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Autore: Allison Argent    18/03/2014    1 recensioni
«Onestamente, Quinn non se lo ricordava neanche più quando era stato l’inizio di tutto. Erano passati anni, ma quanti? Cinque? O forse sei, sette? Forse, forse non c’era mai stato un inizio, forse alcune cose ci sono sempre state e come un punto di partenza non hanno una fine, sono lì, slegate da tempo e spazio.»
{P/Q; songfic}
Genere: Angst, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Noah Puckerman/Puck, Quinn Fabray | Coppie: Puck/Quinn
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Just Give Me a Reason
Rating: arancio
Pairing: P/Q

Word count: 7k+
Disclaimer: i personaggi non mi appartengno, se mi appartenessero non avrei fatto aspettare i poveri Quick shipper così tanto tempo prima di avere un duetto. 
Nota dell'Autore: spero che, chiunque tu sia che stai leggendo, questa song-fiction ti piaccia. E' un po' impegnativa e lunga, lo so, ma ti prometto che alla fine ne varrà la pena. Se invece avrò torto, allora avrai tutte le ragioni del mondo per mandarmi una bomba sotto casa per averti fatto perdere tempo. Io, comunque, ti ringrazio per aver deciso di leggere anche fino a qua <3







 
A te.
Perché cantano la nostra canzone. 
Perché tremavo.
 
 



 
΅΅΅΅

 
“right from the start you were a thief,
you stole my heart and I your willing victim”
 


Onestamente, Quinn non se lo ricordava neanche più quando era stato l’inizio di tutto. Erano passati anni, ma quanti? Cinque? O forse sei, sette? Si ricordava degli allenamenti nel campo da football della loro scuola media, quando i capelli dovevano ancora crescerle oltre le spalle e il suo corpo assomigliava a quello di una ragazzina. E lui era sempre stato lì, a scherzare con i ragazzi più grandi che l’avevano preso sotto la loro ala, ed era pronto a tenere in pugno il liceo una volta che sia lui che lei avrebbero lasciato alle spalle i corridoi delle medie.
Erano sempre stati nello stesso gruppo, seduti allo stesso tavolo al centro della mensa, si capivano a vicenda più di qualunque altro, sembrava che viaggiassero sulla stessa lunghezza d’onda. Non che la cosa sarebbe poi cambiata con il passare del tempo; di tutti i suoi amici, l’unico con cui si fidava completamente e ciecamente sarebbe sempre stato Puck. Più di tutti, più di Santana o Brittany o perfino Rachel che nonostante tutto era diventata una delle sue più care amiche.
Ma l’inizio forse era stata quella volta nell’auto di seconda, o forse terza mano, che gli aveva regalato sua madre per i suoi quindici anni, quando invece che portarla a casa dopo le lezioni si erano trovati nel parcheggio di una palestra dispersa tra altri magazzini, la pioggia che batteva forte contro i vetri che nascondeva il suono dei loro respiri. O forse l’inizio era stato quando si era presentato sotto la finestra di camera sua per discutere del fatto che Finn, dopotutto, non era poi così speciale e non capiva come lei, Quinn, avesse potuto scegliere di stare con lui. Avrebbe anche potuto sostenere che l’inizio era stato quella volta, la prima, che le aveva comprato un gelato dopo che delle ragazzine l’avevano presa in giro. Le aveva detto che le loro parole erano solo frutto di gelosia, perché chiunque avrebbe voluto essere Quinn Fabray. Lei gli aveva sorriso e accettato il gelato alla menta, ma non gli aveva detto che Quinn Fabray, invece, avrebbe voluto essere un po’ meno se stessa e un po’ più come Noah Puckerman.
Forse, forse non c’era mai stato un inizio, forse alcune cose ci sono sempre state e come un punto di partenza non hanno una fine, sono lì, slegate da tempo e spazio.
 


 
“I let you see the parts of me that weren’t all that pretty,
and with every touch you fixed them”
 


Perciò appena tutto era troppo, aveva iniziato a correre da lui. Quella che una volta era amicizia si era trasformata a un certo punto (e anche quella transizione non aveva idea di come o quando fosse successa) in qualcosa di indefinito e diverso da qualsiasi altra relazione che avesse avuto in quei sedici anni di vita. C’erano state volte in cui era stata sul punto di urlargli di smetterla di rincorrerla, la doveva smettere perché non poteva permetterle di fare del male sia a Finn, sia a lui, al suo Puck, al ragazzo che sarebbe stato sempre un gradino più in alto rispetto a chiunque altro. A quel ragazzo che aveva il potere di farla ridere come nessun altro e allo stesso tempo far si che Quinn rimanesse chiusa nella sua camera un po’ troppo femminile, un po’ troppo viola, per ore a nascondere i singhiozzi tra la trapunta e i quattro cuscini.
Poi era arrivata la negazione, era arrivata la codardia. Ma non solo da parte sua: anche lui aveva fatto la sua parte, con le occhiate fugaci e il rinnego del fatto che ci fosse stato qualcosa con la ragazza del suo migliore amico prima o mentre stavano uscendo insieme, con quei discorsi su quanto fosse importante Finn, il suo unico vero amico, e come non avrebbe mai potuto rovinare la propria amicizia con lui. Solo dopo anni Quinn era riuscita a ridere sarcasticamente e dire “sì, certo, dillo al te di due giorni dopo che mi apriva la zip della gonna.”. Quella volta lui aveva sbuffato e aveva deciso di non ribattere, perché se avessero cominciato, non aveva idea di quanto sarebbe andata avanti la discussione (sarebbe andata avanti per anni, continuava ancora adesso).
Poi era arrivato il terzo anno e il buio, il quarto, il buio, il buio ancora e lui che impotente non sapeva come comportarsi con Quinn che lo rifiutava e si chiudeva in se stessa ogni giorno sempre di più. Quando la guardava dal suo armadietto camminare per i corridoi, gli occhi spenti e lo sguardo che spesso si abbassava, stringeva i pugni e doveva trattenersi dal correre da lei, stringerle le braccia e scuoterla e dirle che lei poteva farcela, lei era la più intelligente, la più bella, lei era forte. Lui era forte per lei, lui era forte con lei, e vederla spegnersi sempre di più era come sentire appassire una parte di lui, quella più grande, la più importante.
Però quelle cose non le aveva mai fatte, perché lei l’avrebbe guardato con un sopracciglio inarcato, gli occhi freddi come il tono, la voce che gli diceva di non preoccuparsi per lei, perché lui non sapeva niente, non capiva niente, non la conosceva.
Però Puck non sapeva che quei gesti e quelle parole sarebbero state la sua unica ancora in un mare di indecisione e paure.
Era colpa di entrambi, perché si erano sempre ostinati a non parlare per il loro stupido, stupidissimo, orgoglio.

 

 
“Now you’ve been talking in your sleep, things you never said to me,
tell me that you’ve had enough of our love”

 

Una volta l’aveva chiamata nel bel mezzo della note quando si stava ancora abituando alla vita lontana dai sobborghi dell’Ohio, dove aveva passato l’infanzia e la propria adolescenza. L’aveva chiamata una sera in cui i muri della sua nuova camera erano un po’ troppo bianchi, un po’ troppo spogli.
“Ti ricordi, ti avevo detto che avrei incollato le foto delle persone più importanti e avrei scritto: “people that I love” e sarebbe stato come avervi ancora qui.”
Glielo aveva detto.
“Ma non l’ho mai fatto.”
Aveva sentito solo il suo respiro, quindi aveva smesso di parlare anche lei. Non l’aveva fatto perché tutto il senso che aveva potuto avere sarebbe andato perso non appena avesse smesso di parlare con quelle che erano state le sue migliori amiche e quando qualcosa di grosso e inevitabile sarebbe successo con lui, perché se lo sentiva, lo sapeva che quella tregua nata dalla lontananza non sarebbe durata a lungo perché era così che facevano: correvano e si ritrovavano e scappavano e si tenevano stretti e poi buio buio buio e silenzio.
E quando la chiamava lo sentiva accarezzare le corde della sua chitarra acustica e sapeva che era seduto sul suo letto da qualche parte della California ma non gli chiedeva mai di suonare qualcosa, non gli chiedeva mai neanche di parlare perché non c’era più niente da dire.
E poi c’era stata l’ultima chiamata, quella a cui lei non aveva saputo essere all’altezza. Ne aveva ricevuta una da lui, da sua madre e perfino da Rachel e nonostante tutto non era riuscita a trovare la forza o il coraggio di presentarsi anche lei a casa, dove la sua memoria era ancora così impressa in ogni luogo in cui sarebbe passata. Non ce l’aveva fatta e se ne dava una colpa perché era stata l’ennesima conferma che l’unica ad essere ancora così spaventata e debole era lei, solo lei. Ma aveva trovato Puck una sera, due giorni dopo che era successo, parcheggiato davanti al portone del suo condominio ed era salita sull’auto blu e lui aveva guidato per minuti che né lui né lei avevano contato.
“Non devi tenerti tutto dentro.”
E non le aveva risposto, aveva girato a sinistra dopo il semaforo ed erano tornati nel suo appartamento, lo aveva preso per mano e non si erano scambiati una parola, erano diventati corpi che si mettevano in moto per compiere azioni meccaniche: chiudi la porta, gira la chiave, togli le scarpe, lava le mani, guidalo fino in fondo al corridoio alla piccola camera da letto matrimoniale a destra, fallo sedere sul letto e guardalo rompersi davanti ai tuoi occhi come mai prima. Guarda le lacrime che gli rigano il viso e guardalo aggrapparsi a te come se tu fossi la sua unica ancora e devi essere forte perché lui ha bisogno di una roccia, quindi non piangere, non piangere, non piangere, stringilo forte e non fargli sentire il rumore del tuo cuore che si frantuma perché vederlo in quello stato è come avere delle lame che ti squartano dentro e vorresti poter fare qualunque cosa per dare una fine alla sua sofferenza, vorresti prenderla tutta per te per farlo stare bene perché l’importante è che lui possa sorridere di nuovo, non importa di te.
L’aveva stretta così forte, si era nascosto in lei e in lei aveva nascosto le lacrime.
“Non voglio che succeda anche a te.”
Ed era bastata una frase per spezzarla e allora sì che aveva avuto bisogno di tutta la forza del mondo per riuscire a guardarlo negli occhi e rendersi conto che quello che vedeva era nient’altro che il riflesso di se stessa.
“Ehi, no, no. Non dirlo. Io sono qua, sono qua.”
Non si erano più detti altro dopo, erano rimasti stretti l’una all’altro perché in qualche modo dovevano colmare quel vuoto che era nato dentro di loro, ma sapevano che non sarebbero mai riusciti a tornare come erano stati, avrebbero dovuto convivere con un dolore nuovo, e lei sperava soltanto che la paura che una cosa così terribile sarebbe successa di nuovo sarebbe sbiadita con il tempo.
 


 
“I’m sorry I don’t understand where all of this is coming from,
I thought that we were fine (we had everything)”

 

L’aveva lasciata solo una volta su tutte quelle in cui si erano divisi senza parole o addii. Non l’aveva previsto ed era stata come una coltellata alle spalle a cui lei non era minimamente preparata. La coltellata era arrivata in una notte di luglio quando si era presentato davanti alla porta del suo appartamento; lei aveva solo ricevuto un messaggio, “scendi”, ed era corsa per gli scalini e il lungo corridoio che portava alla seconda entrata del condominio per studenti dove si era trasferita ad inizio anno. Nei giorni precedenti si erano visti più raramente perché lui aveva finalmente trovato un lavoro e lei era impegnata con la sessione d’esami, ma non importava, quello che importava era solo poter stare con lui anche solo per quei minuti dopo cena, prima che lui dovesse tornare a casa perché si sarebbe dovuto alzare presto la mattina seguente. L’aveva trovato appoggiato a un muretto, una gamba davanti all’altra e le mani nelle tasche. Si ricordava ancora quella nota stonata che aveva sentito risuonare quando si era avvicinata a lui per dargli un lieve bacio a fior di labbra, come faceva sempre per salutarlo; le era sembrato strano, come se non fosse giusto. Avevano camminato senza tenersi per mano e a ogni passo in più la sensazione di sbagliato che aveva provato inizialmente si era fatta più grande e pesante fino a che quelle parole, come lame, non avevano cominciato a rimbombarle nella testa sempre più forti e rumorose.
“Basta.”
Non l’aveva neanche guardata e lei gli aveva dato le spalle e aveva abbracciato se stessa, prendendo tra le dita la stoffa della camicetta bianca che aveva indossato anche quella volta quando erano andati via al lago quel week end tanto tempo prima (no, non era passato tanto tempo, ma sembrava un’era prima, quando non sentiva il ghiaccio tra le parole di lui).
Non l’aveva riaccompagnata a casa, si era dileguato nella distanza mentre lei si sedeva sul marciapiede girato l’angolo, la testa tra le mani e i respiri affannati perché ora era completamente sola in un posto che non era casa sua, non lo era mai stato. Non le aveva mai detto il perché, l’aveva solo abbandonata e ormai non c’era nessuno da cui lei potesse correre per delle spiegazioni.
Avrebbe scoperto solo due mesi dopo che si era arruolato.
 


 
“Your head is running wild again, my dear, we still have everything
and it’s all in your mind (yeah, but this is happening)”
 

 

A volte si trovava in qualche locale affollato con un drink in mano insieme alle sue compagne di università che ridevano e scherzavano e facevano battute sull’ultimo ragazzo che aveva provato ad abbordare una di loro. Non le dispiaceva passare del tempo con loro, ma sentiva che mancava qualcosa, che non c’era quella connessione che aveva scoperto di avere con i suoi amici al liceo. Quando i pensieri iniziavano a prendere quella direzione, Quinn sbuffava e stringeva le labbra in una linea sottile, conscia del fatto che continuare a pensare non aveva mai portato a niente di buono, quindi beveva il resto del cocktail ancora nel bicchiere e ne ordinava un altro. Le servivano cinque bicchieri, di solito, per trovarsi di nuovo tra le sue braccia. A volte le sue amiche la svegliavano da quel sogno, a volte lasciavano che almeno per una notte credesse che lui fosse ancora lì con lei e in quelle notti, frutto di seguenti mattinate passate seduta nella cabina doccia del suo bagno con l’acqua fredda che le accarezzava la fronte e i capelli, in quelle notti lo vedeva abbassarsi su di lei e entrare in lei, le loro dita che si sfioravano ma c’era sempre qualcosa di sbagliato, c’era qualcosa che non andava, qualcosa non era perfetto come doveva essere. Ed era una mancanza che ormai Quinn provava da troppo tempo e a cui aveva fatto l’abitudine.
All’inizio quella mancanza l’aveva provata a colmare con i ricordi, ma vivere troppo a lungo nelle fantasie ti rende impossibile riconoscere ciò che era veramente stato e quello che era solo frutto della mente, perciò aveva cercato di non guardare indietro e di concentrarsi più su se stessa e non su ciò che era stato e sulla persona che una volta era.
Dopo mesi, l’unica cosa che le era rimasto di lui era un tatuaggio sul lato sinistro a metà torace, all’altezza della costola. Un tatuaggio di cui solo lei e quei ragazzi che non erano riusciti a rapirla per più di una notte erano a conoscenza, un tatuaggio composto da solo tre parole: “the greatest thing”.

 

“You’ve been having real bad dreams, you used to lie so close to me,
there’s nothing more than empty sheets between our love”
 


Si ricordava dell’amore e degli sguardi che si erano sempre scambiati, ricordava quando erano più giovani e spensierati, quando il loro problema più grosso era vincere i campionati statali di football o le competizioni di cheerleading. Si ricordava quando era stato il tocco di lui il primo a farle provare delle sensazioni nuove di cui non era mai stata a conoscenza, di come Puck l’aveva fatta prendere fuoco e brillare in ogni centimetro della sua pelle. Lo sognava raramente e ogni volta era sempre più reale della precedente. L’aveva visto sul suo letto, sdraiato insieme a lei, faccia a faccia che si scrutavano e lui le aveva sorriso con un sorriso rotto e pieno di risentimento perché l’aveva finalmente vista nello stato in cui l’aveva lasciata, incredibilmente fragile e diversa da come l’aveva avuta di fronte l’ultima volta, con quell’espressione vuota che solo gli specchi conoscevano di lei. E avevano sospirato e non appena Quinn aveva provato ad allungare la mano verso di lui era sparito tutto, sfocandosi nel buio, e si era ritrovata ancora una volta da sola sotto le coperte di inizio settembre. E poi l’aveva visto un’ultima volta, quando erano seduti tra tante altre persone senza volto, quando l’aveva finalmente preso per mano e Dio, se sembrava reale. Non importava che le avesse fatto male, non importava che l’avesse lasciata sola senza darle spiegazioni, senza degnarla del rispetto di renderla partecipe delle decisioni che avrebbero cambiato l’esistenza non solo a lui. Importava che per qualche secondo poteva sentire il calore e la forma familiare delle dita di Puck intrecciate alle sue e Quinn aveva scoperto che anche in un sogno ci si poteva sentire a casa.
Poi si svegliava di nuovo e insieme alle coperte che con il passare dei mesi e l’arrivo dell’autunno e poi dell’inverno si aggiungevano al suo letto, anche quella sensazione che le prendeva la gola e la faceva sentire come se fosse sul punto di piangere (ma non lo faceva mai) le faceva compagnia, con quel peso dentro sempre più grande e impossibile da ignorare.

 

 
“Tear ducts and rust, I’ll fix it for us. We’re collecting dust but our love is enough.
You’re holding it in, you’re pouring a drink. No, nothing is as bad as it seems, we’ll come clean”


 
Rachel l’aveva invitata alla prima del musical nel quale era stata scelta come protagonista, il suo primo vero musical originale, niente rispetto alle versione di altri a cui aveva fatto parte fino a quel momento. Quinn aveva deciso di andare a trovarla qualche giorno prima, fermandosi nell’appartamento dell’amica per un paio di notti dato che aveva spazio. Le era ancora strano pensare a quanto diverse erano loro due e tutti quelli che erano stati i loro amici cinque, sei anni prima, quando ancora correvano per i corridoi di un liceo dell’Ohio per non arrivare tardi alla lezione di coro che sarebbe cominciata in tre minuti. Alcuni di loro erano già sposati (lei non aveva mai approvato decisioni come quella, sposarsi a vent’anni le sembrava ancora un azzardo troppo grande), con altri si erano persi di vista, un paio si era trasferito in Europa per seguire compagnie di danza che viaggiavano continuamente, uno era ancora in contatto con tutti, tranne che con lei.
Uno di loro non c’era più.
Ogni tanto in quei giorni aveva osservato come l’espressione di Rachel si incupisse ancora leggermente quando pensava di non essere guardata da nessuno, come una piccola ruga tra le sopracciglia uscisse allo scoperto e Quinn sapeva che non sarebbe mai potuta esserle d’aiuto e che Rachel avrebbe solo convissuto con quel segno nato dal tempo.
Erano andati avanti tutti, ma ognuno di loro aveva affrontato la mancanza in modo diverso. Lei, in fondo, aveva sempre ammirato l’amica per la forza innata che aveva avuto. Voleva essere un po’ più come lei, voleva non ritrovarsi ancora da sola nel suo letto a pensare a come sarebbero state diverse le cose se fosse riuscita a fargli cambiare idea e non farlo partire, a fargli capire che non poteva andarsene perché rischiare la sua vita ogni giorno era per lei una paura insopportabile.
“Ci sarà anche lui, sai?”, le aveva detto Rachel due sere prima dello spettacolo, quando erano sedute al tavolo penisola della cucina a vista sugli sgabelli che secondo Quinn erano un po’ troppo alti per Rachel che ogni volta doveva fare un piccolo sforzo per salirci sopra. Quinn aveva scrollato le spalle tenendo lo sguardo fisso negli occhi dell’altra, niente sul suo volto aveva lasciato trasparire la minima sorpresa.
“Ha importanza?”, le aveva risposto mentre si versava dell’altro tè in una tazza che urlava “proprietà di Rachel Berry”, con dei coniglietti che si rincorrevano su un prato verde disegnati sopra la ceramica azzurra. Rachel aveva scrollato le spalle con nonchalance.
“Era per farti sapere”, e aveva taciuto per qualche secondo prima di aggiungere sottovoce che “dopotutto sono due anni e mezzo che non lo vedi”.
Quinn aveva alzato gli occhi al cielo con un’espressione annoiata in volto.
“Come se vedere una persona camminare a trenta metri da te di spalle valesse. Rachel.”
“Be’, se controlli sul dizionario avrei ragione io, dato che vedere significa percepire mediante la vista qualcuno o qualcosa, scorgere. Perciò sì, tu hai visto Puck ma ti sei rifiutata di andare da lui.”, aveva controbattuto con quel suo fare da so-tutto-io che a quanto pare non era svanito con gli anni, anzi, se proprio si era rafforzato. A Quinn era tornata in mente l’immagine di una mosca che ronzava in una piccola stanza un pomeriggio d’estate, quando fa caldo e vorresti solo un po’ di pace. Era l’immagine che le faceva compagnia da anni ogni volta che Rachel iniziava a parlare a vanvera a proposito di cose di cui a) non le erano mai importate o b)non voleva sentir parlare. Al momento, l’opzione era la seconda.
“Come preferisci, Mirtilla.”, aveva quindi ribattuto con un movimento di della mano per sottolineare la somiglianza tra la sua amica e l’insetto. Rachel l’aveva guardata imbronciata e ferita, come a dire: “questo è un affronto”, e Quinn sapeva che se non si fosse spostata in un’altra stanza l’avrebbe davvero detto e da lì sarebbe cominciata una lunga discussione su quanto lei, performer di successo di Broadway, non aveva niente a che fare con una ragazzina che piangeva e si lamentava nei bagni della sua scuola. E Quinn avrebbe inarcato un sopracciglio perché no, aveva ragione lei, non era mai successa una cosa del genere, e Rachel si sarebbe zittita spalancando gli occhi e incrociando le braccia al petto mentre tornava verso il divano con fare teatrale a mento alto negando la sconfitta.
Ma poi due giorni dopo l’aveva notato la prima volta di spalle e lo vedeva cambiato e le era sembrato più massiccio, più uomo, ed effettivamente era passato tanto tempo dall’ultima volta e anche lei agli occhi degli altri doveva sembrare diversa. E avevano entrambi i capelli più lunghi, i suoi le arrivavano leggermente oltre il seno mentre quelli di lui gli coprivano tutto il capo e sembravano leggermente più lunghi sopra la fronte, perché da dietro Quinn vedeva qualche ciocca spuntare più in alto delle altre. Ed era in divisa, la giacca blu scuro con uno stemma sulla manica destra e le sembrava così diverso, così grande.
Aveva avuto bisogno di un drink- anche di due, ma era sicura che se avesse visitato troppo di sovente il bar Rachel l’avrebbe tenuta d’occhio tutta la sera e la mattina seguente avrebbe dovuto sorbire un discorso su come “doveva superarla oppure parlargli, perché erano anni che negava l’evidenza e si buttava sull’alcol al posto di guardare in faccia la realtà” e allora sarebbe stato l’inferno.
Aveva avuto bisogno di un drink e appena era arrivata al bancone il suo cocktail preferito era già lì, davanti a lei, che la aspettava. Il barista l’aveva guardata scrollando le spalle.
“Mi hanno detto di farti trovare una piñacolada se fossi venuta qua.”, Quinn aveva corrugato la fronte, interrogativa. Era impossibile che fosse stata Rachel, data la sua avversione alle bevande alcoliche e onestamente, non aveva davvero idea di chi potesse essere stato.
E poi aveva capito.
“Rachel mi ha detto che è il tuo preferito.”.
Aveva sentito una voce familiare ma leggermente più profonda di come era nei suoi sogni e l’istinto era stato quello di stringere forte le dita intorno alla pochette che reggeva e fermarsi prima di toccare il bicchiere. Le erano serviti due respiri prima di convincersi che non avrebbe potuto rimanere ferma per sempre, così si era girata, la sua migliore espressione gelida stampata sul volto, il sopracciglio sinistro inarcato.
“Spero che Rachel ti abbia anche parlato dei miei schiaffi.”
Puck le aveva mostrato degli occhi vivi e divertiti e le labbra increspate.
“È un piacere rivederti anche per me, Q. Il bianco ti dona sempre”, Quinn aveva spalancato gli occhi e alzato un dito davanti a lui, irata. Non ci doveva neanche provare, con che coraggio tornava da lei e si comportava come se non fosse successo niente, scherzando sui colori e sulle bevande e pretendendo che non le avesse mai fatto del male.
Aveva girato i tacchi e si era allontanata, lasciandolo al bancone insieme alla piñacolada a cui, a malincuore, aveva dovuto rinunciare (ma solo per principio).
Lui aveva sbuffato. E poi aveva tirato un calcio a primo sgabello che aveva trovato nel raggio di un metro.


 
“just a second we’re not broken, just bent, and we can learn to love again.
(I never stopped, you’re still written in the scars on my heart.
You’re not broken, just bent, and we can learn to love again)”

 

“PERCHÈ L’HAI PORTATO QUA?”
Le urla di Quinn non le erano mai piaciute, ma sapeva anche che farlo rimanere nel suo appartamento era l’unico modo perché quei due parlassero e se non l’avrebbero fatto quel giorno, probabilmente sarebbero passati altri anni prima che si sarebbero rivisti. Se si sarebbero mai rivisti.
Rachel era stata abbastanza furba dal non avere mai dato a nessuno dei due le chiavi del proprio appartamento e l’unico mazzo disponibile era nascosto nella borsetta che stava attualmente tenendo ben stretta a sé. Se tutto fosse andato come nei piani, sarebbe riuscita a farli ragionare e probabilmente – o meglio, sicuramente – la serata si sarebbe conclusa con urla di ben altro tipo da quelle che le sue povere orecchie stavano sorbendo in quel momento.
“Puck rimarrà qua solo per qualche giorno e io non ho tempo per seguire i vostri problemi anche a chilometri di distanza perché sai, sono una donna impegnata, quindi vai di là e affrontalo.”
Quinn aveva roteato gli occhi e scosso la testa.
“Onestamente, Rachel, penso che siamo entrambi abbastanza adulti per prenderci cura di noi stessi senza che tu faccia la ficcanaso tra le cose che non vanno e che, fidati, non andranno mai.”, aveva alzato il tono di voce alla fine sperando che il ragazzo, attualmente chiuso in qualche altra stanza, la sentisse e si facesse un’idea di come stavano le cose.
“Onestamente, Quinn, penso che il fatto che tu non sia riuscita a trovarti qualcun altro negli ultimi quattro anni parli da solo.”
Quinn era rimasta per un secondo immobilizzata dopo aver ascoltato le parole dell’amica che aveva appena espresso a parole milioni di pensieri che le avevano fatto compagnia in svariati notti negli ultimi anni. Imperterrita, non si era accorta della vibrazione che avevano avuto gli occhi di Rachel prima di infilare una mano nella borsa e fare uno scatto verso la porta d’ingresso del suo appartamento. Quando finalmente Quinn si era mossa, Rachel stava già chiudendo la porta dietro a sé, il rumore della chiave che girava nella serratura forte nell’improvviso silenzio della stanza. Quinn aveva provato invano di aprire, ma era troppo tardi.
“Stronza!”, le aveva urlato, sapendo che Rachel si trovava ancora dall’altra parte, probabilmente con un ghigno soddisfatto stampato sul volto. Al solo pensiero di quell’immagine le prudevano le mani.
“Comunque, penso ancora quello che ti ho detto prima di diplomarci.”, si era sentita dire tra un risolino e il rumore di passi che si allontanavano dall’ingresso.
Maledetta Berry.
E dopo trenta secondi ecco che era arrivata la domanda che si aspettava.
“Che cosa ti aveva detto?”
Si era girata e aveva incrociato le braccia, appoggiando la schiena, con fare stanco, alla porta. Aveva tirato un sospiro e scosso di nuovo il capo, alzando gli occhi al cielo.
“Cose che non hanno più importanza.”
Puck l’aveva guardata con gli occhi spenti e per un momento era stato indeciso sul se andare verso di lei e scuoterla e dirle che dovevano parlare e chiarirsi perché lui era pronto ad ammettere i suoi errori, ma poi aveva notato quella goccia di freddezza nelle iridi della ragazza e aveva deciso di girarsi di spalle e tornare nella stanza degli ospiti che Rachel gli aveva offerto per quella notte.
Quinn l’aveva scrutato da lontano, notando come, mentre tornava sui suoi passi, il suo portamento era diverso da come lo ricordava. La schiena rimaneva perfettamente dritta, le spalle leggermente tese, probabilmente per il nervosismo, e lo sguardo sempre in avanti, mai abbassato. Si era morsa il labbro inferiore e aveva deglutito concentrandosi sulle proprie scarpe, che non aveva ancora sfilato da quando era tornata dal party di inaugurazione. Aveva notato solo allora che indossava ancora il cappotto, quindi l’aveva tolto e appoggiato al divano facendo attenzione a non fare troppo rumore in quella casa che urlava silenzio dopo l’incredibile rumore di solo cinque minuti prima.
Aveva chiuso la porta dietro a sé dopo essere entrata nella camera di Rachel e guardandosi nel grande specchio che occupava metà di una parete aveva capito che dopo tanti anni Noah Puckerman era ancora il motivo di tutte le sue scelte. Del modo in cui teneva i capelli, dello stupido colore dell’abito che stava indossando in quel momento, solo perché lui, una volta in un posto dimenticato dal tempo, aveva affermato che il bianco le stava bene, la faceva sembrare un angelo tra un milione di persone grigie. Avrebbe dovuto vestirsi di nero solo per quel motivo e invece no.
Il fatto era che dopo tanto tempo le decisioni arrivavano da sole, era diventato una parte così integrante di lei che ormai il “faccio questo perché lui mi direbbe di farlo” era stato eliminato, non era più un passaggio necessario, era parte del suo inconscio. Una parte di lei era lui. Punto.
Aveva deglutito e si era avvicinata alla porta, titubante. Sapeva di trovarlo davanti a lei, quindi quando la figura di lui l’aveva sovrastata non c’era sorpresa negli occhi di lei.
“Mi hai fatto male.”, gli aveva detto.
“Lo so.”, le aveva risposto.
“Mi avevi chiesto di non odiarti.”, aveva continuato a voce tremante, lui era rimasto a labbra serrate, guardandola con risentimento e tristezza che rifletteva il colore spento che dipingeva gli occhi di lei.
“E io ti ho odiato. Ti ho odiato perché tutte le volte che ti ho urlato di tornare tu non mi sentivi, perché quando ero sola tu non c’eri, perché ho vissuto con la paura di perderti ogni giorno. Hai idea del panico che ho di vedere squillare il telefono? Del terrore che ho di sentire la voce di tua madre che mi dice che non ci sei più? O quella di Rachel che piange perché è successo di nuovo, se n’è andato qualcun altro e questa volta sono io quella che dovrà essere consolata ma l’unica persona che potrebbe farmi stare meglio, la persona davanti a cui ho bisogno di piangere non c’è perché è morta.”
E una pausa.
“Non puoi chiedermi di odiarti dopo che mi hai lasciata sola e te ne sei andato senza dirmi niente, ma sai una cosa? Non è neanche questo il punto. Oh, no, non lo è. Il punto è che mi hai mentito e hai recitato la parte del ragazzo innamorato così bene che io non mi sono mai domandata se quello che avevamo fosse vero o se fosse abbastanza. Neanche per un secondo.”
Puck l’aveva guardata senza un battito di ciglia. Non si era mosso, era rimasto fermo, in piedi, davanti a lei. E le era sembrata così fragile, così determinata nella sua tristezza che per la prima volta, dopo anni di autoconvincimenti e fantasie, si era reso conto davvero di aver sbagliato. Che quando aveva pensato di nascondere la verità da lei per non ferirla aveva prodotto esattamente l’effetto contrario.
“E mi hai distrutta e mi hai convinta che io non fossi abbastanza.”
E Quinn aveva iniziato a scagliare dei pugni deboli verso il petto di lui e lui invece era ancora pietrificato e non aveva idea di dove trovare la forza di parlare o di muovere anche solo un dito. E vedeva gli occhi di lei trasformarsi e spegnersi e diventare più lucidi ad ogni colpo.
“Ma lo sai qual è la parte peggiore?”, lui non le aveva risposto e lei aveva continuato, “La parte peggiore è che se tu bussassi alla mia porta, anche sapendo che dopo potrei non vederti più, anche sapendo che dopo continueremmo a fare gli estranei, ti aprire lo stesso e passerei con te tutta la notte.”
E poi si era fermata ed era stato come se tutto si fosse immobilizzato: il tempo, i respiri, i battiti. Non puoi guarire dalle ferite del cuori, puoi solo medicarle e in qualunque caso rimarranno sempre delle cicatrici tra cui anche la più piccola potrebbe fare in modo di cambiare delle decisioni da prendere. Ci chiediamo perché l’amore non ci trovi ma non ci rendiamo conto che siamo noi a costruire mura alte intorno ai nostri cuori che non permettono alla speranza di entrare e rimettere le cose a posto.
Puck aveva avuto paura di toccarla, aveva avuto paura che qualunque sua altra azione sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso, che l’avrebbe segnata e ferita indelebilmente per l’ultima, definitiva, volta. Però lo sapeva, sapeva che se fosse stato lì, fermo, impassibile, Quinn avrebbe avuto la conferma all’idea che aveva che lui non l’aveva mai giudicata all’altezza o abbastanza. Quindi aveva allungato la mano, sorprendendosi quando aveva osservato che non stava tremando.
“Ti ho fatto male”, le aveva detto sottovoce, prendendo la mano di lei, ancora stretta in un pugno, tra le sue, schiudendo dito a dito la tensione. “Ma so di essere l’unica persona in grado di poterti guarire.”
Lei aveva alzato lo sguardo, titubante.
“E sai perché lo so?”
Quinn aveva scosso la testa.
“Perché tu per me sei quella persona.”
Lei aveva deglutito e lasciato andare la tensione, abbassando le spalle. Poi aveva accennato un sorriso triste.
“Ed è qui che ti sbagli. Non ne sono più così sicura.”
Aveva sfilato la mano dalla presa di lui, osservandosi mentre si allontanava dal suo tocco. Senza alzare lo sguardo per nascondersi dagli occhi di lui si era girata ed era tornata nella stanza di Rachel, chiudendo la porta dietro di lei.
A letto, una volta svestita e sotto le coperte, non aveva pianto.  
 

 
 
“It’s in the stars, it’s been written in the scars of our hearts”

 

“Shh, dimmi cosa ti aveva detto Rachel l’ultimo anno.”
La stava tenendo in pugno e Quinn aveva cercato di divincolarsi, ma il peso di lui era troppo per le sue braccia; la teneva incollata al materasso senza permetterle di spostarsi o alzarsi, le sue dita strette intorno ai polsi di lei che gli sorrideva con aria di sfida, scuotendo la testa.
“Dai.”, l’aveva incitata sussurrandole all’orecchio, sapendo bene che era quello il suo punto debole.
Quinn aveva approfittato del fatto che lui si fosse concentrato nel fare giochini con le parole per liberarsi dalla sua presa e ribaltare la loro posizione, ritrovandosi seduta sopra di lui che la guardava con un sopracciglio leggermente più alzato rispetto all’altro e le labbra increspate.
Si era morsa l’interno delle guance per rimanere seria e non ridere di nuovo.
“Sei bellissima.”, si era sentita dire ancora una volta.
“Lo dici solo per convincermi a dirti quella cosa.”, gli aveva risposto prontamente, incrociando le braccia al petto. Lui aveva alzato gli occhi al cielo, muovendo la testa verso sinistra.
“Tecnicamente, non solo per quello.”
Quinn aveva socchiuso la bocca, sorpresa, facendosi scappare un risolino.
Come se gli servissero mille parole e complimenti per convincerla.
Si era abbassata tenendo lo sguardo fisso sugli occhi di lui, arrivando fino a qualche centimetro dalle sue labbra. Gli aveva sorriso e quando Puck aveva alzato quasi impercettibilmente il capo per arrivare a lei, Quinn era tornata lentamente indietro, creando attrito con il bacino. Aveva sorriso leggermente soddisfatta notando Puck deglutire.
“Quinn…”, si era lasciato sfuggire, tenendo gli occhi per qualche istante in più chiusi durante il battito di ciglia; quando li aveva riaperti lei era ancora lì, seduta sopra di lui con le labbra increspate. Allora aveva inarcato un sopracciglio, gli occhi gli si erano fatti più ardenti e le labbra si erano strette in una linea sottile. In un batter d’occhio, Puck era seduto a sua volta, le mani appoggiate al materasso dietro di lui e il viso incredibilmente vicino a quello di Quinn, che aveva afferrato la maglietta di cotone leggero di lui nei pugni come appiglio.
“Perché mettere la maglietta se tanto è più scollata dei vestiti di Santana?”, gli aveva fatto notare, tracciando con il dito il profilo della maglia bianca che gli arrivava a metà petto. Lui aveva sbuffato.
“Perché alle ragazze piace.”, le aveva risposto con semplicità alzando le spalle, come se fosse la cosa più ovvia al mondo; Quinn aveva alzato gli occhi al cielo, prendendo di nuovo il tessuto morbido tra le dita, tirandolo verso di sé.
“Smettila”, l’aveva avvisato, rafforzando la presa e spingendosi leggermente più avanti, in modo che i loro corpi combaciassero. Puck le aveva risposto sghignazzando.
“Tu dimmi cosa ti aveva detto Rachel.”
Non gli aveva risposto, aveva scosso la testa sorridendo divertita con le labbra socchiuse, lasciando che le mani di lui si allontanassero dal letto e arrivassero a lei, alla sua schiena, e poggiassero infine sotto le sue cosce per aiutarla nei movimenti ancora lenti dei bacini che si scontravano, provocando respiri più profondi da parte di entrambi. Le mani di Quinn erano arrivate sotto la maglietta di lui, alla sua schiena muscolosa grazie ai continui allenamenti, aveva fatto in modo che le sue unghie lasciassero dei segni sulla sua carne perché non lo aveva dimenticato, lui le aveva fatto male, le aveva fatto male le aveva fatto male.
E lui le aveva risposto di getto, rendendo la presa più stretta e i movimenti più decisi, fino a sollevarla insieme a lui, lui che si alzava e la appoggiava sulla cassettiera in legno che c’era nella stanza. Avevano inspirato ed espirato, poi di nuovo ancora e allora lei aveva slacciato con dita che sembra non volessero star ferme i bottoni della camicetta bianca che indossava per dormire, sfilandola poi dalla testa, osservando con la coda dell’occhio Puck che lanciava la sua maglietta da qualche parte oltre il letto e ora abbassava la zip dei jeans che stava ancora indossando. Quinn aveva deglutito, sentendo la mente farsi pesante e infiammarsi. Le si era avvicinato e con un tocco lieve, così diverso dalla presa di qualche secondo prima, le aveva sfilato i pantaloncini del pigiama, facendoli cadere per terra. Allora Quinn aveva allungato il braccio e finalmente, finalmente, era riuscita ad arrivare ai suoi capelli, affondandoci le dita e avvicinando il viso di lui al suo. Puck aveva abbassato lo sguardo sull’altra mano di Quinn, che stringeva lo spigolo del mobile su cui era seduta, e le aveva sorriso con affetto.
“Tremi?”
Lei aveva scosso la testa, rendendosi conto della vibrazione quasi impercettibile delle sue dita prima che la mano di lui la fermasse con un solo tocco. Aveva chiuso gli occhi e un momento dopo le labbra di Puck erano sulle sue ed era come se lo ricordava, era come ritrovare l’esatta combinazione della perfezione dopo tanto, tanto tempo. Era stata lei a schiudere la bocca, lasciando che fosse lui, però, a guidarla. E di nuovo era come rivivere momenti che sembravano essere diventati fantasie, era come se tutto quello che aveva desiderato fosse lì e importava solo quel momento, quell’attimo in cui erano tornati bambini, due quindicenni che si nascondevano dietro agli spalti del campo da football perché non riuscivano a nascondere l’attrazione reciproca. Ed erano di nuovo nascosti, profughi in una stanza che non era la loro.
E quando l’aveva di nuovo sollevata l’aveva presa in braccio senza rompere il contatto ed era arrivato di nuovo al letto, appoggiando prima lei e per poi raggiungerla a gattoni, lei sdraiata di schiena, le braccia aperte per accoglierlo e cingergli il collo. Erano state le dita di Puck le prime a indugiare tracciando il bordo degli slip di Quinn, immancabilmente coordinati con il suo reggiseno. Lei non aveva staccato le labbra da quelle del ragazzo, aveva alzato il bacino facendo pressione su di lui e Puck le aveva sfilato l’indumento, facendo lo stesso, qualche secondo dopo, con i propri boxer. Ed era stato subito dopo che Quinn si era fermata, aveva appoggiato il proprio palmo sul petto di lui e l’aveva guardato allarmata.
“Ce l’hai?”
Puck aveva chiuso gli occhi alzando il viso verso il soffitto.
“Questo non era esattamente il modo in cui pensavo sarebbe finita la serata, sai.”, le aveva poi risposto, le spalle abbassate e le braccia conserte.
“Guarda nel mio portafoglio.”, aveva sibilato allora Quinn, dopo un sospiro sonoro.
Puck si era alzato dal letto in fretta, iniziando a girare per la stanza alla ricerca di un portafoglio che, era quasi certo, non era lo stesso marrone che Quinn era solita usare quattro anni prima.
“E’ nella borsa, in salotto.”, gli aveva allora ricordato, osservandolo uscire dalla camera per poi tornare, qualche momento dopo, con in mano la piccola busta in alluminio e plastica arancione.
“Seriamente?”, le aveva chiesto in tono retorico, la mano alzata per mostrarle il profilattico. Quinn aveva scrollato le spalle, mordendosi il labbro e pretendendo che tutto fosse perfettamente normale.
“Qual è il problema?”, gli aveva risposto canzonatoria, evitando il suo sguardo. Puck era tornato sul letto, aveva aperto la bustina e dopo l’aveva buttata per terra, tra il trionfo di indumenti sparsi per il pavimento coperto dalla moquette della camera di Rachel. Era tornato verso di lei, sovrastandola con la sua figura, posizionandosi tra le gambe lunghe e ancora allenate di lei.
“C’è che se continui a comprare i preservativi che comprerei io, allora sono quella persona.”, aveva affermato.
E non aveva aspettato la risposta. Non ne aveva bisogno. Tutto ciò di cui aveva bisogno era lei, lei che lo faceva entrare e lei che lo portava in un altro mondo, che lo accarezzava e che lo graffiava e che tornava ad essere sua. Ed erano due corpi in fiamme, ogni tocco una vibrazione ai nervi della pelle, Quinn sentiva come se sarebbe potuta esplodere da un momento all’altro perché ormai per la mente passavano solo immagini indistinte, colori caldi, forti, come lui che la teneva stretta, lui che la guidava e la faceva sentire meglio di chiunque altro in qualunque altra situazione. Ed era stata tra una spinta e un salto e la sua schiena inarcata mentre le loro dita erano intrecciate che aveva pensato che le tutte quelle cicatrici che avevano segnato il suo cuore formavano solo il nome di lui e nient’altro.
E quando lui aveva affondato la testa nell’incavo del collo di lei, quando l’aveva stretta più forte e una vibrazione l’aveva scosso, solo le stelle occupavano la sua mente.

 

 
“just give me a reason, just a little bit’s enough”
 


“Ritorna.”
E faceva male dirlo, perché erano parole che avevano già lasciato le sue labbra per andare verso di lui. Ma questa volta Puck le aveva accarezzato la guancia e le aveva sorriso e quel sorriso aveva raggiunto i suoi occhi.
“Non scappo più.”, le aveva confermato.
Quinn si era alzata dal letto, nuda, senza preoccuparsi di cercare i vestiti che rimanevano abbandonati sul pavimento. Aveva passato una mano tra i capelli arruffati e aveva tirato un sospiro che, per la prima volta dopo tanto tempo, era di sollievo. Sarebbe stato difficile, lontananza e tutto il resto. Ricostruire quello che aveva frantumato. Ricominciare a credere in qualcosa di buono. Più in generale, ricominciare a credere in loro. Ma potevano farcela, lo aveva detto lui e in fondo quando si trattava di lui Quinn aveva sempre avuto la cattiva abitudine di credere a ogni sua parola. Era in grado di tenerla in pugno, ma questa volta, a differenza delle altre, questa volta gli avrebbe dato il permesso. Perché era come essere pieni di nuovo, dopo tanto tempo.
Completi.
E a casa.  

 

 
“and we can learn to love again”
 


“Rachel mi aveva detto che, secondo lei, siamo fatti l’uno per l’altra.”
Puck aveva sbuffato.
“Avrei dovuto immaginare che Rachel avesse detto qualcosa di ovvio.”
Quinn aveva riso.
E quella volta per davvero.





 
΅΅΅΅



 
N/A2:  innanzitutto, mi scuso per gli eventuali errori grammaticali/sviste di digitazione che potrebbero esserci, ho finito di scrivere la fiction ieri notte alle due passate e l'ho revisionata stamattina in università mentre il professore di Critica d'arte ci squadrava per ottenere risposte sul significato di una composizione di Mondrian del '17 . 
Avrei molto da dire su questa fiction e allo stesso tempo non vorrei dover aggiungere altro. Ci è voluto un mesetto all’incirca per scriverla, l’ispirazione andava e veniva e nel mentre sono successe così tante cose che sembrava che il mondo cospirasse contro di me e la mia voglia di completarla e ogni volta che pensavo di essere vicina alla fine mi sembrava che mancasse qualcosa e allora dovevo riprendere alcuni passaggi e approfondirli, non era mai abbastanza; in ogni caso avevo bisogno di finirla e, soprattutto, avevo bisogno di scrivere qualcosa su questa canzone prima che uscisse il Centesimo. Ce l’ho fatta, per fortuna.
Ho saputo che Quinn e Puck avrebbero cantato Just Give Me a Reason dieci minuti prima di entrare in aula per dare il mio ultimo esame a gennaio. Non ci credevo e non ci ho creduto fino a che le voci non sono state confermate. Nella mia opinione non avrebbero potuto scegliere una canzone migliore per loro due e penso che la lunga attesa durata ben cinque anni verrà ripagata alla grande con questa cover e le due puntate che ci aspettano, ma questo è un altro discorso.
Per motivi personali, sono molto legata a questa canzone. C’è tanto di me in Quinn e scrivendo da tanto tempo fiction Quick a volte mi chiedo se riesco ancora ad inquadrare i personaggi senza cadere nella trappola e farli diventare troppo miei, troppo personali e soggettivi. Spero di non aver fatto questo errore.
Ho voluto indirizzare la morte di Finn in questa fiction perché sentivo il dovere di fare qualcosa, non avendone ancora parlato in nessun’altra storia. Forse non l’ho fatto nella maniera più tradizionale, ma quel passaggio è uno dei miei preferiti in questa one-shot e penso di essere stata fedele a me stessa scrivendolo in quel modo, scrivendo dei sentimenti che una persona prova quando soffre perché qualcuno di caro è venuto a mancare ma allo stesso tempo deve essere la roccia per qualcun altro.
Ringrazio Giada per la costante ispirazione quando mi tocca scrivere passaggi con Rachel. Quinn e Rachel in questa fiction hanno un’amicizia speciale che è tratta al 100% dalla nostra. Grazie.
E infine ringrazio anche te, che hai deciso di leggere tutto quanto, anche questa lunghissima nota dell’autore. Grazie per avermi dedicato alcuni minuti, spero che la storia sia stata di tuo gradimento.
Alla prossima! 

mi trovate anche su tumblr!

 
   
 
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