Il piede di
Molly affondò in un pantano.
Molly inveì,
lo tirò fuori, mosse la gamba per scrollare il fango che le aveva
irrimediabilmente sporcato l’orlo dei pantaloni e procedette.
L’inconveniente
non peggiorò il suo malumore. Lo rese soltanto acuminato. Era come avere un
bisturi che si faceva largo dall’interno del petto verso l’esterno, scavando e
rompendo, scucendo il suo corpo e tagliando tutto ciò che trovava a sbarrargli
il cammino: muscoli e tendini e vene e organi.
Pioveva. Una
pioggerellina capillare e fine. Non era acquerugiola, non era niente. Solo
gocce d’acqua sparse, di quando in quando, a chiazze irregolari, senza un reale
perché. Con lo specifico scopo di dannare l’anima e procurare fastidio. Ma si
trattava di Londra, era autunno ed era del tempo inglese, tipicamente uggioso,
che si parlava. Nulla di inspiegabile o strano.
Ed era in un
cimitero inglese – lapidi e croci in un prato ben falciato, con olmi
scheletriti e contorti al margine del suo spazio visivo – che lei si trovava.
Perché vi si
trovasse, però, era un mistero anche per lei.
RETROUVAILLES
La sua
lapide era nera. Non grigia e sormontata dalla statua di un angelo piangente o
da uno di quei putti che rassomigliavano a un cupido dalle guance paffute –
quella sarebbe stata una presa in giro.
Era piccola e
lustra. Molly poteva osservare il riflesso distorto e opaco dei propri piedi,
constatare il danno che pantano/fango avevano apportato ai pantaloni che
indossava.
C’erano
molti fiori freschi, accanto ad altri che lo erano un po’ meno. Avrebbe dovuto
portarne? Poteva sembrare eccentrico che non lo avesse fatto?
Molly si
piegò sulle ginocchia. Cominciò a riordinare i mazzetti. Fu per caso che notò
il primo biglietto e poi il secondo. In breve trovò un mucchietto di
bigliettini, striscioline di carta della grandezza di un messaggio dei biscotti
della fortuna.
Quanto vi
era scritto le fece venire la nausea.
Molly ne
fece un mucchio e li accartocciò, ficcandoseli in tasca per buttarli
all’uscita.
“Dicono che non
fosse un brav’uomo.”
Molly
sussultò al suono della voce maschile e si voltò con qualcosa di simile alla rabbia
verso chi aveva parlato.
A tutta
prima era un giardiniere. Aveva fermato la carriola a meno di un metro di
distanza e aveva ancora le mani sui manici. Indossava guanti verdi da
giardinaggio, stivaloni di gomma, una salopette da lavoro e uno di quei
cappelli che a Molly ricordavano quelli usati da chi andava a pesca. Il passo
pesante e la schiena incurvata, la testa piegata in avanti, tutto denotava
affaticamento, stanchezza.
I
bigliettini che aveva raccolto sembravano bruciare a contatto con le dita, come
acido. Molly ripensò a Sherlock che non era gentile, non nella definizione
canonica del termine, che era brillante e unico nel suo genere, un cerchio in
un mondo di quadrati, come in quella favola per bambini.
E il
fastidio le sbocciò dentro ripensando agli altri, alla confidenza che si
prendevano parlando di lui come se lo avessero conosciuto, come se leggere
quello che i giornali ne avevano scritto li autorizzasse ad essere maleducati,
li avesse resi intimi e coscienti dell’uomo che Sherlock era.
Molly aprì
la bocca, ma poi qualcosa di straordinario avvenne.
Il
giardiniere raddrizzò le spalle e la schiena e Molly si accorse che era alto,
molto più alto di quanto avesse immaginato. Così alto che – Ma no, era una sciocchezza.
Il
giardiniere piegò i risvolti della berretta e Molly ebbe lo scorcio di un paio
d’occhi azzurrissimi e vividi, taglienti al modo del vetro quando lo si rompe.
“Non
difendere le mie virtù, Molly”, disse il giardiniere-che-non-era-un-giardiniere.
E come se fosse necessario, come se non fosse già perfettamente consapevole
della trasformazione miracolosa a cui aveva appena assistito e non lo fissasse
ad occhi sgranati, impietrita, lo sentì aggiungere: “Sono io.”
Molly
deglutì, gli divorò il viso alla ricerca di indizi rivelatori, informazioni su
dov’era stato, cosa aveva fatto. Era smagrito, gli zigomi erano più pronunciati
che mai. La pelle del viso quasi senza colore, di un bianco cereo su cui i
cerchi scuri intorno alle palpebre spiccavano come lividi. Aveva un taglio sul
labbro, un sopracciglio spaccato, una guancia tumefatta.
Avrebbe
voluto abbracciarlo, stava per farlo, ma si trattenne a viva forza. Non era
quello il luogo e il momento, perché cosa avrebbe pensato un passante di una visitatrice
che gettava le braccia al collo a un giardiniere?
Sherlock la
guardava e Molly vide nel lampo che gli attraversò gli occhi che aveva inteso
l’indulgere delle sue riflessioni. Le sorrise con un’amarezza che non aveva mai
avuto, prima.
Di nuovo,
l’impulso di abbracciarlo si affacciò con prepotenza. Serrò i pugni nelle
tasche della giacca a vento.
Notando il
gesto, con l’evidente scopo di cambiare argomento, Sherlock commentò in un tono
che non era affatto arbitrario: “Non c'è più rispetto per i
morti.”
Molly arcuò
le labbra in un sorriso opinabile, umorismo
da beccamorto, capendo che si riferisse ai biglietti che lei aveva
scoperto. Tu non sei morto, avrebbe
voluto dire scioccamente. “Così sembra”, disse invece.
Lo sguardo
di Sherlock la indagò, come lei poco prima aveva fatto con lui, ma con maggiore
successo. Qualunque fossero le conclusioni a cui era giunto, non sembravano
procurargli il minimo piacere. “Ti trovo… male.”
Molly smise
di fissarlo e lasciò scivolare gli occhi altrove. Si strinse nelle spalle.
Avrebbe potuto dire molto al riguardo, ma perché poi? E rimanendo in tema di
aspetto, non era lei ad assomigliare a una salma.
Una parte di
lei, quella che era rimasta la ragazzina affamata d’amore in ogni sua forma e
misura, quasi sperava che le rispondesse che era lì per vederla.
Sherlock
scrutava il cielo con la solita espressione imperscrutabile, quasi assente.
“Affari”,
rispose, frantumando quelle speranze.
“Stai
tornando?”
La voce
l’aveva tradita. Un misto di speranza e ansia e desiderio e apprensione. Tutto
questo e molto altro ancora.
Sherlock
riportò gli occhi su di lei. “No”, pronunciò lentamente.
Una pausa,
quindi, in tono di annoiata spiegazione, proseguì: “Smantellare la rete
criminale di Moriarty potrebbe richiedere più del tempo preventivato.”
Era chiaro
che ammetterlo gli procurasse una dose non indifferente di contrarietà.
Molly batté
le palpebre, respingendo il groppo di sentimenti che le aveva ostruito la gola,
il petto. “Oh.”
Chiunque altro
le avrebbe mentito, l’avrebbe consolata con l’illusione di una menzogna tranquillizzante.
Non Sherlock.
Le parve che
lui volesse dire qualcosa, mosse il braccio in un’angolazione strana, come se
per un istante, un istante dilatato all’infinito in uno di quei loop da libri
di fantascienza, avesse provato l’istinto avulso di allungarlo verso di lei in
un gesto di consolazione, affetto perfino. Non il gesto, ma la sua venuta al
mondo, valeva ognuna delle mille parole intercorse tra loro in passato, le
cento che Molly aveva cercato di balbettare in sua presenza, le cento che era
riuscita a proferire vincendo la ritrosia dell’imbarazzo, le cento che aveva
spento ogni giorno dentro di lei come si spengono i fiammiferi o i sogni a
lungo andare, le cento che aveva mormorato nei sogni e le altre cento negli
incubi che da quando era partito la affliggevano. E ce n’erano altre, ora, a centinaia,
che affluivano alle labbra e lì morivano, sventurate. La felicità di vederlo –
saperlo vivo, anche se non in buona salute -, incontrarlo dopo che era
trascorso tanto dall’ultima volta, così tanto da far sembrare l’attesa un’infinità
e un’agonia. Molly non aveva idea di come esprimerle. L’attesa. Dio. Credere in lui, nella promessa che
le aveva fatto, sapendo con ogni fibra di se stessa che Sherlock l’avrebbe
mantenuta, cascasse il mondo.
Ancora una
volta, Sherlock glielo lesse nel viso. O forse fu altro che vide. La stima, la lealtà, l’assoluta fiducia in
lui. Quell'altra cosa che non era mai stata nominata apertamente.
Prima che si
chiedesse come e quando fosse successo, non
perché mai perché, Molly era schiacciata contro il suo petto, stretta in un
abbraccio rabbioso e tormentato. Le labbra di Sherlock trovarono le sue e c’era
rancore, determinazione ad animarle, ma anche un contrassegno di gentilezza -
la nostalgia di un bel ricordo, della sua vecchia vita, di ciò che non poteva più essere alla luce del sole.
Molly si
aggrappò a lui, alle bretelle della tuta e fu capace di sentirlo sotto i palmi
aperti, oltre il battito del cuore di Sherlock – spediti, si succedevano ad impennate
anomale -, quanto magro fosse diventato. Aveva quasi paura di stringerlo. Si rese
conto dei bendaggi spessi, immaginò quello che i vestiti servivano a nascondere:
ematomi e contusioni. Altre ferite, forse, più ampie e gravi, in via di
guarigione. Si accigliò, desiderando le sue capacità analitiche, il suo spirito
di osservazione per esserne certa.
Sherlock
percepì la sua tensione e pose fine al bacio, rimanendo con la fronte accostata
alla sua.
Molly gli
sfiorò il taglio sulla bocca con l’indice, delicatamente, ad occhi chiusi. Sentiva
le lacrime pungerle i bordi, le ciglia. Le ricacciò indietro con una smorfia.
La
vibrazione di un cellulare. Sherlock le imprecò contro l’orecchio.
“Devo
andare.”
Di tutte le
cose che avrebbe potuto dire. La più prevedibile, dato il contesto. Non che
questo servisse a renderla meno crudele per entrambi.
Molly annuì.
“Lo so”, mormorò a fior di labbra.
“Molly.”
“Lo so”,
ripeté.
Parole non
sue, lette chissà dove, chissà quando, emersero dalle nebbia che aveva in testa.
Ritorna. Ti aspetterò.
“Lo farò”,
promise Sherlock.
Molly si
sentì improvvisamente spogliata, derubata quando lui la lasciò andare.
Lo sentì
incamminarsi, il rumore di passi che si allontanava speditamente sul prato, tra
le pozzanghere e gli acquitrini.
Non riaprì
gli occhi, si coprì le labbra, invece, proteggendo il tepore di quel bacio dalla
furia del vento. Si ricordò un vecchio mito. Di Orfeo che aveva ottenuto dal Sovrano
degli Inferi la sua sposa defunta, a patto che non si voltasse ad osservarla
durante la loro risalita dalle tenebre della morte alla luce della rinascita.
Ma lui, divorato dal desiderio di rivedere il volto amato e creduto scomparso
così a lungo, si era voltato. Euridice era stata perduta, una volta di più, l’ultima.
Molly vinse
il desiderio che la polverizzava. E quando riaprì gli occhi, finalmente,
pioveva e il cimitero era di nuovo vuoto e desolato: un deserto di mausolei e pietre
tombali.