Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Swindle    17/03/2014    5 recensioni
Sherlock è sparito e nessuno sa che fine abbia fatto. Quando ricompare, non è più lo stesso di prima, e John, Mycroft e tutte le persone che tengono a lui dovranno inoltrarsi nel suo Mind Palace per ricostruire l'enorme caso degli ultimi cinque mesi, quello che iniziò con Moriarty e il suo "miss me?", per capire cosa gli sia successo, chi ci sia dietro a tutti quei crimini e al redivivo Moriarty, e poter così salvare Sherlock... anche da se stesso.
[Dal cap. 4]: "The truth hurts, my deary, but this truth... Verity will burn you whole."
Post 3^ series.
Genere: Azione, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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Perdonatemi per l'immenso ritardo.

La Real Life mi ha rapito, in più questo capitolo ha richiesto molte più ricerche e sforzi di quanto avessi immaginato, e alla fine è stato un parto... un parto lungo un mese e qualche giorno! xD

I flashback in questo capitolo la fanno da padrone, e c'è un nuovo POV che spero vi piacerà.

Siccome questo è un capitolo davvero molto importante e ho sputato sangue per scriverlo (e-ehm >.<), vi sarei molto grata se mi lasciaste un vostro parere, qualsiasi feedback è ben accetto, giuro, non siate timidi! :D

Non mi dilungo ulteriormente e vi lascio al capitolo (più lungo del precedente, yay!)...

Happy reading! ;)













 

A Case of Identity - III parte

 

 

 

***

 

 

Avrebbe dovuto intervenire, e in fretta anche; Mycroft lo capisce prima di chiunque altro, la sua mente è stata in modalità 'osservazione e deduzione' fin dall'inizio, e in verità non sarebbe nemmeno necessario il suo genio per arrivare a una tale conclusione e prevedere gli eventi che si susseguono rapidi: la voce del dottor Watson che si incrina e muore in un mormorio sommesso, i pugni chiusi lungo i fianchi, la schiena rigida, la mascella contratta e tremante, il volto abbassato a fissare i propri piedi. È riuscito a mantenere il contatto con lo sguardo di Sherlock più a lungo di quanto Mycroft avesse preventivato, questo bisogna concederglielo, ma le iridi velate di rabbia e ironia e odio di suo fratello hanno fatto desistere il caro dottore ben presto, costringendo i suoi occhi a trovare riparo ovunque nella stanza tranne che posati sulla sua persona; a metà racconto il suo tono ha cominciato ad abbassarsi, il corpo a rabbrividire lievemente, il respiro a farsi più corto, ed è davvero un miracolo che sia riuscito a giungere fino a quel punto.

Ma ora, è evidente, non ce la fa più.

Mycroft lancia un'occhiata alla signora Watson, riuscendo a intercettare il suo sguardo: quello che vi legge è la stessa comprensione dello stato in cui versa John, e il maggiore degli Holmes non si sorprende che la donna l'abbia letto quasi nel suo medesimo istante, considerando il suo passato e quanto conosca il proprio marito: Mary non si disturba a fargli un cenno di assenso e invece poggia una mano aperta dietro alla schiena di John, in un gesto rassicurante, mentre l'uomo strizza gli occhi e boccheggia per qualche secondo.

Mycroft torna perciò a concentrarsi sul volto del fratello, trovandolo a leccarsi le labbra con uno sguardo ferino di vittoria e un sorrisetto astuto sulle labbra; si sta compiacendo del disagio di John, si sta beando del suo dolore, e il maggiore degli Holmes è costretto a reprimere un inaspettato moto di ira e fastidio, prima di poter aprire bocca e prendere parola.

« Dottor Watson. » dice infine infondendo la sua voce di gentilezza « Le dispiace se continuo io? »

L'uomo alza gli occhi su di lui, guardandolo confuso: non erano questi i piani; Mycroft aveva messo in chiaro quanto preferisse restare estraneo alla narrazione dei fatti, in quanto riteneva essenziale poter studiare le reazioni che il fratello avrebbe avuto; tuttavia questa è una situazione di emergenza: non è nell'interesse di nessuno che John venga sopraffatto dalla pressante analisi di Sherlock, dalla sua arroganza e volontà di distruggere le persone che si trova davanti e che ritiene propri nemici. E considerato il punto in cui è arrivato Watson a raccontare, Mycroft è l'unica scelta possibile per finire.

« Preferirei riferire io a mio fratello gli eventi immediatamente successivi. » continua quindi, sforzandosi di alzare un angolo della bocca in un sorriso rassicurante, « Se questo non le crea disturbo, è logico. »

Mantenere le apparenze: questa è la parola d'ordine. Nonostante sia indubbio che nessuno dei presenti - da Lestrade che si dondola da un piede all'altro con le mani intrecciate dietro la schiena, a Mary che continua a tracciare le spalle del marito con lievi carezze, dalle persone che stanno seguendo la vicenda dietro alla parete-specchio, a, il maggiore degli Holmes ne è sicuro, Sherlock i cui occhi passano vigili e divertiti da John a Mycroft - possa non comprendere la reale ragione, tenere alta quella facciata è essenziale.

John annuisce docile, grato di quella via d'uscita che il maggiore degli Holmes gli ha insperabilmente presentato.

Lo sguardo di Mycroft si fissa sul fratello, che gli restituisce un'occhiata di sfida, prende un breve ma profondo respiro, e prima di cominciare a parlare si chiede se stia facendo la cosa giusta.

 

Si era preso il suo tempo, per salire le scale del 221 di Baker Street, ma quando alla fine era giunto al pianerottolo dell'appartamento B aveva trovato un impaziente Sherlock già sulla porta, completo di cappotto e sciarpa annodata, il piede a battere freneticamente al suolo, e uno sbuffante John intento a infilarsi la giacca.

« Fratello. » aveva sorriso Sherlock, rivolgendogli lo sguardo, « A cosa devo questa sgradevole visita? Non è di cortesia, immagino. »

« Immagini bene, infatti. » aveva replicato, fronteggiandolo e unendo le mani sul manico di legno di canna del pregiato ombrello.

« Non sarai qui per controllarmi? » aveva alzato un sopracciglio, ironico.

« L'idea era quella, sì. »

Mycroft aveva risposto con sorriso serafico allo sguardo stupito del fratello, che di certo non si aspettava tanta sincerità da parte sua, poi aveva approfittato del suo sbigottimento per continuare.

« So quanto le sfide ti attraggano, Sherlock. E penso che questa sia per te il corrispettivo di una donna attraente e disponibile per il dottor Watson. »

L'interpellato si era girato di scatto, fissando gli occhi sui due fratelli.

« Ehi! » aveva sbottato infastidito « Sono un uomo sposato, io! »

I due Holmes non gli avevano badato, troppo impegnati in una lotta di sguardi infuocati e sorrisetti acuti e appena accennati, e il dottore non aveva potuto far altro che borbottare ancora qualcosa per poi avvicinarsi a seguire meglio lo scambio di battute fra i due.

« Niente di interessante dalle tue CCTV [1]? » aveva dunque chiesto Sherlock.

« Silenzio di tomba. » Mycroft aveva scosso piano la testa « Tutto oscurato, per un intero minuto, come se non esistessero nemmeno. E quando il segnale è tornato non siamo riusciti a rintracciare la fonte dell'hacker. Ci stanno lavorando ancora, in questo momento. » aveva fatto una pausa, il pomo d'Adamo che scendeva e saliva, a disagio « Non era mai successa una cosa del genere. »

Gli occhi di Sherlock avevano brillato sinistramente.

« Abile, oltre che astuto. » aveva commentato, stupendo il fratello per l'assenza di qualche colpo basso al suo orgoglio ferito.

« Decisamente. Ed è questo che mi mette in allarme. »

« Perché mai dovrebbe angustiarti, brother dear? »

« Sei tu che mi preoccupi, Sherlock. »

Un risolino aveva abbandonato le labbra del fratello minore.

« Non vedo perché dovresti. Ho tutto sotto controllo. »

« Per ora. » aveva sussurrato Mycroft, le sopracciglia che si aggrottavano di poco.

Ma Sherlock non vi aveva prestato attenzione, rivolgendosi invece a John: « Vogliamo andare? »

Il medico si era riscosso dai propri pensieri e aveva annuito; Mycroft si era chiesto se anche l'uomo avesse compreso la pericolosità della situazione in cui Sherlock si stava buttando a capofitto, senza fermarsi a riflettere. Non nel modo che Mycroft avrebbe voluto, per lo meno.

I due uomini avevano preso a scendere le scale, quando il maggiore degli Holmes, senza riuscire a trattenersi, l'aveva chiamato.

« Sherlock? »

« Mh? » si era appena voltato, lasciando che il dottore lo superasse di un paio di gradini.

Mycroft aveva esitato, tuttavia sentiva il dovere di chiederglielo, e quella con ogni probabilità sarebbe stata l'unica occasione che avrebbe avuto.

« Credi che sia davvero Moriarty? »

Le pupille di Sherlock si erano ristrette, mentre i suoi occhi si fissavano in quelli del fratello, guardinghi.

« Lo stile è il suo. » aveva commentato alla fine Sherlock « La canzone, la minaccia, la sfida. Ma io l'ho visto morire su quel cornicione, Mycroft. Ho visto la pistola premuta nella sua bocca, il grilletto scattare, la pallottola perforargli il cervello, il sangue correre sull'asfalto. Non si può fingere una cosa del genere. O almeno non è facile come simulare una caduta. »

E Sherlock si era congedato con un sorriso sornione che poteva voler dire tutto o nulla, e aveva percorso il resto della rampa con una lunga falcata.

Il dottore gli era caracollato dietro, e Mycroft aveva ancora potuto sentire uno sprazzo della loro conversazione, mentre si affrettavano su un taxi.

« Ma come? » aveva obiettato John « Avevi detto di essere sicuro fosse Moriarty! »

« Non mi sembra di aver mai affermato una cosa del genere. »

« Gesù, Sherlock, sei proprio… »

E Mycroft aveva solo potuto dedurre il resto del commento indispettito e veemente del dottore, coperto dal suono delle portiere del taxi che si chiudevano e delle ruote che partivano sgommando. Come aveva ipotizzato, Sherlock non gli aveva dato una risposta precisa; era impossibile fosse Moriarty, si era accertato personalmente che il corpo sul tetto del Bart's fosse quello del consulente criminale, eppure bisognava considerare che già una volta si era sbagliato, con Irene Adler; inoltre era difficile presumere l'esistenza di qualcuno che potesse imitarlo tanto bene; e ancora, Moriarty in persona avrebbe di sicuro avuto diversi motivi per voler fare tutto quello, sfidare così apertamente Sherlock; Mycroft avrebbe voluto che il fratello lo mettesse a parte dei suoi ragionamenti, che per una volta loro due potessero parlarsi con franchezza, cercare di capire cosa fare insieme, ma non sembrava che l'altro fosse del suo stesso avviso.

Nell'ultima occhiata beffarda che Sherlock gli aveva rivolto, Mycroft aveva potuto quasi sentire la sua irritante voce nella propria mente: 'when I've eliminated the impossible, whatever remains, no matter how mad it might seem, must be the thruth.[2]'

 

Mycroft conclude, e serra la bocca in una linea tesa: non si era aspettato di farsi prendere tanto dal racconto; intorno a lui il silenzio, e il maggiore degli Holmes si prende qualche secondo di pausa, si schiarisce la gola, prima di alzare gli occhi sulla stanza.

Lo stanno tutti fissando, aspettando qualcosa da lui, persino Sherlock, anche se Mycroft allunga ancora i secondi prima del momento in cui dovrà rivolgere l'attenzione verso il fratello; gli basta un lieve cenno, e l'atmosfera sembra rilassarsi, mentre i presenti si sentono congedati e liberi di uscire dalla camera: lo fanno tutti in modo deliberatamente lento, persino, a passi rigidi, John, che Mycroft non dubita stia solo aspettando di poter tornare a respirare fuori di lì. Qualcosa in fondo al cervello gli ricorda della recita: ah già, 'salva le apparenze' era la parola d'ordine.

« Credo sia ora di prendersi una pausa. Continueremo oggi pomeriggio. » dice, osservandoli sparire dietro la porta.

Allora Mycroft si volta ad affrontare il fratello, che lo sta studiando ancora con lo stesso sguardo divertito, con lo stesso luccichio crudele nelle iridi di un azzurro che mai è stato tanto glaciale.

« Sherlock. » lo apostrofa « Devi smettarla. »

« Di fare cosa, fratello? » lo canzona Sherlock, la voce leggera eppure priva di qualsiasi colore.

Mycroft muove qualche passo verso di lui.

« Sai perfettamente di cosa stia parlando. » afferma, cercando di tenere la sua voce bassa e dura, senza riuscire a capire se vi sia riuscito o meno.

Sherlock gira gli occhi al soffitto e mette su il broncio tipico di un bambino capriccioso.

« Oh, ma quanto sei noioso. » si lagna.

« Avevi promesso che avresti collaborato. » replica.

« E lo sto facendo. » sorride, irridendolo con gli occhi e con il tono delle sue parole, « Ma vuoi mica che non mi diverta almeno un po'? È così affascinante che io riesca a mettervi tanto a disagio. Ci sarebbe da chiedersi chi sia davvero il predatore e la preda in questo nostro piccolo giochino, non credi? »

« Sherlock, ti avverto… » comincia a dire, la voce che trema.

« Che cosa, fratello? Che cosa? » la voce di Sherlock si abbassa di un tono, contratta dalla rabbia, « Vuoi rinchiudermi da qualche parte, ridurmi a un ammasso di carne tremante e farmi rimpiangere di essere nato? Devo deluderti, credo che tu l'abbia già fatto! »

Mycroft non ci vede più: in un moto d'ira che non riesce a prevedere né a fermare, gli si avvicina bloccandogli un braccio in una presa ferrea, il respiro pesante.

« Toglimi le mani di dosso. » scandisce in un sibilo Sherlock, gli occhi ridotti a due fessure.

Ed è incredibile quanto quell'orribile suono, sputato con una tale cattiveria che Mycroft non avrebbe mai immaginato il fratello potesse provare, costringa il maggiore degli Holmes a indietreggiare, colpito nel profondo.

I due fratelli si squadrano a vicenda per pochi attimi che sembrano dilatarsi all'infinito nelle rispettive menti, avvolgendosi più e più volte tra pensieri, deduzioni e memorie di vite passate; è davvero quello che Sherlock crede sia successo? Mycroft non è riuscito a fargli dire una parola riguardo ai suoi ricordi del tempo in cui è stato prigioniero, il fratello ha affermato di non rammentare nulla, ma è evidente che qualcosa in quel suo cervello costantemente attivo debba essere rimasto, e la sua mente a soqquadro deve aver fatto il resto, portandolo a conclusioni sbagliate. Per un orribile istante, mentre guarda il fratello negli occhi, cercando di vedervi più a fondo possibile, un pensiero si fa strada nella mente di Mycroft: cosa succederà se non riusciranno a riportarlo indietro? Come sarà se l'uomo che ha davanti in quel momento sarà d'ora in avanti l'unico Sherlock esistente? Mycroft si sente afferrare da dita di fredda angoscia, ma prima che questa giunga a travolgere i lineamenti del suo viso, prima che possa farsi tanto evidente da dare a Sherlock la possibilità di aprire in lui una breccia, Mycroft ricorda la parola d'ordine, ricorda cosa sia essenziale. Perciò si ricompone, inumidendosi le labbra e roteando una volta l'ombrello, e senza un'ulteriore parola si volta, con la netta sensazione di aver perso, questa volta, ben più di uno dei loro usuali confronti.

Mentre esce dalla stanza, ragiona che, a ben pensarci, mantenere le apparenze sia tutto ciò che gli rimane.

 

 

***

 

 

"C'è qualcosa che ci sta sfuggendo." pensa Greg, mentre percorre avanti e indietro la stanza le cui pareti sono stipate di post-it, appunti e carte collegate fra loro da puntine e fili colorati.

Mycroft gli aveva concesso quello spazio nella Casa Bianca di MayFair per la loro indagine, anche se Greg se n'era impossessato fin da subito, dato che se anche l'altro aveva il potere di tenere tutto a mente e di scandagliare gli avvenimenti solo con il pensiero, questo non voleva dire che lui non avesse bisogno di qualcosa di più concreto per raccapezzarsi.

La prima volta che Mycroft era entrato nella camera dopo che Greg ci aveva messo le mani, aveva solo alzato un sopracciglio e commentato: « Non avrai imboccato la via della pazzia già intrapresa da Anderson? »

Greg aveva sbuffato e evitato di rispondergli.

"C'è decisamente qualcosa che ci sta sfuggendo." riflette ancora, passando lo sguardo tra le parole scarabocchiate che aveva cerchiato.

Lestrade è perfettamente cosciente del fatto che siano molte più le cose che non sanno rispetto a quelle che abbiano compreso, eppure ha in fondo al cervello qualcosa che lo solletica, che tenta di avvisarlo di come esista in quell'equazione un particolare piuttosto essenziale di cui però non hanno tenuto conto.

"Sì, ma cosa?" si chiede frenetico, "Sherlock si è chiuso sempre più in se stesso, preferendo affrontare tutto da solo piuttosto che chiedere la collaborazione mia, di Mycroft, o persino l'aiuto di John. È evidente che ne era stato costretto… o forse cercava di proteggerci. Quindi è riuscito a entrare in contatto con Moriarty, o chi cazzo è, senza che nessuno di noi se ne accorgesse. Sì, ma come?"

Greg si morde le labbra, si pizzica il mento tra due dita, fissa i fogli davanti a sé fino a non mettere più a fuoco nulla, ma il tempo passa e il suo cervello sembra sempre più vuoto.

« Greg? » sente alla fine una voce gentile dietro di lui.

Si volta, e trova la testa di Mary a sbucare dallo spiraglio della porta che ha lasciato mezza aperta. La donna si guarda in giro curiosa per un attimo, prima di focalizzarsi di nuovo su di lui.

« Stiamo per ricominciare. Tocca a te, ricordi? »

« Sì. » annuisce l'ispettore, « Ho perso la cognizione del tempo. Arrivo. »

Mary gli fa un cenno e sparisce nel corridoio, mentre Greg lancia un'occhiata all'orologio sul polso. Le tre del pomeriggio. La pausa pranzo indetta da Mycroft è finita, ed è ora che lo show continui.

Greg sospira, si dirige verso la camera di Sherlock, si posiziona al posto assegnatogli dopo aver rivolto un cenno agli altri, e senza guardare l'Holmes più giovane inizia a svolgere il proprio compito. Ma una parte di lui è rimasta in quella stanza, a chiedersi quale diavolo di semplice dettaglio si siano lasciati per strada.

 

Non era passata nemmeno mezz'ora dallo scoppio delle bombe, quando Greg vide due figure familiari scendere da un taxi a pochi metri dal nastro blu e bianco della polizia e tirò un sospiro di sollievo, riconoscendole all'istante.

Mentre si avvicinavano, notò che John era di cattivo umore, le sopracciglia contratte e le mani che si aprivano e chiudevano a pugno lungo il fianco, in un gesto nervoso. Sherlock, al contrario, aveva la sua solita aria imperscrutabile, con appena quel luccichio negli occhi a indicare come fosse in 'modalità caso: on'.

Greg non si sorprese della cosa: probabilmente avevano battibeccato come al solito e solo John ne era rimasto turbato.

Lo sguardo di Sherlock si fissò subito sui resti carbonizzati della chiatta che la squadra artificieri di Scotland Yard stava attentamente trasportando dal fiume sulla terraferma.

« Semtex [3], non è vero? » esordì il detective, continuando a camminare, mentre Greg si accodava ai due uomini.

Lestrade si era limitato ad annuire.

« Chiaro. Si ritorna a Moriarty. Il detonatore è stato trovato? »

« Non ancora. Ma è probabile sia finito in acqua con gran parte dei resti del traghetto, e con la forza della corrente del Tamigi… »

« Però potrebbero essere ritrovati quelli usati per le altre bombe, no? » si introdusse John nel discorso.

« Forse. Ma lo trovo poco probabile. » aveva risposto Sherlock, superando agile il nastro della polizia, « Avrà di sicuro coperto le sue tracce. Perciò questa bomba è la più interessante: essendo una barca, non aveva bisogno di pensare a un modo affinché gli indizi sparissero, il fiume ci avrebbe pensato per lui. E questo potrebbe essere stato il suo primo errore. »

Lestrade e John si erano scambiati il consueto sguardo perplesso, mentre Sherlock si abbassava sulle macerie carbonizzate che i poliziotti avevano estratto dalle acque del Tamigi e iniziava a esaminarle con la lente d'ingrandimento portatile stretta nella mano guantata.

« Ci metterai a parte delle tue deduzioni, Sherlock? » aveva sbottato alla fine John, dopo lunghi minuti in cui il detective era rimasto in silenzio, « Credo che Greg abbia bisogno di ogni indizio possibile. »

« Non avevo dubbi che New Scotland Yard brancolasse nel buio. » aveva replicato con freddezza.

« Sherlock… » aveva cominciato il dottore, una nota di avvertimento nella voce. Poi aveva spostato lo sguardo su Lestrade, con un'espressione di scuse, ma Greg si era stretto nelle spalle: erano passati anni, ormai, dal tempo in cui si faceva irritare dalle parole del detective.

« Oh, d'accordo. » aveva intanto esclamato Sherlock, alzandosi e sistemandosi la sciarpa in un gesto di stizza, per poi cominciare con il suo tono da deduzione, le mani che svolazzavano elegantemente davanti al viso: « Quello che sappiamo: tre bombe, un palazzo in demolizione, un magazzino vuoto, e questo traghetto, nell'area di 15 km quadrati, abbastanza vicine al centro da suonare come una vera e propria minaccia, abbastanza lontane, in luoghi isolati e privi di persone, da farci intendere le capacità di colui con il quale abbiamo a che fare. Scoppiate nel medesimo istante, dopo che tutte le emittenti televisive della City hanno trasmesso contro la loro volontà un video di un minuto in cui il colpevole ha lanciato una sfida diretta contro il sottoscritto. In questo stesso minuto tutte le CCTV erano oscurate, isolando Londra. Ha usato del Semtex, impermeabile ad acqua e umidità, quindi sarà difficile capire quando esattamente le bombe siano state posizionate, non mi stupirei se fossero già lì da giorni, ed ecco ancora la genialità dei luoghi che ha scelto, che passano facilmente inosservati. Affinché le bombe si azionassero insieme deve aver usato degli inneschi a distanza, qualcosa di semplice ma efficace, probabilmente detonatori elettrici e onde radio per dar loro il via. Così potrebbe già essere lontano da Londra in questo momento, ma ho ragione di credere che non sia così: si sente al sicuro, sa che non possiamo individuarlo, e avendomi sfidato in maniera tanto palese sono certo che sia lì fuori da qualche parte a tenere d'occhio le mie mosse. Persino in questo momento. »

Sherlock interruppe la sfilza di parole, mentre John lo fissava con uno sguardo penetrante.

« Sembri capire bene la sua psicologia. » commentò lentamente il medico.

« Ma certo. » replicò il detective senza scomporsi, « D'altronde si tratta di Moriarty. Abbiamo già giocato insieme, io e lui. »

« Mor- » la parola morì in bocca a John, che proruppe in un singulto esasperato, si coprì le labbra con una mano, quindi se la fece scorrere sul viso, e indietro fino ai capelli.

Greg lo vide prendere un brusco respiro, mentre cercava di capire cosa stesse accadendo tra i due amici.

« Sherlock. » scandì il medico, cercando vistosamente di contenersi, « Neanche un quarto d'ora fa mi hai assicurato che non si trattasse di Moriarty. »

Sherlock gli lanciò un'occhiata enigmatica, ma non replicò.

« Si può sapere che diavolo ti passa per quella testa oggi? » alzò la voce John, piccato, allargando le braccia.

« John. » disse Sherlock in tono piatto, « Se sei nervoso e non sei in grado di tranquillizzarti, ti suggerirei di tornare a casa da Mary. Potreste fare una bella gara di tiro al piattello, e a essere sincero non sono affatto sicuro che punterei su di te. »

Greg spalancò gli occhi, confuso, senza capire lo scambio fra i due, che pure doveva avere qualche significato a giudicare dalla reazione del dottore. Passò lo sguardo dall'uno, immobile e impassibile, all'altro, furente, l'espressione contratta sul viso, le braccia rigide lungo i fianchi, le dita della mano sinistra che si aprivano a ventaglio e poi si richiudevano a pugno, in quell'usuale gesto che John faceva quando era a disagio.

"Che cazzo sta succedendo?" si era chiesto Greg, "Perché un'infermiera dovrebbe essere più brava di un ex-soldato a sparare?"

« Io… tu… » la voce di John tremava, tratteneva il respiro tra una parola e l'altra, per poi sputarlo fuori dalla bocca in modo violento insieme ai suoni, « Questo… è… »

« John. » lo riprese ancora Sherlock, guardandolo con un'espressione che Greg non comprese, « Non balbettare. »

Se possibile, John si fece ancora più rigido, scattando praticamente sull'attenti.

« Bene. » soffiò, « Me ne vado. »

Fece un cenno a Greg, ancora fermo a bocca aperta, e si voltò.

« Bene. » rispose Sherlock in un sussurro non abbastanza basso perché John non potesse sentirlo.

E infatti il medico lo prese come una sfida, si girò verso Sherlock come una furia, puntandogli l'indice contro, aprì la bocca per qualche commento tagliente, ma all'ultimo sembrò ripensarci.

« Bene! » esclamò invece, prima di rigirarsi e questa volta allontanarsi a passo marziale.

Lestrade, ancora incredulo per ciò che era appena avvenuto, si concentrò su Sherlock, ma quest'ultimo non aveva seguito l'uscita di scena di John, ed era invece rivolto verso il fiume, lo sguardo a puntare dritto verso il sole al tramonto, la cui luce morente giocava sui suoi riccioli e nei suoi occhi verdi.

Se non avesse conosciuto bene Sherlock, Greg avrebbe detto che il suo era un volto pieno di tristezza.

Lestrade stava per dirgli qualcosa, quando un metallico doppio 'bip' lo distolse dal suo proposito. Sherlock si mise una mano in tasca, estrasse il suo telefono cellulare e…

 

"Oh."

Greg si interrompe, la bocca che si dischiude, mentre l'illuminazione lo colpisce.

"Cazzo, ecco cos'era! Come abbiamo potuto essere così ciechi?"

« Be'? » lo apostrofa Sherlock, il tono divertito, « Si è dimenticato la lezioncina imparata a memoria, Ispettore? »

« Cos- » Greg si guarda veloce intorno, ritornando bruscamente coi piedi per terra, « No, certo che no, Sherlock. Nessuna lezione mandata a memoria. Il racconto è finito: hai letto il messaggio che ti è arrivato, hai preteso qualche campione dalla scena del crimine e poi te ne sei andato sputando insulti come tuo solito. »

Lestrade non si fa deconcentrare dal detective che sta già aprendo la bocca per replicare, e si volta verso Mycroft, che è vicino a una parete con una gamba davanti all'altra e che si sostiene in piedi con il suo ombrello, fissandolo negli occhi.

« Signor Holmes. » inizia, cercando di nascondere l'eccitazione nella propria voce, « Avrei bisogno di parlarle. »

L'uomo lo guarda con un'espressione curiosa.

« Immediatamente. » aggiunge allora Greg, sperando che l'altro colga l'urgenza nel suo tono.

« Molto bene. » replica allora Holmes con gentilezza, avvicinandosi alla porta, « Se vuole precedermi… » lo invita.

Lestrade non se lo fa ripetere due volte, e esce dalla stanza, mentre sente Mycroft dare un paio di istruzioni.

« Faremo un'altra pausa. Credo che nessuno abbia qualcosa da ridire. Vi convocherò di nuovo io stesso fra poco. »

Mycroft si congeda, e segue Greg che sta già entrando nella stanza della loro indagine.

Lestrade si torce le mani, e appena Mycroft chiude la porta dietro di sé quasi lo aggredisce con le parole.

« Mycroft, cazzo, come abbiamo fatto a non notarlo?! »

Lestrade sembra fuori di sé, prende a percorrere la stanza in nervose falcate, e Mycroft assume un cipiglio indispettito, che Greg non saprebbe dire se causato dall'imprecazione che si è lasciato sfuggire o piuttosto dall'uso del nome di battesimo di Holmes, che non aveva mai avuto il coraggio di adoperare.

« Per l'amor del cielo, Gregory, calmati! » esclama Mycroft, adeguandosi un poco al registro dell'altro, « Cosa stai cercando di dire? »

Lestrade si blocca, e si pianta davanti a Mycroft, guardandolo negli occhi.

« Il cellulare, Mycroft! The bloody phone! »

L'espressione sul viso di Mycroft cambia all'istante, mentre il suo cervello fa il collegamento.

« Il telefono di Sherlock. » specifica, mentre Greg annuisce con vigore davanti ai suoi occhi.

« Non è stato trovato, giusto? » chiede l'Ispettore, « Né a Baker Street, né addosso a Sherlock. »

« No. » conferma Mycroft, mentre estrae dal taschino della giacca l'orologio d'oro, « Eppure ce l'aveva sempre con sé. »

« Potrebbe essere importante, non è vero? » chiede ancora Lestrade, frenetico.

Mycroft gli scocca un'occhiata penetrante da sopra l'orologio.

« Lo è, Lestrade. Lo è sicuramente. Ottimo lavoro. »

Lestrade si esibisce in un sorriso tirato.

« Potrebbe ancora averlo… »

« Il rapitore di Sherlock? » Mycroft finisce la frase per lui, « Possibile. »

« E potrebbe essere con quello… »

« Che si sono tenuti in contatto? Altamente probabile. Come con Moriarty, d'altronde. »

« Allora metterà i suoi uomini a cercarlo? L'MI-5[4]? » chiede Lestrade, passandosi una mano fra i capelli brizzolati.

« Forse ho un paio di uomini ben più motivati dell'Intelligence. » ribatte il Governo Inglese, il labbro tirato lievemente all'insù e un luccichio negli occhi che, davvero, Greg preferisce non sapere cosa significhi.

« Be' » si limita a sbottare, « Allora si sbrighi a fare le sue chiamate, signor Holmes, perché… Well, the question is: where is his phone now[5]? »

 

 

***

 

 

John é in piedi davanti alla finestra, gli occhi fissi sullo splendido skyline della City che l'essere all'ultimo piano della Casa Bianca in MayFair da l'opportunità di ammirare. In realtà però non é del giusto stato d'animo per riempirsi gli occhi dello spettacolo della sua amata Londra, ed é molto più concentrato sull'interno della propria testa.

Si sta biasimando per come ha agito precedentemente, per non essere riuscito a mantenersi distaccato, rigido, controllato come gli anni da soldato gli hanno insegnato a essere. Ma con Sherlock non è mai stato facile comportarsi così.

« Tesoro, tutto bene? » la voce cristallina di Mary lo fa sobbalzare, e per poco non gli cade di mano la tazza di porcellana.

John inspira a fondo, e si volta ad affrontare la moglie, i raggi del sole pomeridiano che gli illuminano i capelli, facendoli ritornare a quel biondo che gli anni gli hanno portato via.

« Sì, Mary, tutto ok. Sto solo bevendo un tè. » la rassicura, alzando la tazza davanti agli occhi e dunque portandola alla bocca, solo mimando il gesto di bere, perché sa che il liquido all'interno si è freddato da tempo.

Mary entra nella stanza, lo fissa brevemente e poi distoglie lo sguardo, andando a concentrarlo fuori dalla finestra. Ma entrambi sanno che ha capito benissimo.

« Fra poco sarà il tramonto. » dice la donna, iniziando una conversazione che John non ha voglia di seguire.

« Già. » si limita a rispondere, la mente altrove.

« E domani sarà una settimana. »

« Una settimana? » chiede, e la guarda senza capire, senza vederla davvero.

« Una settimana da quando Sherlock è stato ritrovato. » annuisce la moglie.

Lo sguardo di John si fa nuovamente lontano. "Una settimana…" pensa, "Non sembra vero."

Nonostante il tempo passato, Sherlock non ha recuperato la memoria, la propria mente smarrita. E almeno in apparenza, nemmeno i ricordi della sua prigionia. John, non potendo visitare l'amico in prima persona, ha parlato con i medici che si sono occupati della guarigione di Sherlock. Quella fisica, ovviamente.

Gli hanno detto che in casi di tortura come quello, è piuttosto consueto che il paziente elimini quei momenti dal proprio cervello, a volte a causa dello shock, a volte in maniera più volontaria di quanto si potrebbe pensare. Lo Sherlock che John conosce non avrebbe mai fatto una cosa del genere, soprattutto se avesse significato perdere per sempre informazioni utili, e nemmeno riesce a pensare che un uomo forte quanto il suo migliore amico abbia subito un trauma tanto grande. Anche se, presumendo che Mycroft abbia ragione e siano state usate su di lui le tecniche del SERE… John si ritrova a deglutire mentre questi pensieri gli passano per la testa.

"Be', se questa è la verità qualsiasi cosa è possibile, persino lui sarebbe stato in difficoltà." riflette, "E forse è meglio così, che l'abbia cancellato. Ho visto come la consapevolezza di essere stati sottoposti a quelle torture, il loro solo ricordo… possa distruggere un uomo."

In ogni caso, il dottore è costretto ad ammettere che quello, dopotutto, non è lo Sherlock che conosceva.

Gli occhi di John si serrano: "Dio… quanto mi manca."

Una leggera carezza sui capelli riscuote John dai suoi ragionamenti.

« Vado a controllare la signora Hudson. » dichiara Mary, facendo scivolare via la mano dalla testa del marito, « Il suo male all'anca è peggiorato, a quanto pare. Spero che quei due si sbrighino, in quella strana stanza. Non va bene fare aspettare un'anziana donna così a lungo… »

La donna si allontana, continuando a borbottare, ma qualcosa nelle sue parole ha attirato l'attenzione di John.

« Chi? E che stanza? » si volta a chiederle, un'espressione confusa sul volto.

« Greg e Mycroft, intendo. » risponde, la testa che si inclina da un lato, « C'è questa stanza piena di bacheche, appunti, fogli e post-it… in cui stanno conducendo una specie di indagine, direi. Non ne sapevi nulla? »

Le dita di John si stringono intorno alla tazza, alla ricerca di un calore che non trovano.

« No. » risponde secco.

John vede gli occhi di Mary velarsi di comprensione e dolcezza, e non riesce a sopportarlo. Si gira, tornando a fissare lo sguardo oltre i vetri della finestra.

Sente la porta chiudersi, e sa che Mary ha compreso: ha bisogno di stare da solo.

"E così quei due stanno indagando per conto loro. E non mi hanno detto nulla."

D'improvviso John si sente immensamente stanco, e ferito, e tradito, e stufo di sentirsi in quella maniera.

Non gli hanno detto nulla perché credono non sia in grado di sopportarlo. Perché è stato oltremodo inutile fino a quel momento. Perché è solo la pallida imitazione del sicuro medico, forte ex soldato in congedo dall'Afghanistan, che è sempre stato.

Come cazzo è successo che sia finito così? Come ha potuto ridursi in quello stato? Come è possibile che sia stato talmente debole e vigliacco da non meritare più la fiducia dei suoi amici, da non ottenere null'altro che la loro compassione?

John è nauseato da se stesso. "Questa cosa deve finire. Ora."

« Basta! » esclama, le parole che rispecchiano i suoi pensieri.

Di riflesso, le sue mani si stringono con convinzione attorno alla tazza. Usano fin troppa forza, si accorge in ritardo, mentre con un debole schianto la porcellana si rompe, sgretolandosi fra le sue mani. Tè, pezzi di ceramica e sangue gocciolano e cadono al suolo, e John rimane immobile, sbattendo lentamente le palpebre, guardando ciò che ha fatto senza riuscire a rendersene conto.

Il dolore esplode nella sua testa, non così prepotente, d'altronde si tratta solo di taglietti, ma abbastanza forte da colpire la sua apatia. E tutto a un tratto il suo cervello è di nuovo sgombro, libero, lucido. Il dolore ha sempre avuto questo effetto su di lui.

Apre e chiude le dita, le ultime briciole della porcellana che scivolano via, mentre si fissa la mano, e all'improvviso scatta, sentendo di nuovo l'energia inondargli le membra. Va al lavandino, gira il rubinetto e si lascia scorrere l'acqua sui palmi, afferra una spugna e con pochi gesti raccoglie da terra cocci, tè e sangue.

Poi, senza più degnare il pavimento o la finestra di uno sguardo, esce dalla stanza. In bagno fa in fretta, apre un paio di mobiletti e trova ciò che fa al caso suo: disinfettante e una corta benda per il taglio peggiore. La Casa Bianca brulica di dottori, in realtà, ma a John non è mai piaciuto farsi curare da altri, e quelle sono solo ferite superficiali. E poi non ha tempo per sciocchezze del genere, ora, la sua meta è un'altra.

Perciò, prima di rischiare di cambiare idea o di perdere coraggio, John s'infila nella stanza di Sherlock.

Nella camera regna una luce soffusa, e a fatica John riesce a distinguere i lineamenti di Sherlock, distesi, tranquilli, la testa abbandonata sul cuscino. Sherlock dorme, e John non si ricorda di quando l'abbia visto l'ultima volta così in pace, vulnerabile quasi. Il pensiero gli mette malinconia.

Si chiede distrattamente cosa stiano facendo Greg e Mycroft, oramai è passata quasi un'ora, ma non è quello l'importante.

Si accosta all'amico, i polpastrelli della mano sinistra - quella stretta nella benda - che si avvicinano piano al viso di Sherlock, fin quasi a sfiorarlo, ma all'ultimo si blocca, stringendo le labbra, e li abbassa invece sulla spalla, e poi giù lungo il braccio.

"Quanto dev'essere stanco per addormentarsi così in fretta? Non è da lui… Quant'è grande in realtà il dolore che prova?"

John scocca una breve occhiata all'erogatore della morfina, impostato al massimo.

« Oh, Sherlock… » sospira, mentre, senza accorgersene, accarezza il suo polso.

È un attimo, e sotto le dita sente della pelle ruvida, increspata, come arrotolata su se stessa in piccoli fili. Abbassa gli occhi, e con un singulto le vede: cicatrici, bruciature da strofinamento, pelle arrossata e non ancora completamente guarita. John ha visto segni del genere troppe volte per non sapere che sono ferite provocate da corde o qualcosa di simile.

È talmente concentrato nella sua analisi da perdersi il momento in cui Sherlock apre gli occhi.

« Ti compiaci delle tracce che hai lasciato su di me? » la voce carica di sarcasmo gli fa ritrarre la mano di scatto, « Dimmi, John Watson, sono come delle medaglie di guerra per te? »

Gli occhi pieni d'odio di Sherlock si fissano nei suoi, mentre la bocca di John si fa secca e il suo sguardo sconvolto. Le labbra gli tremano appena, e John sarebbe lì lì per rinunciare, perché quelle parole bruciano, bruciano lungo la gola, e sul suo stomaco, e poi fin su, nel suo cervello. Ma John ha fatto una promessa a se stesso, e non è passata nemmeno mezz'ora da allora, e davvero non può gettare via il suo orgoglio in quel modo.

Deglutisce, mandando giù il timore insieme alla saliva, e spera che la voce gli resti ferma abbastanza.

« Sherlock. » inizia semplicemente, « Io non ti ho mai fatto del male. »

« Ah no? » entrambe le sopracciglia di Sherlock si sollevano, e il suo sguardo di ghiaccio fulmina quello di John, « Eppure eri proprio tu. »

Sherlock chiude gli occhi, John li vede stringerli con forza, le mani che si uniscono sotto il mento: si sta concentrando.

« "Io sono John Watson." » recita, la voce contraffatta a imitare in modo terribilmente accurato la sua, « "Sono John Watson. John Watson ti sta facendo questo, non te ne dimenticare. John Watson." »

"Ecco, alla fine, la verità." pensa John, le mani che si aprono e si serrano nervose, "È questo che crede? Quanto ricorda in realtà?"

Il corpo di Sherlock trema, e John è combattuto tra la voglia di prenderlo a pugni per farlo risvegliare da quell'incubo, e il bisogno di stringerlo in un abbraccio per fargli capire che mai, mai, mai gli farebbe una cosa del genere.

Ma la verità è che, quando Sherlock riapre gli occhi e li punta nei suoi, in uno sguardo che mai gli ha rivolto, indifferente, distaccato, disgustato, al diavolo tutti i buoni propositi, John non sa proprio cosa fare.

« Sherlock » inizia balbettando, suoni che gli escono incontrollati dalle labbra, « Devi credermi, io- »

Ma Sherlock non saprà mai a cosa dovrebbe credere, e John non conoscerà mai quello che voleva dire, perché in quel momento la porta della camera di spalanca, la luce del lampadario si accende, e diverse persone entrano, dileguando il momento che c'era fra loro.

« Ah, dottor Watson, eccola. » fa Mycroft in tono affabile, « Ci chiedevamo dove fosse finito, ma vedo che ci ha preceduti. »

John rivolge un ultimo sguardo di Sherlock, che ha già distolto il suo, come non fosse accaduto niente di importante, come se non fosse successo proprio nulla.

Sospira, e si allontana di qualche passo, andando a prendere posto vicino a Mary, mentre Mycroft e Greg hanno già ripreso i loro.

« Possiamo ricominciare? » chiede ancora Mycroft, incrociando lo sguardo di John, in una muta richiesta di rassicurazione.

John annuisce: "Sì, possiamo ricominciare, e sì, Mycroft, va tutto bene."

John lo pensa, anche se non sa più se sia davvero la verità. Il suo sguardo si fa deciso, e mentre raccoglie i pensieri, i ricordi, per ricominciare a raccontare, giura a se stesso che non si farà travolgere, non stavolta, non più.

 

Era passata una settimana da quando Moriarty - o chi per lui - aveva lanciato il suo messaggio di sfida contro Sherlock e tutta Londra. In quel lasso d tempo, John e Sherlock non si erano più visti.

Il detective gli aveva mandato qualche messaggio al cellulare, ma erano solo richieste, a volte stupide e assurde tipo John, mi serve il tuo laptop. Portamelo. - SH. Come se Sherlock non sapesse perfettamente che John non abitava più a Baker Street, e oltretutto ignorando di averlo fatto arrabbiare e averlo ferito con una sola frase. Non che John si aspettasse una richiesta di perdono, figuriamoci, dal signor William "la-parola-scusa" Sherlock "nel-mio-vocabolario" Scott "non-esiste" Holmes. Nemmeno al suo ritorno dalla terra dei morti era riuscito a scusarsi in maniera normale e decente, quindi perché avrebbe dovuto cominciare ora?

John lo sapeva benissimo, e altrettanto bene sapeva quanto fosse inutile rimanere arrabbiato e offeso con il detective, eppure un 'vaffanculo!' gli usciva comunque, ogni volta che leggeva il suo nome nelle inbox dei messaggi.

Aveva deciso di ignorarlo. Era arrabbiato, perché non riusciva a spiegarsi il modo in cui Sherlock l'aveva trattato. Sembrava avesse proprio voluto prenderlo in giro, o peggio, escluderlo dal caso, e John non comprendeva per quale motivo.

Non era più un giocatore? Sherlock aveva deciso che il gioco per lui fosse finito?

Quando aveva creduto che la loro vita così come la conoscevano fosse conclusa, e l'amico gli aveva detto quelle parole - 'the game is never over, John, but there may be some new players now[6]', aveva creduto che Sherlock si riferisse a se stesso, perché in quel momento entrambi pensavano che se ne sarebbe andato via per sempre. Ma adesso?

Era così che sarebbe finita? Piano piano Sherlock si sarebbe allontanato sempre di più, per non coinvolgerlo in casi troppo pericolosi, lasciandolo a casa a crogiolarsi nella sua nuova vita di periferia perfettamente normale?

No, Sherlock non l'avrebbe mai fatto… non era così che funzionava la loro amicizia.

Eppure… "Cosa dovrei pensare? Cosa dovrei fare?" si era chiesto.

Perciò quel pomeriggio aveva trascorso almeno un paio d'ore a girare in tondo, misurando il salotto a rigidi passi, finché Mary, stufa, aveva abbassato sulle ginocchia il libro che stava leggendo in poltrona e aveva sbottato:

« John, smettila di fare così. È ovvio che vuoi andarci. Ingoia l'orgoglio e muovi il culo! »

John l'aveva guardata a bocca aperta, perplesso per come gli avesse parlato.

"Devo essere proprio fastidioso." aveva pensato.

Mary aveva spalancato gli occhi indicando con la testa la porta di casa.

« Be', ancora qui sei? »

John non se l'era fatto ripetere di nuovo, aveva afferrato la giacca e il mazzo di chiavi, e si era scapicollato fuori dalla villetta.

Aveva raggiunto Trafalgar Square che mancavano una ventina di minuti alle cinque e mezzo del pomeriggio, l'ora esatta in cui sette giorni prima Londra si era fermata sotto le minacce di Moriarty.

Chiunque si fosse occupato della questione aveva fatto le cose in grande: Trafalgar Square era completamente chiusa e transennata, l'accesso alla National Gallery interdetto - "Di sicuro hanno paura di un attentato", aveva pensato John - e così si poteva accedere solo dalla parte dello Strand, che infatti brulicava di gente ammassata, a malapena contenuta dalle forze di polizia. In mezzo alle due fontane, proprio davanti all'altissimo albero di Natale - e John si chiese per quale motivo non l'avessero ancora tolto, essendo ormai a metà gennaio - era stato installato un enorme schermo, come quelli usati per le partite di football o per le manifestazioni importanti. Evidentemente si aspettavano che Moriarty usasse di nuovo un video o qualche messaggio del genere, e avevano predetto la folla che ci sarebbe stata.

La piazza era invasa da poliziotti, militari e agenti dell'intelligence nelle loro uniformi scure, a urlarsi ordini l'uno contro l'altro attraverso le radioline attaccate alle spalle, e c'era persino un elicottero, che volava piuttosto basso, illuminando in sequenza tratti della piazza, quasi si aspettassero di veder sbucare Moriarty da un momento all'altro.

John riuscì a fatica, spintonando e lanciando scuse inascoltate, ad arrivare al limite delle transenne, e con disperazione guardò verso il centro della piazza: stava perdendo minuti preziosi, e se avesse continuato così non sarebbe riuscito a raggiungere Sherlock in tempo, ovunque si trovasse.

Percorse ansioso con lo sguardo tutta la piazza, finché non individuò, mollemente appoggiato a uno dei leoni sotto la Colonna di Nelson, l'unica figura che, alta e avvolta nel lungo cappotto, non si muoveva freneticamente da una parte all'altra ma restava immobile, lo sguardo rivolto verso lo schermo, che in quel momento era muto ma sintonizzato su uno dei canali della BBC.

Urlò forte il suo nome, ma ovviamente Sherlock non lo sentì - c'era troppo casino.

Afferrò il braccio di un poliziotto che sostava davanti alle transenne e gli chiese di poter passare, gridando per sovrastare il frastuono della folla. L'agente gli rise in faccia, e John cominciò a scaldarsi, il viso che acquistava una sfumatura rossastra e i pugni serrati.

« Senta. » sbottò, « Devo assolutamente passare. Lo vede quell'uomo là in mezzo? È il mio amico Sherlock Holmes, e io devo raggiungerlo! »

« Sì, come no. » lo derise quello, « E io sono il re d'Inghilterra! »

John era sul baratro, qualche secondo e avrebbe perso la pazienza. Alzò un braccio, preparandosi a una lunga lotta, quando vide passare a pochi metri una sgraziata figura familiare. Gli occhi gli si illuminarono di speranza.

« Anderson! » urlò, « Anderson, sono qui! Sono io, John! »

L'uomo si girò, attirato dal suo nome, spalancò gli occhi, riconoscendolo, e si affrettò a raggiungerlo.

« Dottor Watson! » esclamò, « Che ci fai qui? Credevo fossi già laggiù con Holmes! »

« Bloccato nel traffico. » borbottò seccato John a mo' di scuse, « Ti spiace portarmi dall'altra parte di quest'inferno? »

« Mh? » chiese quello, stralunato, « Oh, certo certo. »

Aprì un varco fra le transenne e John vi scivolò in mezzo, lanciando un'occhiata di trionfo e scherno all'agente con cui aveva battibeccato poco prima, intento a contenere le persone che volevano seguire l'esempio di John e passare oltre.

Anderson cominciò a blaterare qualcosa ma John non lo ascoltò, e si slanciò in avanti per raggiungere Sherlock. Quando gli arrivò vicino aveva il respiro pesante.

« Già a corto di fiato? » lo sbeffeggiò Sherlock, senza guardarlo, gli occhi fissi sul grande schermo davanti a loro.

« Ciao anche a te, Sherlock. » sbuffò John, deciso a non farsi offendere.

Studiò velocemente la figura di Sherlock, trovandolo molto più rigido e nervoso di quanto avrebbe potuto notare da lontano, o capire qualcuno che non lo conoscesse davvero. Aveva le mani affondate nelle tasche del cappotto, e nonostante la postura immobile e il volto fermo, i suoi occhi si muovevano affannosi da una parte all'altra, osservando e catalogando ogni cosa.

« Quanto manca? » chiese John, invece di fare all'amico qualche domanda sul suo stato d'animo.

« Meno di cinque minuti, se è puntuale quanto credo. »

« Cosa pensi che accadrà? » gli chiese, riprendendo fiato, i nervi a fior di pelle.

Il detective scrollò le spalle.

« Potrebbe succedere qualunque cosa. »

John sospirò, e Sherlock gli lanciò un'occhiata speculatrice con la coda dell'occhio.

« Sei venuto. » commentò, la voce bassa.

« Avevi qualche dubbio? » chiese John, appena divertito.

« Nemmeno uno. » rispose, e John vide le sue labbra sollevarsi in un lieve sorriso.

John indicò lo schermo.

« Hanno fatto le cose in grande, vedo. » fece notare.

« Sai com'è fatto mio fratello. » alzò le spalle Sherlock.

« Ah, sì, la solita Regina. »

A quell'uscita di John, entrambi scoppiarono a ridere, e il medico si sentì subito meglio: a quanto pareva si era preoccupato per nulla, niente era cambiato fra loro.

Ma le loro risate si spensero di colpo, quando lo schermo si fece all'improvviso grigio, i pixel impazziti mentre l'immagine del programma della BBC spariva. Qualcuno dovette alzare il volume del video, e subito invisibili casse sparsero per la piazza le prime note di "Stayin' Alive".

John intercettò una smorfia sul volto di Sherlock e seppe che l'amico ne aveva abbastanza di quella canzone, esattamente quanto lui.

Dopo pochi secondi, però, la canzone si interruppe in modo brusco, con un beffardo e secco rumore come di ruote che frenavano sull'asfalto.

I Bee Gees furono immediatamente sostituiti da una voce altrettanto nota ma ben più minacciosa.

Sì sì ok, basta con questa storia, abbiamo capito tutti. Non è forse vero?

John gemette e si strofinò gli occhi con due dita, riconoscendo il tono squilibrato e ironico di Moriarty.

"Dio, è come averlo di nuovo qui davanti." riflettè.

E mai pensiero fu più profetico, perché passarono una manciata di istanti e i pixel grigi sfumarono e vennero sostituiti da un sorridente Moriarty, ripreso a mezzo busto con uno sfondo rosso sangue alle spalle.

John fissò a bocca aperta lo schermo, incredulo, lanciando poi uno sguardo a Sherlock, registrando la sua mascella contratta e comprendendo che non fosse il momento per chiedergli spiegazioni. Non che il medico potesse trovare la forza di aprir bocca, in realtà.

Il Moriarty sullo schermo spalancò le braccia.

Buongiorno Londra! Buongiorno Trafalgar Square! Disse, rendendo il suo sorriso, se possibile, ancora più inquietante.

"Dannato Mycroft e le sue manie di grandezza!" pensò John, perché avere davanti agli occhi un Moriarty centinaia di volte più grande del normale non era affatto una bella sensazione. Quello nel frattempo continuò a parlare, spostandosi nello spazio dello schermo con le sue solite allarmanti movenze, che toglievano ogni dubbio sulla reale identità dell'uomo.

Vedo che avete fatto le cose in grande. Oh, persino uno schermo gigante! Sono lusingato.

Moriarty si portò una mano al cuore, come se fosse davvero deliziato, poi si avvicinò alla telecamera, rendendo il suo volto gigantesco, quasi cercasse un contatto, una qualche complicità con le persone dall'altra parte dello schermo.

Avanti, Sherlock, parla! So che te lo stai chiedendo e sì, posso vederti, sentirti, risponderti. E no, questa non è una registrazione.

Un luccichio ferino apparve negli occhi di Moriarty, e John potè sentire tutta Londra trattenere il fiato con lui. Il silenzio nella piazza era assoluto.

Si voltò verso Sherlock, con l'espressione di chi tenta di aggrapparsi alla sua ancora di salvezza.

Sherlock sembrava calmo, composto, totalmente padrone di se stesso, e John, per l'ennesima volta, si chiese come fosse possibile per il suo amico essere così reattivo.

« Mi sembra quanto meno ingiusto combattere ad armi impari. » disse con lentezza, scandendo bene le parole e accogliendo la silente sfida del suo acerrimo nemico.

Nemico che non perse nemmeno un attimo a rispondergli, notò John, cosa che provava con precisione quanto le parole di quel pazzo fossero vere.

E chi l'ha deciso che dovremmo possedere le stesse armi? Sono io che conduco il gioco, Sherlock. Mio il gioco, mie le regole.

« Molto bene. » la voce profonda e forte di Sherlock era l'unica cosa udibile nella piazza, ormai, « E allora dimmi…»

Dove sono? Cosa sto facendo? Yawn. Moriarty lo interruppe mimando uno sbadiglio. È davvero importante?

Sherlock esitò per un attimo, ponderando la cosa, le iridi che gli si facevano più scure. John avrebbe voluto aiutarlo, davvero, ma non aveva la più pallida idea di quello che stava succedendo. Si limitò a passare lo sguardo dal suo migliore amico, accanto a sé, allo schermo, desiderando tirarsi un pizzicotto ogni volta che i suoi occhi si riempivano della figura di Moriarty.

« No. » rispose alla fine Sherlock, « Non lo è. Che cosa vuoi? »

Cosa… cosa voglio? Moriarty si coprì teatralmente gli occhi con la mano. Che diavolo, sei davvero così ottuso? Voglio giocare con te, mi sembra ovvio!

« Perché? »

Perché mi sto terribilmente annoiando. E tu sei sempre stato il mio giocattolino preferito, Sherlock.

Sherlock annuì, come se le parole di quel pazzo avessero perfettamente senso.

John lo fissò a occhi spalancati. "Tutto questo non può essere reale." pensò, cercando di seguire le fila di quell'inconcepibile conversazione a cui stava assistendo.

« Spiegami le regole. » disse Sherlock con tono spiccio.

Oh, finalmente facciamo le domande giuste. Bisogna prendere sul serio chi è tornato dalla morte, Sherlock. Proprio tu dovresti saperlo questo.

Moriarty inclinò il viso da un lato, e John rabbrividì per quanto 'psicopatico' fosse quel cenno.

É tutto molto semplice, in realtà. Quelle tre bombe scoppiate non erano che una sciocchezza, capirai. I miei veri obiettivi sono ben altri. Forse la Bank of England, oppure il 10 di Downing Street [7], o forse Buckingham Palace, o perché no… l'intera City.

John deglutì, mentre il sorriso di Moriarty si allargava.

Le possibilità sono tanto illimitate da provocarmi il mal di testa. Riprese Moriarty, voltandosi di profilo, la mano che si agitava davanti a sé e la voce lamentosa. Si rigirò di scatto, guardando di nuovo dritto in telecamera, il dito indice puntato verso i suoi spettatori.

Ma! Devo ammettere che i miei bersagli sono tre. Alzò le tre dita centrali della mano destra, portandosela davanti agli occhi. Quindi tre saranno le manche della nostra partita. Se vinci tu… Abbassò l'anulare, lasciando aperte le altre due dita, e sollevò le spalle, un'espressione noncurante sul volto. Ma se vinco io… I suoi occhi si spalancarono, e John non poteva descrivere con nessun'altra parola se non "pazzia" il modo in cui il suo volto di accartocciò di violenta gioia. KABOOM! Urlò, facendo sobbalzare per lo spavento tutta Londra.

Passarono attimi di quiete e tensione.

Accetti? Chiese alla fine Moriarty, a uno Sherlock stranamente ammutolito.

John lo guardò con terrore, una voce nella sua testa che non la smetteva di urlare: "Cosa facciamo, Cosa Facciamo, COSA FACCIAMO, COSAFACCIAMO?"

Sherlock si passò la lingua sulle labbra, prima di rispondere.

« Sì. » disse alla fine, in un soffio.

Moriarty batté le mani, improvvisamente allegro, in un gesto che gelò il sudore lungo la schiena di John, per quanto ricalcava l'usuale modo di fare di un'altra precisa persona.

Ah, molto bene. Non mi aspettavo nulla di meno. Sì sì sì sì sì…

Si voltò, continuando a ripere quella parola ossessivamente, e allontanandosi sempre di più dal primo piano dello schermo, facendo domandare a John quanto fosse distante il fondale di quella ripresa. All'improvviso si girò di scatto, come se si fosse ricordato di qualcosa, tornando con pochi passi alla posizione di prima.

Però ho bisogno di una prova.

« Una prova? » chiese Sherlock, e per la prima volta dall'inizio di quell'assurda sceneggiata, John percepì della reale confusione nelle parole dell'amico.

Assolutamente sì. È passato un po' di tempo e sai… Gli occhi di Moriarty si assottigliarono, le mani che gesticolavano davanti al volto. Non vorrei che tu avessi perso lo smalto. Devo essere certo che tu sia ancora alla mia altezza.

« Cosa vuoi che faccia? »

Oh, nulla di complicato. Rispondi alla mia domanda: era innocente o si meritava di marcire in prigione?

Le sopracciglia di Sherlock si aggrottarono, ma prima che potesse formulare una domanda, Moriarty lo precedette.

Troverai tutto ciò di cui hai bisogno nel mio pacco regalo. Ti concedo 27 ore, da quando lo aprirai.

Si guardò il polso, come controllando un immaginario orologio, che invece non c'era.

E ora basta, caro, è stato divertente, ma abbiamo chiacchierato fin troppo.

Con uno scatto si raddrizzò, una mano aperta verso l'alto e l'altra in avanti verso un invisibile pubblico, in posa come se si preparasse a declamare qualche pièce teatrale. Poi gridò: Signori e signori, ecco a voi l'eroe di Londra, l'unico e il solo Sherlock Holmes!

« I'm not a hero, I'm a high-functioning sociopath. [8] » mormorò Sherlock a labbra strette, infastidito, mentre Moriarty si voltava, e la sua immagine cominciava a essere distorta in pixel grigi.

« Aspetta! » urlò Sherlock, la mano protesa verso lo schermo, perdendo per la prima volta la calma, « Dimmi perché. »

I pixel arrestarono la loro corsa al divorare l'intera immagine, cosicché solo un'ombra di Moriarty fosse visibile sullo schermo.

Ma le sue parole ironiche arrivarono ugualmente chiare.

Perché… desidero impartirti una lezione, mio caro. Una che non hai mai voluto imparare, accettare.

« Di cosa parli? »

Della verità. The truth hurts, my deary, but this truth… Verity will burn you whole. [9]

Lo schermo si spense definitivamente, con un basso sbuffo, come se qualcuno avesse pigiato il tasto "off" a una gigantesca televisione.

Quelle parole rimasero per lunghi minuti sospese nell'aria, a rendere il silenzio carico di sgomento.

Sherlock, ovviamente, fu il primo a riscuotersi.

Si mosse risoluto, circumnavigando lo schermo e dirigendosi verso l'albero di Natale. John dovette obbligare i propri muscoli a uscire dalla paralisi in cui sembravano essere caduti.

Quando raggiunse Sherlock, lo trovò accovacciato sotto l'albero, chino su un piccolo pacchetto ai propri piedi. John si avvicinò e poté distinguere il nome dell'amico scritto a lettere cubitali sul del regalo, l'inchiostro nero di pennarello che faceva a pugni con la carta rossa.

« Sherlock… » sussurrò John.

Il detective si alzò in piedi, rigirandosi fra le mani il pacco.

« È… » John deglutì, trovando finalmente la voce, « È quello che penso? »

« Credo proprio di sì. Ha detto "pacco regalo", il che era una chiara allusione a questo albero di Natale. E c'è scritto il mio nome, sopra. Non riesco a pensare a un altro motivo per cui dovrebbe esistere. »

« Hai intenzione di aprirlo ora? »

« Non ho ancora deciso se sia la cosa migliore da fare. »

Sherlock si portò una mano ai capelli, scompigliando i suoi riccioli. I due uomini rimasero qualche secondo a fissare il pacco, ognuno perso nei propri pensieri. John si disse con orrore che per quanto ne sapessero avrebbe anche potuto esserci una bomba, all'interno. Ma poi pensò a come i due avevano interagito, seppur separati da uno schermo: la loro era una vera sfida a colpi di intelligenza, per cui no, non poteva trattarsi di una bomba.

« Sherlock » chiese allora John, « Ora hai cambiato di nuovo idea? Su Moriarty? »

Sherlock si voltò a fissarlo negli occhi, con una luce strana.

« Insomma… era lì davanti ai nostri occhi, anche se dietro uno schermo, si muoveva, parlava, ti rispondeva in modo logico! Non posso credere di stare per dirlo, ma… è vivo! »

« John. » rispose con voce ferma, « Non affidarti solo alla tua vista. »

« E questo che diavolo vorrebbe…? »

Ma le parole gli morirono in bocca, perché Sherlock era impegnato a sciogliere il nastro del regalo, deciso ad aprirlo.

« Parte il conto alla rovescia. » disse il consulting detective, « Meno ventisette ore. »

 

Questa volta non appena John finisce il racconto guarda dritto verso Sherlock. L'uomo era stato più tranquillo del solito, mentre John narrava quegli eventi, e ora le sue sopracciglia sono increspate di poco, e ha un'espressione di vaga confusione dipinta sul viso.

Per un attimo, John pensa di aver ottenuto l'accenno di un cambiamento, ma non fa in tempo a pensarlo che viene smentito dalle parole del detective, intrise di veleno e derisione.

« Ma no! Non mi dica che ha davvero intenzione di bloccarsi qui sul più bello? Cercate di farmi appassionare, per caso? »

John scruta a fondo negli occhi dell'amico, ma vi vede solo freddezza e repulsione, e con un sospiro si chiede se non si sia immaginato tutto.

« Non è nostra intenzione, Sherlock. » risponde, sorprendendo persino se stesso per quanto sia ferma la propria voce.

« Il dottor Watson ha ragione, Sherlock. Nessuno sta cercando di manipolarti. » s'insinua nella discussione Mycroft, facendo un paio di passi avanti e roteando l'ombrello, « Per oggi abbiamo concluso. È stata una giornata intensa. »

John annuisce in conferma, e in silenzio tutti escono dalla stanza. John si attarda, fino ad essere l'ultimo in compagnia di Sherlock.

Si volta a guardare l'amico, indeciso se dirgli qualcosa, ma quello, ancora una volta, lo sorprende.

« Non si preoccupi, dottor Watson. Non ho più paura di lei. Oramai la sua presenza non mi provoca altro se non disgusto. »

John sospira e chiude gli occhi, cercando di farsi scivolare addosso quell'ennesima stilettata al cuore.

« Mi dispiace doverti lasciare di nuovo solo. Vorrei poterti essere più vicino. » dice invece gentilmente.

E viene ripagato dall'espressione più stupefatta di cui Sherlock sia mai stato capace.

"Non te l'aspettavi, eh?" esulta nella propria testa, "Prendi questo!"

Si volta, aprendo la porta, tentando di trattenere il sorrisetto di trionfo che sente nascergli sulle labbra.

« Alone is what I have. Alone protects me.[10] » dice Sherlock con voce profonda.

John stringe le dita sulla maniglia della porta.

"Come al solito devi avere sempre l'ultima parola, eh?" pensa, "L'ho capito, sono peggio di un estraneo per te, sono un nemico. Ora non c'è nulla di più vero, per te, della frase 'io non ho amici, ho solo nemici', che eri solito affermare prima che io la cancellassi dalla tua vita, tempo fa. Ma sai, si tratta solo di ricominciare da capo. Devo riguadagnarmi la tua fiducia, di nuovo, pezzo per pezzo. E cazzo se ci riuscirò, fosse l'ultima cosa che faccio!"

John scivola fuori dalla stanza, andando incontro alla moglie.

« Emy? » le chiede.

« Ho appena avvisato la baby-sitter che stiamo arrivando. » risponde.

Il medico annuisce, perché in quel momento l'unica cosa che vuole è tornare a casa da sua figlia, prenderla in braccio, sentire il calore che emana il suo corpicino, riempirsi le narici e la testa del suo profumo, appoggiarsela al petto e cullarla fino a notte fonda.

"Sherlock, ti prometto che non sarai più solo."

 

 

***

 

 

Molly si muove freneticamente per la stanza. Non è mai stata una persona capace di contenersi, è sempre stata piuttosto emotiva e tutta quella situazione… Se ne avesse il coraggio Molly si sarebbe già messa a urlare parecchi giorni prima. Non può contenere tutta quella tensione, quell'ansia. Davvero, non può.

Camminare le sembra una buona soluzione. Lo è. O forse no.

Comunque, camminare è quello che sta facendo in quel momento, e la tiene occupata dal pensare, e tanto le basta. Che poi in realtà pensa lo stesso, quindi non serve a nulla.

Ecco, ha di nuovo perso il filo dei suoi pensieri. Si blocca un attimo. Cos'è che stavo dicendo? Niente, ovviamente, non ha aperto bocca. No, non l'ha fatto. C'è troppo silenzio in quella stanza. Uhm.

Ah, sì, la bacheca.

Si trova nella stanza adiacente a quella in cui riposa Sherlock, quella con il grande tavolo nel centro dove si erano trovati la prima volta che Mycroft li aveva convocati. Molly ancora rabbrividisce a pensare a quel giorno. Appena una settimana prima, poi…

Cioè, non credeva di poter essere così felice (Sherlock che viene ritrovato) e subito dopo così disperata (Sherlock non è più se stesso) e così confusa (Sherlock che le dice tutte quelle cose che… be', meglio non pensarci).

Anche senza pensarci, Molly arrossisce ugualmente.

E quindi.

Molly guarda l'ora. È mezzogiorno e un quarto, e a breve arriveranno anche tutti gli altri. (Nella pausa pranzo, perché nessuno può più prendersi giorni liberi dal lavoro. Tranne Mycroft, naturalmente, e Lestrade, che sta seguendo il caso di Sherlock anche in via ufficiale, come DI. E Mary, che è in maternità, e quindi non lavora.)

Ma lei è arrivata prima, e ora sta cercando di trovare la forza di fare quello che deve fare. Il problema è che non è sicura sia la cosa giusta da fare. Il che è un bel dilemma, perché gli altri arriveranno a momenti, e lei non avrebbe il tempo materiale di parlargli, e allora…

No, ecco. Lo sta facendo di nuovo. Agitarsi, e pensare al peggio.

Si posiziona davanti alla grande bacheca, fissandola. Prendi un respiro profondo, Molly.

Così le avevano insegnato a lezione di yoga. Non ha mai funzionato in realtà, perciò davvero è assurdo che continui a provarci, ma la speranza è l'ultima a morire, no? Che poi ha sempre pensato fosse stupido, quel modo di dire. Mica la speranza può morire.

Uffa, perché continua a distrarsi in quel modo? Avanti, Molly, concentrati!

La bacheca. Sì.

Quella creata da Anthea, con il planning dei giorni, dei turni per i racconti… Molly in persona aveva chiesto di potersi inserire in quella fase. Deve assolutamente raccontare un episodio, avvenuto proprio lì. Molly ci ha pensato bene, e deve essere stato in quel momento. Dopo il racconto di John sul primo enigma lanciato da Moriarty, quella volta a Trafalgar Square. E John l'ha raccontato il pomeriggio prima, quindi ora tocca a lei.

Solo che, davvero, come fare per capire se sia la cosa giusta?

Quello è qualcosa che è sempre stato privato, solo fra lei e Sherlock, una specie di fragilità di Sherlock che solo lei aveva conosciuto, e ora… non è un po' come tradirlo?

Ma come può fare altrimenti? È importante che lo sappiano, che lui sappia, soprattutto.

Molly sa che può essere un mattoncino in più, nell'abbattimento del muro che Sherlock ha eretto contro tutti loro. Per questo ha scritto il suo nome sul post-it colorato e l'ha attaccato sulla bacheca creata da Anthea, la quale ovviamente non ha commentato.

Molly non ha mai sentito parlare quella donna. O se l'ha fatto, è stato per brevi parole. Sempre attaccata a quel suo cellulare. Un po' le mette i brividi.

Comunque. Per questo, Molly deve farlo. È praticamente un obbligo morale, il suo.

Quindi ora uscirà dalla stanza, e andrà da Sherlock, e cercherà di spiegargli perché lo deve fare. Anche se dubita che lui la ascolterà. Per più di un motivo (arrossisce di nuovo). Ma almeno ci avrà provato, e quando Sherlock tornerà in se stesso (perché Molly non dubita che accadrà), forse non se la prenderà con lei. O per lo meno non troppo. Spera.

Ecco, sì, bene. Drizza le spalle, sicura della sua decisione.

Le dodici e venti. Si mordicchia il labbro inferiore. Diavolo, farà meglio a sbrigarsi.

« Sherlock? » la sua voce è flebile (maledetta timidezza!), quando il volto di Molly fa capolino nella stanza del detective.

Sherlock è steso sul letto, il viso rivolta al soffitto. Le lancia un'occhiata, tirandosi su a sedere, mentre Molly entra nella stanza di qualche passo.

« In anticipo, Molly? » chiede, la voce bassa.

Ecco, l'ha chiamata per nome. Questo è un buon segno, no?

« Non ti avevo chiesto di evitarmi? » continua Sherlock.

Mh, forse no.

« Ehm… Io… Volevo parlarti un attimo. Da soli. »

« E credi davvero che questa sia una buona idea? » Sherlock le parla gentilmente, inclinando il capo da un lato, « Dopo tutto quello che ci siamo detti, dopo tutto quello che è successo fra noi? »

Il volto di Molly diventa rosso fuoco, all'istante.

Com'è possibile che fra tutte le cose che avrebbe potuto credere, tra tutto quello che avrebbero potuto decidere di infilare nel suo Mind Palace, proprio quella…? Oh, è così ingiusto! E la cosa più brutta è che Molly quasi vorrebbe che…

No, non deve pensarci! Non deve farsi distogliere dai suoi propositi. Anche se si sente talmente bollente per l'imbarazzo, da essere sicura che da un momento all'altro il pavimento fonderà e lei sprofonderà al piano di sotto e…

NO! Basta con queste stupide fantasie.

Ci sono solo lei, Sherlock, e la cosa che gli deve assolutamente dire.

« Sherlock. » inizia, la voce che trema leggermente. La ignora.

« Sherlock. Sono venuta a scusarmi con te. »

« Scusarti? » chiede meravigliato, « Per come sono andate le cose fra noi? »

È possibile assumere una sfumatura ancora più rossa del vermiglio? Molly non ne ha idea. Meno male che non può vedersi allo specchio in quel momento. Ma Sherlock può vederla, invece. Oh, Dio.

Maledizione, Molly, concentrati!

« No… » riesce a replicare, la voce sempre più malferma, « Ti ho già spiegato che… che quello che credi che sia successo… fra noi, non è mai accaduto, no. »

Molly scrolla forte la testa, sperando di rafforzare le sue parole, poi prende un respiro profondo, e per una volta sembra che lo yoga non abbia poi del tutto torto.

« Ascolta, mi devi credere. » ricomincia, stavolta più risoluta, « Se le cose fossero diverse non lo farei mai, non tradirei mai la tua fiducia raccontando qualcosa di così… delicato, diciamo. Ma non ho altre alternative. Per questo sto chiedendo il tuo perdono. »

Sherlock la guarda attentamente per lunghi secondi, e allora Molly desidera davvero che il pavimento si apra e lei cada al piano di sotto, pur di sottrarsi a quello sguardo indagatore.

« Molly. » dice alla fine, il tono non più gentile come prima, « Tutto quello che esce dalle vostre bocche per me non è altro che una grande menzogna, quindi perché dovrei perdonarti per il racconto che farai visto che tanto non ci crederò? »

Molly chiude gli occhi per un attimo.

Perché se fossi in te stesso, mi detesteresti per questo.

Ma non può dirgli questo, no. Apre la bocca per rispondere qualcosa, ma viene interrotta da John e Mary che entrano nella stanza, poi seguiti dagli altri (tranne la signora Hudson, che è rimasta a casa a causa della sua anca malconcia), e alla fine il momento giusto passa, tutto avviene in fretta, e senza rendersene conto deve iniziare a raccontare.

Molly apre la bocca, poi la richiude, quindi la riapre. C'è la possibilità che quello che racconterà riesca a smuovere almeno un pochino Sherlock, questa è la cosa importante.

Perciò… sì, dai, tutto considerato ce la può fare. Forse. Be', è ora di scoprirlo.

 

Sherlock borbottava a bassa voce, gli occhi che si spostavano dallo schermo del computer al microscopio, su cui stava chino ispezionando qualcosa che Molly non era certa di aver compreso.

Le sue dita volavano leggere dai tasti del laptop alle manopole del microscopio, e non c'era nulla da fare, erano un'enorme distrazione per Molly.

Cercava di osservarlo senza farsi scoprire, ma in realtà il detective non sembrava interessato a lei. (Che novità.)

Erano solo loro due nel laboratorio, John era passato a salutare e poi era dovuto scappare al lavoro. Anche Molly avrebbe dovuto lavorare, ma, oh, come si fa con uno Sherlock Holmes così concentrato a pochi metri di distanza? (Così affascinante.)

Dio, Tom non era mai stato alla sua altezza, come ha potuto pensare diversamente? Ma la verità era che è lei a non essere alla sua altezza.

Oh, andiamo, basta con questi pensieri. Era passato il tempo in cui Molly moriva dietro al detective. Non era più quella ragazza che faceva i salti mortali per ottenere un po' della sua attenzione. Sherlock è suo amico, e questo era tutto ciò che c'era da dire sulla faccenda. Punto.

Deglutendo, Molly percorse il breve spazio che li separava, e si avvicinò a Sherlock, cercando di capire cosa dicesse.

« Verity burns, verity burns, verityburns… » lo sentì alla fine bisbigliare in una lunga litania.

Era qualcosa che aveva detto Moriarty nel suo video la sera prima, se Molly ricordava bene.

Molly l'aveva già visto assumere quell'atteggiamento, quando stava meditando su qualche dettaglio, pur essendo al lavoro su qualcos'altro. Una "nota mentale", l'aveva chiamata lui.

Molly l'osservò attentamente. Osservare era sempre stata la cosa che le riusciva meglio, forse perché spesso era invisibile, così era libera di studiare gli altri in tutta tranquillità, ed era anche piuttosto brava a capire le persone.

Quello che le sembrò di comprendere in quel momento le piacque poco.

« Sherlock. » cercò di attirare la sua attenzione.

Il detective rimase chino sul microscopio, ripetendo quelle due parole, senza dar segno di averla sentita.

« Sherlock? » chiese, a voce un po' più alta.

« Mh? » rispose distrattamente, ma Molly sapeva che ancora non aveva la sua attenzione.

« Sherlock! » questa volta quasi urlò, appoggiandogli anche la mano sulla spalla, con delicatezza.

Finalmente il detective alzò gli occhi su di lei, sorpreso.

« Stai di nuovo facendo quella faccia. » disse con calma.

« Che faccia? » Sherlock scrollò le spalle. « È sempre la mia solita faccia. »

Molly si mordicchiò il labbro inferiore, chiedendosi se fosse il caso di continuare. Ma ormai era in ballo… e quella era una cosa su cui erano già passati. Poteva farlo, adesso.

« L'espressione che fai quando sei triste e non vuoi farlo vedere. »

Sherlock la fissò negli occhi per lunghi minuti, e Molly non ebbe dubbi che nel suo Mind Palace stesse ripercorrendo una conversazione simile che avevano avuto al tempo del "primo Moriarty", prima della sua caduta, prima che fingesse la sua morte… quando aveva temuto di poter morire sul serio.

Lei invece non aveva bisogno di alcun Palazzo Mentale per ricordarselo.

« Ah. » disse alla fine, « Non me ne sono accorto. Se ti da fastidio smetto. »

La sua gentilezza la preoccupò ancora di più.

« No. È solo che… è tutto ok? »

Molly vide passare un brillio nelle sue iridi, e nella sua testa risentì quelle parole che le aveva detto: "You do count.", come se Sherlock le stesse dicendo di nuovo in quel momento, come se stesse ancora una volta decidendo di fidarsi di lei.

« Carl Powers. » disse alla fine.

« Chi? » lo guardò confusa.

Sherlock sospirò, e si spostò vicino al laptop, afferrando il pacchettino rosso che aveva lasciato sul tavolo lì vicino. Era il pacchetto con l'enigma di Moriarty, Molly lo sapeva.

« Qui dentro c'erano tutte le informazioni di cui ho bisogno per risolvere il primo indovinello di questo Moriarty. Vuoi sapere cosa ci fosse dentro? »

Sherlock la guardò con le sopracciglia alzate, scuotendo il pacco. Molly si affrettò ad annuire.

« Un nome, Mary Sutherland [11], due foto della ragazza, » Sherlock le tirò fuori dalla scatolina e gliele mostrò, « E un piccolo campione di tessuto epiteliale sotto formaldeide, che sto analizzando proprio ora. »

Sherlock rimise dentro la scatolina la fiala di formalina che aveva contenuto il campione di pelle.

« Chi è Mary Sutherland? »

Sherlock si spostò davanti al computer, girandolo poi verso di lei e indicando lo schermo, su cui campeggiava quello che sembrava la prima pagina di un vecchio quotidiano. Molly strizzò gli occhi e si mise a leggere.

« Mary Sutherland… dichiarata colpevole per il delitto della sorella maggiore… nonostante continui a dichiararsi innocente. » lesse ad alta voce, man mano che l'articolo procedeva, poi alzò lo sguardo su Sherlock, « È questo che devi fare? Capire se l'hanno condannata ingiustamente? »

« Questo per rispondere alla domanda di Moriarty, sì. Ma non è quello il vero enigma. »

Molly lo guardò senza capire, Sherlock si sedette su uno degli sgabelli del laboratorio, e unì le punte delle dita accanto al mento.

« La sorella di Mary Sutherland venne uccisa nel 1984. » disse, « Io avevo appena cinque anni. Carl Powers, il ragazzo che venne assassinato da Moriarty perché lo infastidiva, è morto cinque o sei anni dopo. Io ero abbastanza grande per accorgermi delle scarpe, per rendermi conto che mancasse qualcosa, e Moriarty era abbastanza grande da portare a termine il suo primo omicidio. Vedi qual è il problema? »

« Ehm… » Molly cercò di ragionare, « Che all'epoca di Mary Sutherland eravate entrambi troppo piccoli? »

« Esatto! Moriarty iniziò con Carl Powers, una cosa successa decenni fa, perché era importante, è qualcosa che ci unisce, ecco perché l'aveva scelto come sua prima sfida. Ma questo delitto? Cosa significa? Non ha senso, è fuori dallo schema! Io non ne avevo mai sentito parlare prima, e Moriarty… sempre che sia lui, ovviamente. »

Molly si ritrovò senza parole, non sapeva proprio cosa potergli rispondere. Sherlock era di nuovo nel suo Mind Palace, a quanto pareva, e Molly non avrebbe dovuto disturbarlo, ma c'era sempre quell'espressione triste sul suo volto, e sapeva di non poter lasciar correre.

« Cos'altro c'è, Sherlock? Voglio dire… so che non è tutto qui. »

Sherlock le scoccò una breve occhiata, ma non sembrava intenzionato a risponderle. Molly avrebbe dovuto spingerlo ancora un po'.

« Perché prima ripetevi "verity burns"? »

« Ah, lo dicevo ad alta voce? » commentò divertito, senza guardarla.

Eh, no. Se Sherlock pensava di potersi nascondere da lei usando l'ironia si sbagliava di grosso.

« Sherlock. » ordinò, la voce ferma, « Tell me what's wrong. [12] »

E Sherlock riconobbe quelle parole. Le sue mani si sciolsero dalla postura del 'pensatore' e gli ricaddero in grembo, gli occhi si scurirono, sembrò che qualcosa in lui si frantumasse, e Molly poté rivedere quello sguardo smarrito, confuso, privo della sua solita sicurezza, della sua forza. Un'espressione che Molly aveva sperato di non rivedergli mai più.

« Sono un uomo di ragione, Molly. Di logica. Non sono avvezzo a sentimentalismi, non sono solito seguire cose futili come le sensazioni. » la fissò per un attimo negli occhi, per poi distogliere subito lo sguardo, come se si vergognasse delle sue parole, « Eppure ho come un presentimento. »

« Che tipo di presentimento? » aveva chiesto in un soffio Molly, esortandolo a continuare.

Passarono lunghi secondi prima che la voce di Sherlock risuonasse di nuovo nel laboratorio, il tono serio e greve.

« Che accadrà qualcosa di terribile, e che non potrò farci nulla. Nessuno potrà aiutarmi questa volta, né John, né Mycroft… nemmeno tu. Sono solo. »

Sherlock la guardò, mentre Molly cercava disperata qualcosa da dirgli per rassicurarlo.

Non la trovò, e Sherlock sbattè le palpebre lentamente, poi scosse la testa, si alzò e uscì dal laboratorio, senza che Molly avesse la forza di fermarlo.

 

 

***













 

Note:

 

[1] CCTV = acronimo per Closed Circuit Television, la televisione a circuito chiuso con cui viene sorvegliata Londra e di cui Mycroft si serve, come vediamo fin da A Study in Pink.

 

[2] When I've eliminated the impossible, whatever remains, no matter how mad it might seem, must be the thruth. = Quando si elimina l'impossibile, quello che rimane, non importa quanto assurdo possa sembrare, deve essere la verità. Famosa frase di Sherlock, usata anche in The Empty Hearse (nella versione: "Se si eliminano gli altri fattori, quello che rimane deve essere la verità"). Ho preferito usare la frase originale del Canone, come fosse qualcosa che Sherlock ripete spesso e che quindi Mycroft può 'sentire' nella propria testa.

 

[3] Semtex. È un tipo di esplosivo plastico, con la particolarità di resistere a più alte e basse temperature rispetto agli altri esplosivi e di essere impermeabile. È l'esplosivo usato da Moriarty sulle sue vittime in The Great Game.

 

[4] MI-5 = Military Intelligence, sezione 5. Sono i servizi segreti interni dell'Inghilterra, per la sicurezza e il controspionaggio, più volte nominate e utilizzate da Mycroft.

 

[5] Well, the question is: where is his phone now? = Be', la questione è: dov'è il suo telefono ora? Citazione da A Study in Pink, pronunciata da Sherlock, quando il problema è ritrovare il cellulare scomparso della donna in rosa. Citazione adattata, in quanto l'originale dice "her" e non "his phone".

 

[6] The game is never over, John, but there may be some new players now. = Il gioco non finisce mai, John, ma potrebbero esserci nuovi giocatori ora. Citazione da His Last Vow, pronunciata da Sherlock durante il suo ultimo saluto con John, prima di partire con l'aereo.

 

[7] Downing Street, 10: è la residenza del Primo Ministro Inglese. Nominando questo e Buckingham Palace, Moriarty sta minacciando i più alti vertici del Governo Inglese.

 

[8] I'm not a hero, I'm a high-functioning sociopath. = Non sono un eroe, sono un sociopatico ad alta funzionalità. Citazione da His Last Vow, pronunciata da Sherlock prima di sparare a Magnussen.

 

[9] The truth hurts, my deary, but this truth… Verity will burn you whole. = La verità fa male, mio caro, ma questa verità… La verità brucierà tutto te stesso. Frase centrale della fic, direi :P Come avevo anticipato nel prologo, c'è un riferimento alla frase di Moriarty detta in piscina in The Great Game ('I will burn… the heart out of you.') Anche se ovviamente qui la parte più interessante è la differenza truth/verity, che Sherlock non esiterà a notare, ben presto. Preferirei non tradurla, nella storia, appunto per questo, poiché la parola "verity" ha anche un'accezione di "realtà" che truth sottolinea meno…

 

[10] Alone is what I have. Alone protects me. = La solitudine è quello che ho. Essere solo è ciò che mi protegge. Citazione da The Reichenbach Fall, pronunciata da Sherlock e seguita dalla bellissima frase di John: 'No. Friends protect people!'

 

[11] Mary Sutherland, è la cliente di Holmes e Watson in "A Case of Identity", racconto di Doyle, dal quale ho chiesto in prestito il titolo per questa parte di storia. Ovviamente non c'entra nulla con il caso della vera Mary Sutherland di Doyle, ma mi sembrava carino tributarle questo nome.

 

[12] Tell me what's wrong. = Dimmi cosa c'è che non va. Citazione da The Reichenbach Fall, pronunciata da Molly quando Sherlock va a chiederle aiuto, dopo che Molly gli ha detto di essersi accorta che lui è triste. Tutta questa scena di Molly e Sherlock è ispirata a quella nella 2x03, l'accenno alla "nota mentale", il 'you do count', il fatto che Molly sappia che Sherlock non stia bene…

  
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