal taglio felino, pesantemente truccati; una nuvola di capelli neri e cotonati a contornarle il volto dolce, a forma di cuore, benedetto da splendidi zigomi.
Jane conosce quella donna.
Ha visto una fotografia pressoché identica in casa della signora Sternwood.
Quella donna è Virginia Sternwood.
Da giovane. 
La signora Sternwood alla quale Jane ha chiesto del ritratto poco prima di ricevere il messaggio 'la curiosità uccise il gatto'.
La signora Sternwood che era presente quando è morto Donny Allen.
La signora Sternwood che tanto ama gli oggetti dei secoli passati.
Pietrificata dalle sue stesse idee, Jane scorge con la coda dell'occhio la porta ruotare sui cardini e chiudersi piano.
Ora sa che non è colpa della corrente d'aria.
E lo sa perché, nel momento in cui solleva lo sguardo, nello specchio non è più sola.
 

* * *


La pioggia picchia forte sopra il tettuccio dell'Impala. L'automobile è parcheggiata lungo il marciapiede, non lontana dall'entrata del Red Creek. Nonostante il locale abbia aperto da poco, dietro ai vetri s'intravede già un discreto via vai di sagome: un ragazzo con un ombrello blu entra proprio ora, dopo aver attraversato la strada di corsa, passando a qualche metro dal muso dell'Impala.
«Be', ora ci serve un piano» butta lì Dean. Continua a rigirarsi tra le mani, e davanti al viso, il paletto appuntito ricavato dal ramo di una delle querce del cimitero.
Un'altra mezza dozzina di paletti sono nella sacca, gettata sul sedile posteriore.
Sam a mala pena gli presta ascolto. Tiene il portatile sulle ginocchia: non gli piace quel che sta vedendo sullo schermo. Per un po', ha cercato inutilmente informazioni sulla stampa dell'airone e sulla sua ex-proprietaria. Poi, ha avuto l'intuizione di cambiare soggetto, digitando un nome e un cognome nella barra di ricerca.
«Dean...»
«Cosa?»
«Jane ha detto che la signora Sternwood abitava nel New Hampshire, quando il marito è scomparso. Ed è stato più di trenta anni fa».
«Lo so. C'ero anche io quando l'ha detto».
«Guarda qui».
Sam gira il laptop verso Dean.
Gli sta mostrando la prima pagina di un vecchio giornale quotidiano.
Sotto i caratteri cubitali della testata — Concord Monitor — la data riportata è quella del 16 Gennaio 1978. L'articolo d'apertura grida qualcosa sul maltempo, mentre il titolo della spalla recita: Prima vittima del gelo. Uomo trovato morto nella propria auto.
«Jonathan Sternwood non è scomparso» spiega Sam. «È seppellito nell'Old North Cemetery di Concord: ho trovato il suo necrologio. Fu dichiarato morto per assideramento e l'auto ritrovata sul ciglio di una strada, appena fuori città. Ma, stando all'articolo, non hanno mai capito perché l'uomo si fosse fermato lì. Non c'erano guasti nell'automobile e la strada era sgombra dalla neve».
«E anni dopo la moglie racconta di non saperne nulla».
«Quando le ho parlato, la signora Sternwood non ha fatto domande sulla morte di Allen. Ho pensato che fosse ancora troppo stanca e sconvolta per affrontare il discorso, ma...».
«Ma "mai sottovalutare le vecchiette"».
Dean non perde tempo: getta il legno sul sedile posteriore, gira la chiave e fa partire il motore.


* * *


Lentamente, Jane mette giù la fotografia e si volta.
L'altra persona nella stanza è la signora Sternwood.
È in piedi, accanto alla finestra.
Ma non è nella forma dell'anziana libraia.
Qui c'è la ragazza della foto: una bellezza algida e delicata, come un silenzioso paesaggio innevato. E con occhi dell'azzurro più vivido e della tristezza più inconsolabile che Jane abbia mai visto. Non è molto alta, ma ha una corporatura snella e armonica, e veste di bianco — ma il bianco appare quasi sporco in confronto all'incarnato diafano della pelle. L'abito le stringe la vita con una larga fascia e lascia le braccia scoperte. I capelli, lisci e nerissimi, cadono sulla spalla nuda come una pennellata di inchiostro nero. Dietro di lei, la tenda si agitano appena, come un sospiro trattenuto
«Jane». La voce è giovane, il timbro tanto carezzevole quanto intriso di vuoto sconforto. «Non avere paura».
E Jane non ne ha. È troppo stordita per provare paura. La sua cara, gentile e affettuosa signora Sternwood è la Yuki-onna. Tutta l'angoscia e la confusione delle ultime ore sono spazzate via da un flutto di avvilimento. Con la schiena pressata contro il bordo del ripiano, serra le mani attorno al cellulare fino a sentire la dura plastica spingere con la carne. Ricaccia indietro la voglia di piangere e atteggia il viso nell'espressione più ferma, ma non tracotante, che riesca a simulare.
«Quindi... signora Sternwood... o C.B.W... o qualunque sia il tuo nome... questo è il tuo aspetto reale? O è solo uno delle tante facce?».
La donna delle nevi viene avanti, senza dire nulla. È scalza, i suoi passi non fanno rumore. L'orlo della gonna, fatta di pieghe leggere, lambisce i polpacci sottili.
Continua ad avvicinarsi e Jane si sposta di lato, finendo con l'urtare il ginocchio contro un angolo della lunga poltrona.
Raggiunto il mobile della toeletta, la Yuki-onna appoggia entrambe le mani alla spalliera della sedia. Stringe le dita sottili sul legno e si curva in avanti, come sotto il peso di una stanchezza improvvisa. O di una fitta di dolore. «Jane...» mormora, a testa bassa. «Io sono stata costretta a uccidere quel criminale. Per proteggerti. Se si fosse limitato a prendere i soldi, io non avrei mai... ma avrebbe fatto del male a te». Poi, come se aver messo insieme quelle poche frasi le avesse richiesto uno sforzo che non riesce più a sostenere, fa una pausa. Il suo respiro somiglia a un flebile verso accorato. Socchiude le palpebre, abbassando le lucide ciglia nere. «E tutto ciò che ho fatto dalla sera della rapina, l'ho fatto per tenere te al sicuro. Ma ho commesso un errore... Non era così che doveva andare e io... io ero così spaventata».
Jane si sforza di capire. Fissa il profilo della Yuki-onna e la sua mente è un impasto che si rifiuta di prendere la forma di quesiti da esporre a voce alta. Eppure, nel subbuglio generale, non dimentica un dettaglio importante: è qui, da sola, con la donna delle neve e un cellulare mal funzionante come unico legame con Sam e Dean, i quali la credono da tutt'altra parte. Adocchia la porta chiusa: anche dal basso del propria esperienza, può immaginare il possibile brutto segno rappresentato da una via d'uscita sbarrata. Pensa alla pistola dietro alla schiena, ma sa di aver bisogno di un'uscita d'emergenza meno temporanea.
Torna con gli occhi sulla Yuki-onna.
Deglutisce a forza, rendendosi conto di avere la gola secca e la bocca arsa.
«Spiegati» sillaba. «Che... che cos'è che avresti fatto... esattamente?»
La Yuki-onna sta fissando la sé stessa nello specchio.
«Ieri pomeriggio, vi ho visti nella libreria. Tu. E i due cacciatori. È stato un caso. Non sapevo foste lì. Sono entrata passando dal retro e davanti alla porta aperta ho creduto che qualche altro ladro fosse sgattaiolato dentro».
Jane l'ascolta, senza mai distogliere lo sguardo. Le mani, ancora strette attorno al cellulare, sono premute al petto in un gesto che è la perfetta rappresentazione di uno stupito timore.
E che, sopratutto, le permette di avviare una chiamata senza dare nell'occhio.
Per una volta, Jane è lieta di essere una di quelle persone che dimenticano sistematicamente il telefono in modalità silenziosa.
Un impercettibile movimento del pollice destro e recupera l'ultimo numero utilizzato: il cellulare di Sam.
Seleziona la cornetta verde.
Inizia a pregare.
«...così ho chiuso la porta a chiave» sta dicendo la Yuki-onna. «E stavo per chiamare la polizia, quando vi ho sentito discutere. Eravate convinti che Allen fosse stato ucciso da un fantasma! Allora, invece di restarmene da parte e sperare che non trovaste questo posto, ho pensato che potevo eliminare qualsiasi possibilità di venir scoperta. Potevo darvi il fantasma e farvi credere di averlo mandato via. I cacciatori ci avrebbero lasciato in pace e noi due avremmo continuato a vivere tranquille. E il ragazzo...  non l'ho colpito con il desiderio di fargli davvero del male. È stata tutta una messa in scena».
Jane è allibita.
«E... e la scorsa notte, a casa mia? Anche quella è stata tutta una messa in scena?»
«Con le tue domande, ho capito che ti eri messa in testa di cercare ancora. E tu sei testarda. Prima o poi, avresti capito qualcosa. Dovevo farti desistere da subito».
«Terrorizzandomi a morte?»
Jane perde il controllo della propria voce: il tono è più stridulo e sfiatato di quanto avesse voluto.
La voce della Yuki-onna, invece, resta un mormorio spossato.
«Esiste metodo più efficace della paura per tenere i bambini lontani dai pericoli? Ma tu sei tornata dai cacciatori, non è vero? Quando mi hai telefonato, questa mattina, ho sentito le loro voci in sottofondo».
«E che altro credevi avrei fatto?»
«Prestato ascolto al mio consiglio».
«E l'SMS di poco fa? Che cosa mi avresti detto?»
«L'unica cosa rimasta da fare... ti avrei raccontato io la storia del ritratto. Una storia inventata, certo, ma avrebbe accontentato la tua curiosità».
C'è una lunga pausa, riempita solo dal malinconico scroscio della pioggia. La luce nella stanza si è fatta più debole e più grigia. La Yuki-onna è bianca e immobile come una statua di cera; lo sguardo assente rivolto alle immagini della sue vite passate. Jane, quasi senza accorgersene, si ritrova seduta sul bordo della poltrona. Lascia cadere il cellulare in grembo, coprendo il display con la mano fasciata. Si affanna a rimettere in ordine i pensieri, rivivendo quanto accaduto nelle ultime ore con la consapevolezza che è stata tutta una messa in scena.
Solleva piano il volto e osserva di nuovo la stanza.
«Questi oggetti ti appartengono?» chiede, in un sussurro retorico.
«Sì».
«E perché... perché non li nascondi in casa tua? Perché proprio quassù, in una stanza all'ultimo piano della libreria?».  
«Perché qui non viene mai nessuno».
Jane — che ancora si guarda attorno — finalmente lo vede. Il dettaglio insignificante. L'ultimo pezzo del puzzle. Sulla stessa parete alla quale è addossato il mobile della toeletta, c'è uno spazio vuoto tra due acquarelli. Ed è molto ampio rispetto alla distanza tra tutti gli altri quadretti.
«La stampa con l'airone» sospira la ragazza, legando mentalmente un dettaglio all'altro, fino ad ottenere la catena completa degli eventi. «La stampa... che compariva nel tuo ritratto, in negozio, era appesa lì, non è vero? Quando hai preso accordi per venderla, eri nella stanza del caminetto, al piano di sotto. Avevi questo aspetto... o, comunque, hai usato questa voce. E hai lasciato un nome falso. L'unico che ti è venuto in mente, guardandoti attorno».
La Yuki-onna accartoccia la lebbra pallide in un sorriso rassegnato.
Jane vorrebbe chiedere perché abbia deciso di vendere la stampa, e perché sotto falso nome, ma un'altra domanda si affaccia di prepotenza.
«Chi è la bambina nella foto?»
Silenzio.
Jane sente la Yuki-onna prendere un doloroso respiro.
«È la mia bambina. Mia figlia».
Un'altra penosa pausa.
«Tanto tempo fa, cedetti alle lusinghe di un uomo che non amavo. Era uno sciocco noioso, ma conosceva il senso del dovere. Quando seppe che aspettavo un bambino, volle sposarmi. Fu un matrimonio breve: tre mesi e il mio caro marito riposava in fondo al mare, insieme a una delle sue preziose navi mercantili. Ci fu poco da piangere: ereditai quasi tutta la sua fortuna, ed era davvero consistente, e avevo una creatura da amare. Lei... lei era... era il sole della di vita, la ragione di tutta la mia esistenza, la bambina più bella e dolce che si potesse immaginare. Ma era così fragile, così cagionevole di salute... Si chiamava come te, sai? Jane. La mia Jane. E aveva capelli come i tuoi. E occhi come i tuoi. Negli ultimi mesi, ogni volta che ti ho guardato, fingevo di credere che mi fosse stata restituita la mia bambina».
Cala di nuovo il silenzio.
Jane si morde l'interno del labbro fino a farsi male. Sapere di essere il simulacro di una bambina morta le fa orrore. Tuttavia, non riesce ad evitare un gran senso di pena per la madre che le sta davanti. È arduo venire a patti con l'idea che la signora Sternwood — la dolce vecchietta, proprietaria della libreria  — non sia umana. È raccapricciante pensare che possa assumere l'aspetto di quella spaventosa donna che l'ha attaccata per due volte. Ma è anche impossibile dimenticare tutta la gentilezza e la bontà che ha ricevuto negli ultimi sette mesi. Forse, non essere umani — si azzarda a sperare Jane — non vuol dire necessariamente essere dei mostri.
«Se davvero hai ucciso Donny Allen solo per proteggere me... allora... non devi più preoccuparti dei cacciatori. Nessuno ora ti farà del male. Hai avuto paura di loro e... questo lo capisco... ma di me avresti potuto provare a fidarti. Avresti potuto dirmi la verità fin dall'inzio. Non c'era nessuno bisogno di ricorrere a questa... assurda... inutile... sceneggiata».
La Yuki-onna fa cenno di no con il capo, rifiutando di voltarsi verso di lei.
«Non centrano nulla i cacciatori». A stento trattiene i singulti. «Loro non mi hanno mai fatto paura. Io avevo il terrore di dover di nuovo—»
Scossa da un pianto silenzioso ma disperato, la donna ammutolisce e nasconde il viso tra le mani.
Jane si agita sul bordo della poltrona, sempre più vicina a perdere quel poco di lucida risolutezza che è riuscita a tenere insieme fino ad ora.
«Perdonami... mi dispiace. Mi dispiace così tanto» riprende la Yuki-onna, con la voce soffocata, impastata dal pianto. «Io ti voglio bene, Jane. Te ne voglio sul serio... ma è la regola... non posso cambiarla. Non ho scelta. Se un essere umano scopre la nostra reale natura... noi moriamo. Sto morendo, Jane, e c'è solo un modo per impedirlo...»
E quando Jane capisce cosa sta per succedere, è già troppo tardi.
Una morsa di ghiaccio le serra i polmoni. Il gelo le morde le viscere e si propaga lungo ogni fibra del suo corpo. La ragazza trema, scossa dal freddo e dal terrore. Si guarda le mani, ma non riesce ad alzarsi in piedi, non riesce a ribellarsi. E ora la Yuki-onna è accanto a lei: la circonda con le braccia — ed è come essere avvolti da una nebbia gelata, che rode le ossa — le fa appoggiare la testa sulla spalla, le accarezza i capelli dietro l'orecchio. Mormora che finirà presto. Che deve solo lasciarsi andare.
Nella mente di Jane continua a esplodere un urlo disperato.
Non uccidermi.
Dischiude le labbra ma non riesce a parlare.
Ha troppo freddo.
E tanto, tanto sonno. 
La voce della Yuki-onna è un sussurro ipnotico rotto dal pianto.
«Dormi, Jane. Dormi, bambina mia»
E Jane chiude gli occhi.
 
* * *


La porta si apre con violenza.
«Allontanati da lei!» ringhia Dean.
La pistola in pugno, l'adrenalina in circolo, il cacciatore irrompe nella stanza insieme a Sam — che impugna il paletto di quercia.
La loro comparsa, annunciata dall'eco della corsa su per le scale, è come boato in un deserto di ghiaccio: non ha nessun effetto sulla scena che si ritrovano davanti.
Jane è distesa sulla lunga poltrona: immobile, le palpebre calate sugli occhi, le mani sul ventre. Una donna vestita di bianco è inginocchiata accanto alla ragazza, come al capezzale di un malato. Dà le spalle alla porta e all'arrivo dei due fratelli non si lascia scuotere nemmeno da un misero sussulto.
Il cellulare di Jane è stato gettato sul pavimento: ha fatto da canale di comunicazione, ha guidato Sam e Dean fin lassù, ha permesso loro di udire buona parte della conversazione tra Jane e laYuki-onna.
«Non sono io l'assassina» mormora la creatura. La sua voce suona svuotata. Muove il capo il poco che basta perché Dean riesca a scorgerne il profilo, in parte nascosto dalle lunghe ciocche di capelli nerissimi. «Siete voi che mi state uccidendo...»
L'indice di Dean freme sul grilletto. Non può sparare: se fa fuoco ora e la creatura si smaterializza, i proiettili colpiranno Jane.
Poi, è questione di un attimo.
Una forza invisibile solleva lo scrittoio. Con la velocità di un oggetto lanciato da una catapulta, il mobile schizza verso di loro. Il vaso va in frantumi, i fiori bianchi si spargono sul pavimento ed è Sam a rovinare sotto l'urto contro il tavolo. L'impatto è accompagnato da uno schianto secco — un rumore tanto terribile da far temere a Dean che la gamba dello scrittoio non sia l'unica cosa a essersi spezzata.
«Sam!»
Vede suo fratello sbattere la testa contro le assi del pavimento, il paletto rotolare verso la poltrona e la Yuki-onna svanire in uno sbuffo di nebbia.
Prima di ancora di poter muoversi di un passo, Dean si sente strappare la pistola via dalle mani dal nulla dell'aria.
In alto, qualcosa scricchiola.
L'attimo dopo, polvere e scaglie di intonaco piovono sopra le spalle dell'uomo.
Dalla fenditura appena apertarsi nel soffitto guizza fuori un cavo nero: con lo stesso movimento di un colpo di frusta, il cavo si attorciglia attorno al collo di Dean.
E inizia a stringere.
La Yuki-onna è di nuovo nella stanza.
Ha raccolto la pistola. Ed è piedi nudi tra i frammenti di vetro ma non un goccia di sangue sporca l'acqua o macchia i fiori bianchi.
Sam strizza gli occhi: è ancora a terra, lo scrittoio gli schiaccia il costato.
La Yuki-onna solleva il braccio alabastrino, puntandogli la pistola alla testa.
«Io non sono l'assassina» ripete, senza forze. «Ma... voi... non sareste mai dovuti venire in questa città. Mi dispiace...»
«E t-ti è dispiaciuto anche quando hai ucciso tuo marito!» ansima Dean.
Ha stretto le mani attorno al cavo, nel tentativo di allentare la stretta, ma è inutile. Gli manca il fiato, deve sbattere le palpebre per non lasciarsi annabbiare la vista e cambia subito strategia.
«Io amavo Jonathan» biascica la Yuki-onna, senza voltarsi — e non vede Dean inclinarsi in avanti, sfidando il nodo sempre più serrato e il cavo sempre più teso, fino a sentire sotto le dita la liscia consistenza del manico del coltello infilato nello scarpone.
«Ma anche lui aveva scoperto la verità... e se non l'avessi ucciso... sarei morta io».
Ed è proprio perché sta morendo anche ora — comprende Dean — che non li ha già uccisi tutti, congelandoli in un istante, come ha fatto con Donny Allen.
È troppo debole.
Così debole che quando la lama recide di netto il cavo, qualche che fosse la magia che lo teneva vivo e stretto al collo del cacciatore, cessa di funzionare.
Il cavo si affloscia come un serpente senza vita.
Dean scatta in avanti, portando una mano sotto la giacca.
La Yuki-onna preme il grilletto.
Il boato dello sparo rimbomba tra le pareti della piccola stanza, fa vibrare i vetri della finestra e sovrasta il gemito della Yuki-onna. Solo Dean riesce a udire il verso di dolore e di sorpresa: circondato il collo della donna con un braccio, le ha conficcato il paletto nella schiena, all'altezza del cuore. Senza battere ciglio, senza altra emozione che non sia il dover di uccidere, spinge il legno nella carne. E continua a spingere fin quando non avverte il corpo della creatura accasciarsi tra le sue braccia.
Estrae il paletto. Fa un passo indietro.
La donna delle nevi crolla tra i resti del vaso e dei fiori. Sotto lo sguardo impassibile del cacciatore, il suo corpo si dissolve in un turbinio di ghiaccio, proprio come la fiamma di una candela si spegne sotto a un soffio, lasciando un sottile filo di fumo.
Dean non è il solo ad assistere alla scena: visibilmente frastornato e dolorante, Sam si sta riprendendo dalla botta al capo.
A pochi centimetri dal suo orecchio, il proiettile si è conficcato in una delle assi di legno del pavimento.
Dean si precipita accanto al fratello. Lo aiuta a liberarsi del peso dello scrittoio — che viene rovesciato bruscamente sul pavimento — e a mettersi seduto.
«Ehi! Vacci piano... sei tutto intero?»
Sam scuote il capo, si passa le dita tra i capelli, apre e chiude gli occhi.
«S-sì...» mugugna.
Dean lo vede spostare lo sguardo, di colpo allarmato, su un punto oltre le sue spalle.
Di riflesso, il fratello maggiore si volta.
Jane non si muove.
Con un «No» sibilato a denti stretti, Dean torna in piedi e raggiunge la poltrona.
Mentre si piega su un ginocchio, nella visione di Jane distesa sulla lunga poltrona, inerme e con gli occhi chiusi, c'è qualcosa che gli suscita rabbia: è la posizione del corpo della ragazza.Dev'essere stata la Yuki-onna a sistemarle i capelli dietro le orecchie e le mani sul ventre, l'una sopra l'altra.
Pronta per la tomba — a quel pensiero la rabbia diventa un boccone velenoso che il cacciatore si impone di mandar giù.
Prende il viso di Jane tra le mani: la pelle di lei è arrossata e fredda come il marmo.
Le tasta prima il collo e poi i polsi, in cerca di un debole battito cardiaco.
Non lo trova.
Si china in avanti, accostando la propria guancia al volto di Jane, nella speranza di riuscire ad avvertire un flebile respiro.
Non lo sente.










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Due noticyne (molto superflue):
1) La Yuki-onna fa parte del folklore giapponese ma, anche se ho tenuto fede alla maggior parte delle caratteristiche delle leggende originali, qui e là ho aggiunto o cambiato qualcosa per adattarla meglio all'universo del telefilm. L'Epilogo chiuderà qualsiasi punto rimasto poco chiaro in questo capito, troppe spiegazioni avrebbero rallentato l'azione. 
2) Io c'ho l'animo del cast director: come per Jane, anche per la cattifah di turno non ho tenuto a bada la voglia di scartabbellare attrici su attrici e sceglierne una sulla quale cucire l'espressività del personaggio. La mia soddisfazione per quel photoset sfiora l'indecenza, ma vabbé.

   
 
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