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Autore: smarsties    19/03/2014    1 recensioni
Avril trascorre le sue giornate dietro ad una maschera: finge di essere una persona il cui ruolo non le si addice davanti a tutti, mentre tiene una parte di sé nascosta al mondo.
Evan, che all’apparenza ha una vita pressoché perfetta, scoprirà di essere stato tenuto allo scuro per più di dieci anni riguardo un argomento per lui importante dallo stesso padre.
Entrambi continuano ad essere assiduamente collegati con il passato.
Lei vuole dimenticarlo, andare avanti per essere felice, ma con scarsi risultati.
Lui, al contrario, vuole saperne di più, vuole far luce sulla questione.
Cosa succederanno se questi due ragazzi, così diversi all’esterno ma profondamente simili all’interno, si incontreranno?
E se sarà proprio una passione che hanno in comune ad essere la chiave per una dolce storia d’amore, contrastata dai troppi parallelismi con i rispettivi passati?
***
~Estratto dal capitolo tre~
-A domani, Ramona.-
Quando si voltò per salutarlo, purtroppo era già sparito dietro l’angolo.
Arrivederci, David.
E in quel momento tornò quantomeno ad apprezzare quel buffo secondo nome che si ritrovava.
In quel momento si sentì, anche solo per pochissimi secondi, nuovamente Avril Ramona Lavigne.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Skateboard ~
(chapter two)

Il salotto era rimasto in penombra, illuminato soltanto da quei pochi raggi che filtravano dai sottili tendaggi bianchi.

Da circa un’ora Avril sostava su quel divano: era sdraiata e poggiava la sua testa sullo zaino. Aveva un sorriso abbozzato sulle labbra e gli occhi socchiusi.

La sua mente vagava, viaggiava tra i ricordi, ripercorreva la sua vita e si concentrava su quell’incontro. Era stato breve ed era bastato a farla entrare in confusione: le aveva offerto aiuto ma lei non accettò, poi lo scacciò. Tornò – era sicura che lo avrebbe fatto – e si presentò, prima di scomparire nuovamente all’interno di quell’imminente edificio.

Gli era sembrato una specie di eroe, accorso in suo aiuto forse nel momento meno opportuno. Non aveva quintali di spandex addosso – come ogni paladino che si rispetti - ma rimaneva pur sempre un eroe!

Dopotutto, solo lui era stato talmente curioso e andare a vedere cosa avesse fatto quella povera ragazza. Solo lui era stato così premuroso nei suoi confronti, negli ultimi anni. E adesso sapeva che solo lui poteva rivelarsi un vero amico, un vero eroe.

Non credeva nell’esistenza di “principi azzurri” ormai da anni. Erano solo delle insulse favolette che le raccontava sua madre per farla addormentare. Sempre lo stesso lieto fine, mai una volta che ci fosse qualcosa di diverso. Ma i lieti fine non esistono nella vita reale, l’aveva imparato da esperienze personali. Eppure lui corrispondeva alle descrizioni di tali esseri: biondo, occhi azzurri e un fisico da paura.

L’aveva trovato piuttosto premuroso e stranamente… dolce? Sì, dolce è la parola giusta. Non aveva mai visto tanta bontà umana ed interesse verso di lei. Si era preoccupato, pur nemmeno conoscendola. Forse era anche un po’ stranito della sua visione, non se lo aspettava.

Non riusciva a spiegarselo: in lui aveva rivisto, per pochi attimi, la figura di suo fratello. Pensandoci, anche di aspetto fisico non era poi così diverso. Per non parlare del carattere, poi: teneri allo stesso modo. Forse erano proprio loro due i suoi eroi, i suoi angeli custodi.

Non dire idiozie, Avril! Lo conosci sì e no da qualche oretta.

Si alzò, finalmente e un po’ indolenzita, da quel divano e i suoi piedi la condussero in un luogo ben preciso, facendole assumere un atteggiamento da ballerina. In fondo, si sentiva molto importante quando andava da lui. Pareva una principessa o, almeno, lei si immaginava così.

E, come ogni volta, si sedette davanti al suo amato pianoforte – impolverato perché non lo aveva utilizzato da un paio di mesi – e accadde la magia. Improvvisamente, si sentì più matura, più grande. La stessa cosa accadeva quando strimpellava le corde della sua chitarra, la “reliquia” – come la chiamava Michelle – ricevuta per Natale cinque anni prima.

Era stato suo padre ad insegnarle a suonare più strumenti, da bravo professore di musica. Così facendo, le aveva fatto capire qual’era la sua vera vocazione: lei doveva dedicarsi al canto. Non aveva mai preso lezioni, era un talento naturale. E se non fosse stato per lui, avrebbe ancora le idee molto confuse.

Le sue dita cominciarono velocemente a giocare sui tasti, componendo melodie sconosciute: stava improvvisando. Accelerava volontariamente, per rendere il tutto più ritmico. Suonava note che, all’apparenza, potevano sembrare sconnesse. Ma non era così: quella era la musica del suo cuore, quella che rappresentava il suo stato d’animo.

Quel giorno era strana perché non sapeva nemmeno lei come si sentiva realmente. Un misto di emozioni a freddo miste assieme: fragilità, tristezza, confusione e felicità. Non aveva mai provato tanti sentimenti assieme nell’arco di una giornata, si sentiva spaesata.

E, a confondere il tutto di più, ci pensarono i pensieri che, prepotenti, si imponevano: volevano tornare a galla per forza. Ma questa volta non si trattava di pensieri negativi, tutto il contrario: erano positivi, felici. Poteva vedere una bambina correre spensierata per i prati – lei – ed un altro bambino che la seguiva a ruota – suo fratello. La sua infanzia si mischiava, nuovamente, con gli eventi di quella mattina.

Era da quando lo aveva visto che non faceva altro che pensare a lui. Stava ricoprendo un ruolo molto fondamentale nel suo cervello, ancora non era riuscita a realizzare il tutto. E forse ci avrebbe messo tempo…

Coinvolta talmente tanto in quell’uragano magico, non si accorse che qualcuno si era appoggiato e stava ascoltando rapito quella melodia. Quando scaricò finalmente tutto, quel qualcuno la applaudì calorosamente, rovinando così la sua “identità.”

-Sei diventata brava.-

Avril alzò la testa e capì di chi si trattava.

-Papà? Cosa ci fai qui?- domandò.

Lui si accomodò sul divano e le fece cenno di seguirlo. Per farsi spazio, poi, buttò lo zaino della figlia a terra.

-Questo è il tuo concetto d’ordine?- chiese con ironia, strappandole un sorrisetto.

-Non hai risposto alla mia domanda.- cambiò argomento.

-Ascoltavo la tua musica. È da tanto che non suonavi un po’ per il tuo vecchio papone.-

Le circondò le spalle con un braccio mentre la ragazza allargava sempre più il suo sorriso. Ma si rabbuiò presto.

«Tutto era cominciato al Ballo di Fine Anno avvenuto pochi mesi prima. Sia maledetto quel giorno in cui, non sa nemmeno lei perché, ha deciso di salire sul palco per fare un bell’assolo di pianoforte. Tutto procedeva per il meglio, ma presto tutto finì - grazie a due soggetti, conosciuti comunemente come Jake e Thomas. Non si accorse di niente, era successo troppo in fretta. Loro volevano suonare e se li era ritrovati dietro; l’avevano cominciata ad insultare e a minacciarla: se non fosse scesa immediatamente, l’avrebbero picchiata.

Aveva cercato di opporsi, voleva difendere i sui diritti. Pessima scelta: la spinsero con forza di sotto e, per sbaglio, mise il piede in un buco del parquet. Si ritrovò ben presto ai piedi del palco, con una caviglia dolorante e i gomiti sanguinanti.

Sarebbe rimasta lì in eterno se non fosse stato per una ragazza - una neodiplomata crede, non si ricorda nemmeno il suo nome. L’aveva portata subito in ospedale a farsi fasciare la caviglia, ma aveva mantenuto sempre un atteggiamento distaccato nei suoi confronti.

-Ti do un consiglio: stai lontana da quei due, portano solo guai.- le aveva riferito, in un momento in cui i medici le avevano lasciate sole. -E non li provocare se ci tieni alla pelle. Possono sembrare innocui, ma ti assicuro che sono l’esatto contrario.-

Parole che, in quel momento, le erano sembrate più vere di ogni altra.

-Perché mi hai aiutata? Nessuno mi sopporta.- aveva chiesto ingenuamente, tenendo lo sguardo fisso verso il suolo.

-È vero: la tua non è una delle reputazioni migliori. Ti conoscono tutti dentro al liceo, nessuno ti sopporta. Avrei anche potuto lasciarti là a terra e seguire la massa, ma sono diversa da loro.-

Dopo quel giorno non aveva avuto più contatti con lei e non l’aveva più vista in giro.

Quella sera stessa, tornando a casa, aveva raccontato l’ennesima balla. Disse che si era ferita ballando, facendo rimanere indenne tutta la seconda parte della serata.

Da allora, non aveva più suonato né il piano e né la chitarra. Si era sentita insicura e, ogni volta che vi si avvicinava, riaffiorava alla mente quel ricordo.

Ma quell’incontro le aveva fatto tornare il coraggio, aveva scacciato via quella festa. Era come fosse rinata, si sentiva più forte.»

-Ehi tesoro, tutto bene?- le chiese suo padre, accorgendosi che aveva la testa altrove.

Non preoccuparti, papà. Stavo solo pensando ad un evento avvenuto quest’estate, da dove sono ritornata con una fasciatura. Ricordi vero? Bene, ti annuncio che vi ho raccontato una balla colossale. Non sono caduta mentre ballavo, ma sono stata spinta da due bulli che mi perseguitano sì e no da tre anni… o almeno, è quello che dovresti dirgli!

Si alzò dal divano e si diresse verso il corridoio, con passo quasi strisciato.

-Tutto ok, ho solo bisogno di farmi una camminata.-

Prese la sua amata ed ampia felpa bianca, adagiata comodamente vicino all’appendiabiti.

-A proposito!- si ricordò, prima di varcare la porta d’ingresso. –Ci pensi tu allo zaino? Grazie mille.-

Non gli dette tempo di formulare una risposta: era già per strada, ormai.

 

***

 

Non c’era niente di meglio di una bella doccia calda, per scaricare ogni tensione … e per staccare la spina dai molteplici compiti, i quali provocano soltanto stress. Questo era il parere di Evan.

S’infilò di getto dentro la cabina, quando intravide quel leggero tepore che caratterizzava la nebbiolina, la quale puntualmente andava ad appannare il vetro.

L’acqua scorreva veloce lungo tutto il suo corpo e, oltre al sapone, lavava via anche i suoi pensieri. Ma non tutti, quelli indelebili rimanevano scolpiti nei meandri della sua mente.

Il suo cervello gli inviava in continuazione, come un replay, immagini dell’incontro di quella mattina. Era stato talmente particolare che lo aveva lasciato piuttosto confuso.

Ogni tanto il viso di quella ragazza, così strana all’apparenza, appariva prepotentemente davanti ai suoi occhi, come un miraggio. Forse sarebbe meglio dire “allucinazione”.

Più cercava di dimenticare – o quantomeno di riporre tutto in qualche cassetto nascosto – e più quello sguardo ghiacciante, dannatamente penetrante, saltava fuori chissà da dove e se lo sentiva puntato fastidiosamente contro la sua pelle.

Cavolo, non mi sono mai rimbecillito tanto per una ragazza! Non sapeva nemmeno più lui cosa gli era successo.

Ne aveva avute a migliaia di storie, alcune durate anche solo una notte. Le ragazze facevano a botte per stare con il figlio – che, diciamocelo, è veramente figo – del prestigioso e famosissimo avvocato Taubenfeld.

Ma lei era così diversa, più unica che rara. In tutta la sua vita mai aveva visto una “creatura” simile, così piccola, distrutta e con un bel caratterino.

Non aveva mai avuto un simile comportamento da ebete con nessun essere umano di genere donna. Eppure, perché in sua compagnia si era sentito tanto inferiore? Perché aveva provato qualcosa di strano? Perché il suo cuore aveva cominciato a battere a mille?

Amico, non credi sia da idioti giudicare qualcuno che conosci da nemmeno ventiquattro ore ed esprimergli i tuoi sentimenti confusi? Come al solito, la sua vocina interiore aveva interrotto tutto.

La maledisse più volte, mentre si infilò l’accappatoio e uscì dalla vasca.

Bastò mettere un piede nella sua camera, per fargli ritornare tutto lo stress di cui un essere umano può essere dotato: dozzine di libri sopra la scrivania, illuminati soltanto dalla luce dell’abat-jour e altrettanti libri e fogli pieni fitti di appunti sparsi su tutto il pavimento.

Sembrava che i professori ci provassero gusto a riempire i propri alunni di compiti, tutti per il giorno seguente. Forse non sapevano che anche loro avevano una vita sociale, fuori da quelle quattro mura, e non solo loro. Insomma, non potevano mica passare tutto il giorno a studiare!

Si infilò un paio di mutande, pescato dal cassetto della biancheria e aprì l’armadio. Dopo pochi attimi di esitazione, decise cosa mettersi: una semplice maglietta a maniche corte, pantaloni larghi e converse rosse.

Prese il suo adorato skateboard – custodito gelosamente sotto il letto, insieme a qualche cartaccia di chissà quale merendina – e uscì dalla stanza, fregandosene dei suoi doveri e sbattendo la porta. In fondo, due passi non avevano mai ucciso nessuno.

Unico ostacolo da superare: suo padre.

Ok, non si tratta di nulla di difficile, penseranno i comuni mortali. Ma quell’uomo aveva dei “superpoteri” dei quali nemmeno Evan, dopo ormai diciassette anni di vita, non era pienamente a conoscenza.

Riusciva a beccarti ogni volta che hai fatto o che stai per fare qualcosa che non rientrava nella sua norma. Il suo udito era talmente sviluppato che riusciva a sentire ogni minimo rumore, anche se camminavi in punta di piedi. La sua vista era acuta forse più di quella di un falco: era capace di vederti anche a più di dieci metri di distanza.

Nascosto dietro al muro divisore, il ragazzo sporse appena la testa per “studiare” attentamente il suo nemico: stava seduto sul divano a leggere il giornale. Posso farcela. Devo farcela!

Mise il suo skateboard al sicuro, sotto la sua maglia, e cominciò la marcia trionfale verso il portone d’ingresso. Fu una camminata tranquilla, arrivò al suo obiettivo in pochi secondi… ma qualcosa sotto il suo piede scricchiolò, nonché un’asse di legno.

Lanciò maledizioni in silenzio a qualsiasi santo si trovi lassù, per avergli portato tutta quella malasorte - o meglio, sfiga.

-Stai andando fuori con quell’aggeggio a quattro ruote, non è così?- a parlare fu suo padre, che non distolse lo sguardo dalle pagine.

In quel momento, avrebbe tanto voluto avere uno specchio con sé, soltanto per vedere quale espressione strana avesse mai assunto. Come diavolo ha fatto? Che qualcuno me lo spieghi!

Si schiarì la voce: -Sì, carissimo ed adorato papino. E comunque, quello non è un aggeggio, ma il mio skate.-

Carissimo ed adorato papino?  Da dove mi è uscita questa?

-Lo sai che se non finisci i compiti, non ti faccio uscire. Lo dice anche quel proverbio famoso, il quale spero ti imparerai a memoria prima o poi: prima il dovere, poi il piacere.-

Già che c’era, lanciò maledizioni anche a colui che enunciò quel detto tanto odiato da ogni forma umana adolescenziale. Insomma, chi mai era stato quel genio?

-Ovvio che li ho finiti!- mentì. –Come potresti mai insinuare di un volto onesto come il mio?-

Ok, questa poteva risparmiarsela. Non ci avrebbe creduto mai, ne era sicuro.

Lui, con un gesto della testa, gli indicò il via libera. No, aspetta! Sta scherzando, vero?

Evan, ancora sorpreso dalla reazione del padre – Se l’era veramente bevuta? -, strisciò velocemente fuori di casa, prima che potesse ripensarci. Poi, quando fu sicuro di essere abbastanza lontano, sghignazzò ma mantenne il voce di tono basso. Non si sapeva mai…

Sfilò dalla maglia lo skateboard e vi salì. Con una spinta del piede, partì a tutta velocità.

Adorava sentire la leggera brezza incastrarsi fra i suoi capelli biondi, scompigliandoli ed affidandoli completamente al vento. La breccia sotto le ruote rendeva la strada poco più sconnessa, ma il tragitto molto più interessante ed eclatante. Era decisamente il suo passatempo preferito, insieme all’hip-hop.

Sì, proprio quell’hip-hop. Evan vi si era appassionato all’età di undici anni.

«Ricordava che stava facendo un giro al centro, senza suo padre per la prima volta, in compagnia di un gruppetto di suoi amici delle medie. Si era voltato per un momento in direzione di una fonte di musica techno, mentre gli altri lo avevano lasciato indietro, noncurandosene minimamente.

Quella melodia così trascinante proveniva dal marciapiede opposto: un gruppo di persone, infatti, stava ballando su quelle note.

Vedendo poco e niente e desideroso di scoprirne di più, attraversò la strada troppo velocemente, rischiando anche di essere investito da un camion – forse questo dettaglio meglio dimenticarselo.

Ora la scena era molto più chiara: si trattava sì di un gruppo, ma erano dei ragazzi, all’incirca con un paio di anni in più di lui. Praticamente, si era innamorato del modo in cui molleggiavano leggeri e respingevano la ghiaia come se fosse bollente. Era fantastico, sembravano veramente delle libellule.

Lo avevano notato e lo avevano invitato ad unirsi a quella battle – aveva scoperto che si chiamava così solo successivamente -, benché fosse ignorante in materia. La cosa più sorprendente era che, appena provò a muoversi su quella musica, riuscì a ricopiare le mosse degli altri quasi perfettamente. Non sapeva nemmeno lui di essere dotato di tanta agilità.

-Ehi piccoletto, tu sì che ci sai fare!- gli aveva urlato uno, battendo a tempo le mani.

Quella stessa sera, aveva chiesto a suo padre di iscriverlo al corso di hip-hop più vicino – semmai ce ne sia uno a Napanee. Pochi giorni dopo si erano recati nell’unica scuola di danza del paese, scoprendo con gioia che vi erano anche lezioni di quella strana espressione del corpo.

Ancora, dopo sei anni, conservava quella passione – che mai avrebbe perso, ne era sicuro.»

Per incrementare ancora più velocità, Evan prese la spinta con il piede più volte fino a quando non fu soddisfatto. Ma ben presto la sua “corsa trionfale” venne stroncata e si ritrovò a terra.

Realizzò la situazione solo quando riuscì a rialzarsi: una ragazza le era precipitata sopra – magari involontariamente. Aveva dei lunghi capelli biondi cenere e indossava una felpa bianca, jeans attillati e scarpe da tennis. Non riuscì da identificare il suo viso soltanto perché era chinato verso terra.

-Che diavolo! Sta’ più attento, la prossima volta!- esclamò lei, massaggiandosi la testa.

-Io? Sei tu che mi sei praticamente venuta addosso!-

Infuriata, scattò velocemente in piedi e finalmente gli fu possibile studiare anche il suo sguardo… per poi rimanere pietrificato nemmeno due secondi dopo. Perché aveva la netta sensazione di aver già visto quei bellissimi occhi azzurri?

Amico, sei uno stimatissimo genio. Ti meriti il primo premio per il miglior comportamento nei confronti di una ragazza dell’anno, dopo quello che le hai fatto in meno di ventiquattro ore.

Non poté fare a meno di notare il suo strano modo di fare ma, quando realizzò chi avesse davanti, diventò ancora più paonazza del ragazzo.

Ci mancava solo questa. Che figura!

-Io… ehm… Non volevo, sono inciampata.-

Lui si chinò a terra e raccolse un piccolo oggetto che le doveva essere caduto dalle orecchie, siccome sparava ancora musica ad alto volume: un lettore mp3 color rosso fuoco.

-Credo sia tuo.- fu la frase più idiota che potesse dire, mentre lei si affrettò a riprendere il suo piccolo tesoro e a spegnerlo. –E, tanto per la cronaca, non preoccuparti. Magari tutte le ragazze carine come te cadessero dal cielo!-

Sapeva di aver fatto centro: era diventata ancora più rossa di prima, mentre balbettò un flebile “Grazie.”

Potrei anche perdonarti per la tua “uscita” demente di prima, dopo questa grande genialata. Ed ottenere stima anche dalla sua mente era fantastico, dal momento che era sempre in continuo contrasto con il suo subconscio.

-Vedo, anzi sento, che punti a perdere l’udito completamente, eh? Nemmeno io alzo tanto il volume del mio stereo,- un’ottima frase per rompere il ghiaccio.

Alle volte si sorprendeva anche lui della sua maestria nel far cadere ai suoi piedi migliaia di ragazze.

Accennò un sorrisetto: -La musica è l’unica cosa che riesce a portarmi lontana, via da questo mondo. La ascolto sempre, appena ho un attimo libero. Mi catapulto sul letto, mi infilo le cuffie e sono pronta per viaggiare con la mente sulle parole della canzone. La definisco la poesia dell’anima.-

Era rimasto decisamente rapito dalla sua affermazione. Non aveva mai conosciuto nessuno prima di allora che sapesse comporre delle frasi talmente perfette, creando giochi di parole continui.

Iniziava ad intrigarla veramente tanto quella ragazza, così perfettamente diversa dalle altre.

Avril si sporse, per notare meglio un obiettivo poco più dietro di loro: -Tu vai su quello?- chiese, indicando lo skate fermo pochi metri più dietro.

-Ti presento il mio amico fidato: chiamalo pure Bob. Trattalo con rispetto che ci tiene.- disse cordialmente Evan, scherzando un po’.

Finalmente anche lei cominciò a sentirsi a suo agio.

-Dai anche nomi agli oggetti, adesso?- chiese scoppiando a ridere –Non sei normale!-

Se il primo impatto non era stato dei migliori, adesso doveva proprio ricredersi. Erano passati due anni da quando Matt se ne era andato di casa e da quando non aveva avuto più nessun amico; era bello provare nuovamente quegli stessi sentimenti, desiderava riviverli ormai da tempi remoti e finalmente poteva farlo.

-In realtà questo me lo sono inventato al momento. E ti avviso da subito che, se continuerai a frequentarmi – il che è molto probabile – non sarà l’ultima stranezza che noterai in me, te lo assicuro. Sono un tipo molto originale, in compenso.-

Bè, era certo: non esisteva sicuramente un’altra persona da ricoverare con urgenza nel manicomio più vicino come lui.

-Mi piacerebbe provare ad andarci. Posso o ti ingelosisci che ti rubo il tuo unico amico?- ironizzò.

-Sì che mi ingelosisco. Nessuno mi sequestra Bob, è solo mio. Chi si azzarda a toccarlo, è morto. E poi io ne ho a tonnellate di amici, ma lui è il più speciale.- fece il finto offeso, strappandole un’altra piccola risatina.

Avril poggiò un piede sulla tavola e con l’altro si dette la spinta necessaria per iniziare a far muovere le ruote. Non aveva mai provato ad andarvi prima d’ora, eppure le piaceva sentire il vento “sbattere” contro il suo viso; sembrava lottasse pur di avere la meglio. Sensazione stupenda, oserebbe dire, che purtroppo non durò nemmeno venti secondi: si sbilanciò col peso troppo all’indietro e rischiò di cadere nuovamente, ma in modo più violento… se non fosse stato per Evan che la prese a tempo al volo, ovviamente.

«Quel breve attimo sembrò ad entrambi una frazione d’eternità, forse anche di più. I loro sguardi si erano incrociati appena, eppure mai avevano sentito battere forte il loro cuore così tanto.»

-Ehm, grazie per avermi presa.- mormorò arrossendo lievemente.

Se continui così, credo proprio che dovrai ringraziarlo chissà ancora quante volte. E ti ricordo che la giornata non è ancora finita!

-Di nulla, anzi! Grazie a te per essere caduta.- ghignò di tutta risposta.

Non sapeva veramente come prendere quella frase, non capiva cosa intendesse. O forse era lei che non voleva capire? Forse non si sforzava per niente di vedere la realtà perché non voleva conoscerla, non voleva affatto.

Lui le afferrò la mano che, in confronto, sembrava quella di una bambina. Sentì di nuovo le gote andarle a fuoco. La sollevo di poco da terra e la sistemò delicatamente sulla tavola, mentre la ragazza tolse velocemente le braccia da intorno al suo collo che aveva poggiato prima per evitare di cadere.

Ora si sentiva spaventata. Perché tutta questa premura? Ci teneva veramente o era un modo per farla soffrire ulteriormente? Un ragazzo come lui poteva avere chissà quante donne dietro, perché stava perdendo tempo con una come lei? Se prima voleva fidarsi ciecamente, ora non ci riusciva più: un dubbio troppo grande per le sue dimensioni la stava opprimendo.

-Ehi, cos’hai?- le domandò, risvegliandola dai suoi pensieri.

Doveva averla vista rabbuiarsi e si era preoccupato. E se fosse solo strategia?

-Niente, non preoccuparti. Piuttosto, perché mi hai messa qui sopra?- cercò di cambiare discorso.

Lui iniziò a lavorare sul suo corpo, modellando parte per parte, articolazione per articolazione, come da più abile falegname il quale cerca di non rovinare il pezzo di legno più pregiato al mondo e di ottenere la perfezione da ogni suo incarico, per accontentare in ugual modo ogni suo cliente.

Ogni volte che sfiorava il suo corpo, sussultava lievemente. Il contatto della sua mano grande e calda su ogni centimetro della sua pelle candida era qualcosa di indescrivibile. Qualcosa di nuovo e mai provato prima. Lo adorava da impazzire, eppure ne aveva paura allo stesso tempo, come se un semplice tocco potesse ferirla.

Anche lui era alquanto persuaso da ciò che stava facendo e, per quanto gli sarebbe costato ammetterlo - aveva una reputazione da difendere! -, si stava divertendo un mondo nello giocare con quella bambola con quella carnagione così pallida che le ricordava la cera. Passava in punti che, magari, aveva aggiustato più volte soltanto per allungare quel piacere immenso che si stava creando da solo. Ed era sicuro di un’altra cosa: lei stava godendo. Pure se di poco, era sicuro che fosse così.

Si allontanò, ma non prima che si fosse accertato se si trovasse ben in equilibrio sulla tavola: -Prova di nuovo.- le disse, spingendola delicatamente dietro la schiena mentre la ragazza, con il suo piede, fece lo stesso.

Questa volta Avril poté vivere più a lungo quel momento e studiarlo attentamente. Di sicuro, però, era ancora certa della mezza idea che si era fatta prima: andare sullo skate era come una chiave verso la libertà, quella eterna. Il vento, contrario ad ogni movimento, era ciò che più contribuiva a questa sensazione, mischiandosi con i suoi capelli fin troppo lisci - come degli spaghetti - e scompigliandoli nell’aria in modo tale che, anche loro, potessero “provare” lo stesso.

Dopo un paio di giri, forse contro ogni sua volontà, si fermò nello stesso preciso punto in cui era partita.

-Wow! Cioè, è una cosa così diversa… e mi piace veramente tanto!- esclamò, riprendendo fiato più volte.

Nel sentirla pronunciare una frase del genere, Evan rimase ancora più sorpreso di prima.

Era la prima ragazza in assoluto a cui piaceva andare sullo skateboard, considerato come qualsiasi altra donna che avesse mai incontrato come “un oggetto rozzo ed insignificante”. Lei era stata la prima a considerare quell’attività come qualcosa di diverso, eppure estremamente splendido.

Era lei quella diversa e lo aveva capito da subito, sin dall’istante in cui l’aveva vista, così piccola e fragile, accovacciata su quel manto verde.

Quei vestiti, che nessun’altra si sarebbe azzardata mai ad indossare.

Quel carattere, che nessun’altra avrebbe mai adottato nei suoi confronti. Così suscettibile e allo stesso tempo tanto indeciso.

Quella luce, che non aveva mai visto brillare negl’occhi, così azzurri ed intensi, di nessun’altra.

Quella sua personalità, il suo modo di essere, che lo aveva attratto come nessun’altra avesse mai fatto.

Non era mai stato tanto curioso nel conoscere una donna prima d’allora, dal momento che tutte quelle che era riuscito ad accaparrareuell erano state ideate tutte dallo stesso stampo: delle ochette viziate con la mania degli abiti all’ultima moda e dei capelli e unghie sempre perfetti.

Era pronto a scommettere che a lei, invece, tutte quelle cosucce frivole non interessavano minimamente. E lo si poteva capire da lontano.

Forse era ancora troppo presto per dire che provava qualcosa - per lui, quel qualcosa equivale a molto di più -, ma di certo nutriva un certo interesse: era più unica che rara, non poteva di certo lasciarsela scappare così facilmente.

-Bè, se ti piace così tanto, puoi anche tenertelo.- le disse con un sorriso sulle labbra.

Come conquistare una ragazza, fase uno. Direi che l’ho vinta: un punto per me. Ora cos’hai da dirmi, subconscio caro?

Avril prese da terra lo skate ma, proprio quando stava per chiedergli se faceva sul serio e ringraziarlo, lo vide allontanarsi, quasi scomparire in fondo alla strada, mentre si portava le mani dietro la nuca.

Non capiva davvero cosa potesse mai significare quel gesto. Era come un addio, come per farle capire che non voleva avere nulla a che fare con lei? O magari aveva qualche altra intenzione?

Ma come poteva averne, dopotutto?! Non si conoscevano quasi per niente e a malapena ricordava il suo nome! Davvero aveva sperato, anche solo per un secondo, che lui potesse essere quella persona che aspettava da tempo?

Era come tutti gli altri, lo sapeva: aveva soltanto finto di tenerci, mentre il suo scopo era quello di scappare via il prima possibile da lei, quella che era emarginata e disprezzata da tutti.

Lei era quella disonesta, loro quelli giusti.

Lei era quella strana, loro quelli normali.

Lei era quella pazza ed insana, loro quelli con la testa al posto.

Lei era quella che doveva soffrire, loro quelli che godevano.

E lui? Lui da che parte stava?
Bè, di sicuro anche lui fa parte della massa.

Eppure quando si voltò in sua direzione, i loro occhi si scontrarono per un attimo e le donò un sorriso, l’ennesimo. Questo, però, sembrava più sincero degli altri che le aveva dedicato. Era come se volesse infonderle sicurezza, come per dirle di non preoccuparsi.

Quel sorriso stava ad indicare una sola cosa: sarebbe tornato e molto difficilmente l’avrebbe lasciata in pace.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Ehilà gente, come va da queste parti?

*le passa una padella affianco*

Quale accoglienza!

Lo so benissimo: sono in un ritardo madornale, il quale non merita giustificazioni.

Questo capitolo non voleva proprio essere partorito (notare la lunghezza, infatti): inizio a scriverlo, non so più come continuarlo, poi continuo, mi blocco e, dopo aver ripetuto altri procedimenti per una miriade di volte, arriviamo a questa sera.

Penso, però, che sospenderò questa storia. No, no, calma! È una supposizione, nulla di certo!

Vorrei concentrarmi più su un genere comico/demenziale (il mio campo, insomma), ma, per il momento, mi manca l’ispirazione per qualcosa di originale. Quindi non sospenderò la fic, al momento.

Ho ricontrollato il capitolo all’incirca una ventina di volte, per non progettare un aborto di capitolo introspettivo (e non ci sono riuscita), voi ditemi comunque se vedete altri errori.

Bè, dovrete abituarvi ai miei ritardi: il prossimo capitolo, per cui mi serve un po’ di tempo per progettarlo, non arriverà di sicuro presto. Causa: la scuola e gli esami.

Spero che il capitolo bello sostanzioso sia di vostro gradimento. Credetemi, i prossimi dubito saranno tanto lunghi.

Mi eclisso, prima che qualcuno mi faccia del male sul serio.

Solluxy ♥

  
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