(chapter two)
Il
salotto era rimasto in penombra, illuminato
soltanto da quei pochi raggi che filtravano dai sottili tendaggi
bianchi.
Da
circa un’ora Avril sostava su quel divano: era
sdraiata e poggiava la sua testa sullo zaino. Aveva un sorriso
abbozzato sulle
labbra e gli occhi socchiusi.
La
sua mente vagava, viaggiava tra i ricordi,
ripercorreva la sua vita e si concentrava su quell’incontro.
Era stato breve ed
era bastato a farla entrare in confusione: le aveva offerto aiuto ma
lei non
accettò, poi lo scacciò. Tornò
– era sicura che lo avrebbe fatto – e si
presentò, prima di scomparire nuovamente
all’interno di quell’imminente
edificio.
Gli
era sembrato una specie di eroe, accorso in suo
aiuto forse nel momento meno opportuno. Non aveva quintali di spandex
addosso –
come ogni paladino che si rispetti - ma rimaneva pur sempre un eroe!
Dopotutto,
solo lui era stato talmente curioso e
andare a vedere cosa avesse fatto quella povera ragazza. Solo lui era
stato
così premuroso nei suoi confronti, negli ultimi anni. E
adesso sapeva che solo
lui poteva rivelarsi un vero amico, un vero eroe.
Non
credeva nell’esistenza di “principi
azzurri” ormai
da anni. Erano solo delle insulse favolette che le raccontava sua madre
per
farla addormentare. Sempre lo stesso lieto fine, mai una volta che ci
fosse
qualcosa di diverso. Ma i lieti fine non esistono nella vita reale,
l’aveva
imparato da esperienze personali. Eppure lui corrispondeva alle
descrizioni di
tali esseri: biondo, occhi azzurri e un fisico da paura.
L’aveva
trovato piuttosto premuroso e stranamente…
dolce? Sì, dolce è la parola giusta. Non aveva
mai visto tanta bontà umana ed
interesse verso di lei. Si era preoccupato, pur nemmeno conoscendola.
Forse era
anche un po’ stranito della sua visione, non se lo aspettava.
Non
riusciva a spiegarselo: in lui aveva rivisto, per
pochi attimi, la figura di suo fratello. Pensandoci, anche di aspetto
fisico
non era poi così diverso. Per non parlare del carattere,
poi: teneri allo
stesso modo. Forse erano proprio loro due i suoi eroi, i suoi angeli
custodi.
Non
dire
idiozie, Avril! Lo conosci sì e no da qualche oretta.
Si
alzò, finalmente e un po’ indolenzita, da quel
divano e i suoi piedi la condussero in un luogo ben preciso, facendole
assumere
un atteggiamento da ballerina. In fondo, si sentiva molto importante
quando
andava da lui. Pareva una
principessa
o, almeno, lei si immaginava così.
E,
come ogni volta, si sedette davanti al suo amato
pianoforte – impolverato perché non lo aveva
utilizzato da un paio di mesi – e
accadde la magia. Improvvisamente, si sentì più
matura, più grande. La stessa
cosa accadeva quando strimpellava le corde della sua chitarra, la
“reliquia” –
come la chiamava Michelle – ricevuta per Natale cinque anni
prima.
Era
stato suo padre ad insegnarle a suonare più
strumenti, da bravo professore di musica. Così facendo, le
aveva fatto capire
qual’era la sua vera vocazione: lei doveva dedicarsi al
canto. Non aveva mai
preso lezioni, era un talento naturale. E se non fosse stato per lui,
avrebbe
ancora le idee molto confuse.
Le
sue dita cominciarono velocemente a giocare sui
tasti, componendo melodie sconosciute: stava improvvisando. Accelerava
volontariamente, per rendere il tutto più ritmico. Suonava
note che,
all’apparenza, potevano sembrare sconnesse. Ma non era
così: quella era la
musica del suo cuore, quella che rappresentava il suo stato
d’animo.
Quel
giorno era strana perché non sapeva nemmeno lei
come si sentiva realmente. Un misto di emozioni a freddo miste assieme:
fragilità,
tristezza, confusione e felicità. Non aveva mai provato
tanti sentimenti
assieme nell’arco di una giornata, si sentiva spaesata.
E,
a confondere il tutto di più, ci pensarono i
pensieri che, prepotenti, si imponevano: volevano tornare a galla per
forza. Ma
questa volta non si trattava di pensieri negativi, tutto il contrario:
erano
positivi, felici. Poteva vedere una bambina correre spensierata per i
prati –
lei – ed un altro bambino che la seguiva a ruota –
suo fratello. La sua
infanzia si mischiava, nuovamente, con gli eventi di quella mattina.
Era
da quando lo aveva visto che non faceva altro che
pensare a lui. Stava ricoprendo un ruolo molto fondamentale nel suo
cervello,
ancora non era riuscita a realizzare il tutto. E forse ci avrebbe messo
tempo…
Coinvolta
talmente tanto in quell’uragano magico, non
si accorse che qualcuno si era appoggiato e stava ascoltando rapito
quella
melodia. Quando scaricò finalmente tutto, quel qualcuno la
applaudì
calorosamente, rovinando così la sua
“identità.”
-Sei
diventata brava.-
Avril
alzò la testa e capì di chi si trattava.
-Papà?
Cosa ci fai qui?- domandò.
Lui
si accomodò sul divano e le fece cenno di
seguirlo. Per farsi spazio, poi, buttò lo zaino della figlia
a terra.
-Questo
è il tuo concetto d’ordine?- chiese con
ironia, strappandole un sorrisetto.
-Non
hai risposto alla mia domanda.- cambiò argomento.
-Ascoltavo
la tua musica. È da tanto che non suonavi
un po’ per il tuo vecchio papone.-
Le
circondò le spalle con un braccio mentre la ragazza
allargava sempre più il suo sorriso. Ma si
rabbuiò presto.
«Tutto
era
cominciato al Ballo di Fine Anno avvenuto pochi mesi prima. Sia
maledetto quel
giorno in cui, non sa nemmeno lei perché, ha deciso di
salire sul palco per
fare un bell’assolo di pianoforte. Tutto procedeva per il
meglio, ma presto
tutto finì - grazie a due soggetti, conosciuti comunemente
come Jake e Thomas. Non
si accorse di niente, era successo troppo in fretta. Loro volevano
suonare e se
li era ritrovati dietro; l’avevano cominciata ad insultare e
a minacciarla: se
non fosse scesa immediatamente, l’avrebbero picchiata.
Aveva
cercato di opporsi, voleva difendere i sui diritti. Pessima scelta: la
spinsero
con forza di sotto e, per sbaglio, mise il piede in un buco del
parquet. Si
ritrovò ben presto ai piedi del palco, con una caviglia
dolorante e i gomiti
sanguinanti.
Sarebbe
rimasta lì in eterno se non fosse stato per una ragazza -
una neodiplomata
crede, non si ricorda nemmeno il suo nome. L’aveva portata
subito in ospedale a
farsi fasciare la caviglia, ma aveva mantenuto sempre un atteggiamento
distaccato nei suoi confronti.
-Ti
do un
consiglio: stai lontana da quei due, portano solo guai.- le aveva
riferito, in
un momento in cui i medici le avevano lasciate sole. -E non li
provocare se ci tieni
alla pelle. Possono sembrare innocui, ma ti assicuro che sono
l’esatto
contrario.-
Parole
che,
in quel momento, le erano sembrate più vere di ogni altra.
-Perché
mi
hai aiutata? Nessuno mi sopporta.- aveva chiesto ingenuamente, tenendo
lo
sguardo fisso verso il suolo.
-È
vero: la
tua non è una delle reputazioni migliori. Ti conoscono tutti
dentro al liceo,
nessuno ti sopporta. Avrei anche potuto lasciarti là a terra
e seguire la
massa, ma sono diversa da loro.-
Dopo
quel
giorno non aveva avuto più contatti con lei e non
l’aveva più vista in giro.
Quella
sera
stessa, tornando a casa, aveva raccontato l’ennesima balla.
Disse che si era
ferita ballando, facendo rimanere indenne tutta la seconda parte della
serata.
Da
allora,
non aveva più suonato né il piano e né
la chitarra. Si era sentita insicura e,
ogni volta che vi si avvicinava, riaffiorava alla mente quel ricordo.
Ma
quell’incontro le aveva fatto tornare il coraggio, aveva
scacciato via quella
festa. Era come fosse rinata, si sentiva più
forte.»
-Ehi
tesoro, tutto bene?- le chiese suo padre,
accorgendosi che aveva la testa altrove.
Non
preoccuparti, papà. Stavo solo pensando ad un evento
avvenuto quest’estate, da
dove sono ritornata con una fasciatura. Ricordi vero? Bene, ti annuncio
che vi
ho raccontato una balla colossale. Non sono caduta mentre ballavo, ma
sono
stata spinta da due bulli che mi perseguitano sì e no da tre
anni… o almeno, è
quello che dovresti dirgli!
Si
alzò dal divano e si diresse verso il corridoio,
con passo quasi strisciato.
-Tutto
ok, ho solo bisogno di farmi una camminata.-
Prese
la sua amata ed ampia felpa bianca, adagiata
comodamente vicino all’appendiabiti.
-A
proposito!- si ricordò, prima di varcare la porta
d’ingresso. –Ci pensi tu allo zaino? Grazie mille.-
Non
gli dette tempo di formulare una risposta: era già
per strada, ormai.
***
Non
c’era niente di meglio di una bella doccia calda,
per scaricare ogni tensione … e per staccare la spina dai
molteplici compiti, i
quali provocano soltanto stress. Questo era il parere di Evan.
S’infilò
di getto dentro la cabina, quando intravide
quel leggero tepore che caratterizzava la nebbiolina, la quale
puntualmente
andava ad appannare il vetro.
L’acqua
scorreva veloce lungo tutto il suo corpo e,
oltre al sapone, lavava via anche i suoi pensieri. Ma non tutti, quelli
indelebili rimanevano scolpiti nei meandri della sua mente.
Il
suo cervello gli inviava in continuazione, come un
replay, immagini dell’incontro di quella mattina. Era stato
talmente
particolare che lo aveva lasciato piuttosto confuso.
Ogni
tanto il viso di quella ragazza, così strana
all’apparenza, appariva prepotentemente davanti ai suoi
occhi, come un
miraggio. Forse sarebbe meglio dire “allucinazione”.
Più
cercava di dimenticare – o quantomeno di riporre
tutto in qualche cassetto nascosto – e più quello
sguardo ghiacciante,
dannatamente penetrante, saltava fuori chissà da dove e se
lo sentiva puntato
fastidiosamente contro la sua pelle.
Cavolo,
non
mi sono mai rimbecillito tanto per una ragazza! Non
sapeva nemmeno più lui cosa gli era successo.
Ne
aveva avute a migliaia di storie, alcune durate
anche solo una notte. Le ragazze facevano a botte per stare con il
figlio –
che, diciamocelo, è veramente figo – del
prestigioso e famosissimo avvocato
Taubenfeld.
Ma
lei era così diversa, più unica che rara. In
tutta
la sua vita mai aveva visto una “creatura” simile,
così piccola, distrutta e
con un bel caratterino.
Non
aveva mai avuto un simile comportamento da ebete
con nessun essere umano di genere donna. Eppure, perché in
sua compagnia si era
sentito tanto inferiore? Perché aveva provato qualcosa di
strano? Perché il suo
cuore aveva cominciato a battere a mille?
Amico,
non
credi sia da idioti giudicare qualcuno che conosci da nemmeno
ventiquattro ore
ed esprimergli i tuoi sentimenti confusi? Come
al solito, la sua vocina interiore aveva interrotto tutto.
La
maledisse più volte, mentre si infilò
l’accappatoio
e uscì dalla vasca.
Bastò
mettere un piede nella sua camera, per fargli
ritornare tutto lo stress di cui un essere umano può essere
dotato: dozzine di
libri sopra la scrivania, illuminati soltanto dalla luce dell’abat-jour
e
altrettanti libri e fogli pieni fitti di appunti
sparsi su tutto il pavimento.
Sembrava
che i professori ci provassero gusto a
riempire i propri alunni di compiti, tutti per il giorno seguente.
Forse non
sapevano che anche loro avevano una vita sociale, fuori da quelle
quattro mura,
e non solo loro. Insomma, non potevano mica passare tutto il giorno a
studiare!
Si
infilò un paio di mutande, pescato dal cassetto
della biancheria e aprì l’armadio. Dopo pochi
attimi di esitazione, decise cosa
mettersi: una semplice maglietta a maniche corte, pantaloni larghi e
converse
rosse.
Prese
il suo adorato skateboard – custodito
gelosamente sotto il letto, insieme a qualche cartaccia di
chissà quale
merendina – e uscì dalla stanza, fregandosene dei
suoi doveri e sbattendo la
porta. In fondo, due passi non avevano mai ucciso nessuno.
Unico
ostacolo da superare: suo padre.
Ok,
non si tratta di nulla di difficile, penseranno i
comuni mortali. Ma quell’uomo aveva dei
“superpoteri” dei quali nemmeno Evan,
dopo ormai diciassette anni di vita, non era pienamente a conoscenza.
Riusciva
a beccarti ogni volta che hai fatto o che
stai per fare qualcosa che non rientrava nella sua norma. Il suo udito
era
talmente sviluppato che riusciva a sentire ogni minimo rumore, anche se
camminavi in punta di piedi. La sua vista era acuta forse
più di quella di un
falco: era capace di vederti anche a più di dieci metri di
distanza.
Nascosto
dietro al muro divisore, il ragazzo sporse
appena la testa per “studiare” attentamente il suo
nemico: stava seduto sul
divano a leggere il giornale. Posso
farcela. Devo farcela!
Mise
il suo skateboard al sicuro, sotto la sua maglia,
e cominciò la marcia trionfale verso il portone
d’ingresso. Fu una camminata
tranquilla, arrivò al suo obiettivo in pochi
secondi… ma qualcosa sotto il suo
piede scricchiolò, nonché un’asse di
legno.
Lanciò
maledizioni in silenzio a qualsiasi santo si
trovi lassù, per avergli portato tutta quella malasorte - o
meglio, sfiga.
-Stai
andando fuori con quell’aggeggio a quattro
ruote, non è così?- a parlare fu suo padre, che
non distolse lo sguardo dalle
pagine.
In
quel momento, avrebbe tanto voluto avere uno
specchio con sé, soltanto per vedere quale espressione
strana avesse mai
assunto. Come diavolo ha fatto? Che
qualcuno me lo spieghi!
Si
schiarì la voce: -Sì, carissimo ed adorato
papino.
E comunque, quello non è un aggeggio, ma il mio skate.-
Carissimo
ed adorato papino? Da
dove mi è uscita
questa?
-Lo
sai che se non finisci i compiti, non ti faccio
uscire. Lo dice anche quel proverbio famoso, il quale spero ti
imparerai a
memoria prima o poi: prima il dovere, poi il piacere.-
Già
che c’era, lanciò maledizioni anche a colui che
enunciò quel detto tanto odiato da ogni forma umana
adolescenziale. Insomma,
chi mai era stato quel genio?
-Ovvio
che li ho finiti!- mentì. –Come potresti mai
insinuare di un volto onesto come il mio?-
Ok,
questa poteva risparmiarsela. Non ci avrebbe
creduto mai, ne era sicuro.
Lui,
con un gesto della testa, gli indicò il via
libera. No, aspetta! Sta scherzando,
vero?
Evan,
ancora sorpreso dalla reazione del padre – Se
l’era veramente bevuta? -, strisciò velocemente
fuori di casa, prima che
potesse ripensarci. Poi, quando fu sicuro di essere abbastanza lontano,
sghignazzò ma mantenne il voce di tono basso. Non si sapeva
mai…
Sfilò
dalla maglia lo skateboard e vi salì. Con una
spinta del piede, partì a tutta velocità.
Adorava
sentire la leggera brezza incastrarsi fra i
suoi capelli biondi, scompigliandoli ed affidandoli completamente al
vento. La
breccia sotto le ruote rendeva la strada poco più sconnessa,
ma il tragitto
molto più interessante ed eclatante. Era decisamente il suo
passatempo
preferito, insieme all’hip-hop.
Sì,
proprio quell’hip-hop. Evan vi si era appassionato
all’età di undici anni.
«Ricordava
che stava facendo un giro al centro, senza suo padre per la prima
volta, in
compagnia di un gruppetto di suoi amici delle medie. Si era voltato per
un
momento in direzione di una fonte di musica techno, mentre gli altri lo
avevano
lasciato indietro, noncurandosene minimamente.
Quella
melodia così trascinante proveniva dal marciapiede opposto:
un gruppo di
persone, infatti, stava ballando su quelle note.
Vedendo
poco e niente e desideroso di scoprirne di più,
attraversò la strada troppo
velocemente, rischiando anche di essere investito da un camion
– forse questo
dettaglio meglio dimenticarselo.
Ora
la
scena era molto più chiara: si trattava sì di un
gruppo, ma erano dei ragazzi,
all’incirca con un paio di anni in più di lui.
Praticamente, si era innamorato
del modo in cui molleggiavano leggeri e respingevano la ghiaia come se
fosse
bollente. Era fantastico, sembravano veramente delle libellule.
Lo
avevano
notato e lo avevano invitato ad unirsi a quella battle –
aveva scoperto che si
chiamava così solo successivamente -, benché
fosse ignorante in materia. La
cosa più sorprendente era che, appena provò a
muoversi su quella musica, riuscì
a ricopiare le mosse degli altri quasi perfettamente. Non sapeva
nemmeno lui di
essere dotato di tanta agilità.
-Ehi
piccoletto, tu sì che ci sai fare!- gli aveva urlato uno,
battendo a tempo le
mani.
Quella
stessa sera, aveva chiesto a suo padre di iscriverlo al corso di
hip-hop più
vicino – semmai ce ne sia uno a Napanee. Pochi giorni dopo si
erano recati nell’unica
scuola di danza del paese, scoprendo con gioia che vi erano anche
lezioni di
quella strana espressione del corpo.
Ancora,
dopo sei anni, conservava quella passione – che mai avrebbe
perso, ne era
sicuro.»
Per
incrementare ancora più velocità, Evan prese la
spinta con il piede più volte fino a quando non fu
soddisfatto. Ma ben presto
la sua “corsa trionfale” venne stroncata e si
ritrovò a terra.
Realizzò
la situazione solo quando riuscì a rialzarsi:
una ragazza le era precipitata sopra – magari
involontariamente. Aveva dei
lunghi capelli biondi cenere e indossava una felpa bianca, jeans
attillati e
scarpe da tennis. Non riuscì da identificare il suo viso
soltanto perché era
chinato verso terra.
-Che
diavolo! Sta’ più attento, la prossima volta!-
esclamò lei, massaggiandosi la testa.
-Io?
Sei tu che mi sei praticamente venuta addosso!-
Infuriata,
scattò velocemente in piedi e finalmente
gli fu possibile studiare anche il suo sguardo… per poi
rimanere pietrificato
nemmeno due secondi dopo. Perché aveva la netta sensazione
di aver già visto
quei bellissimi occhi azzurri?
Amico,
sei
uno stimatissimo genio. Ti meriti il primo premio per il miglior
comportamento
nei confronti di una ragazza dell’anno, dopo quello che le
hai fatto in meno di
ventiquattro ore.
Non
poté fare a meno di notare il suo strano modo di
fare ma, quando realizzò chi avesse davanti,
diventò ancora più paonazza del
ragazzo.
Ci
mancava
solo questa. Che figura!
-Io…
ehm… Non volevo, sono inciampata.-
Lui
si chinò a terra e raccolse un piccolo oggetto che
le doveva essere caduto dalle orecchie, siccome sparava ancora musica
ad alto
volume: un lettore mp3 color rosso fuoco.
-Credo
sia tuo.- fu la frase più idiota che potesse
dire, mentre lei si affrettò a riprendere il suo piccolo
tesoro e a spegnerlo.
–E, tanto per la cronaca, non preoccuparti. Magari tutte le
ragazze carine come
te cadessero dal cielo!-
Sapeva
di aver fatto centro: era diventata ancora più
rossa di prima, mentre balbettò un flebile
“Grazie.”
Potrei
anche perdonarti per la tua “uscita” demente di
prima, dopo questa grande
genialata. Ed
ottenere
stima anche dalla sua mente era fantastico, dal momento che era sempre
in
continuo contrasto con il suo subconscio.
-Vedo,
anzi sento, che punti a perdere l’udito
completamente, eh? Nemmeno io alzo tanto il volume del mio stereo,-
un’ottima
frase per rompere il ghiaccio.
Alle
volte si sorprendeva anche lui della sua maestria
nel far cadere ai suoi piedi migliaia di ragazze.
Accennò
un sorrisetto: -La musica è l’unica cosa che
riesce a portarmi lontana, via da questo mondo. La ascolto sempre,
appena ho un
attimo libero. Mi catapulto sul letto, mi infilo le cuffie e sono
pronta per
viaggiare con la mente sulle parole della canzone. La definisco la
poesia
dell’anima.-
Era
rimasto decisamente rapito dalla sua affermazione.
Non aveva mai conosciuto nessuno prima di allora che sapesse comporre
delle
frasi talmente perfette, creando giochi di parole continui.
Iniziava
ad intrigarla veramente tanto quella ragazza,
così perfettamente diversa dalle altre.
Avril
si sporse, per notare meglio un obiettivo poco
più dietro di loro: -Tu vai su quello?- chiese, indicando lo
skate fermo pochi
metri più dietro.
-Ti
presento il mio amico fidato: chiamalo pure Bob.
Trattalo con rispetto che ci tiene.- disse cordialmente Evan,
scherzando un
po’.
Finalmente
anche lei cominciò a sentirsi a suo agio.
-Dai
anche nomi agli oggetti, adesso?- chiese
scoppiando a ridere –Non sei normale!-
Se
il primo impatto non era stato dei migliori, adesso
doveva proprio ricredersi. Erano passati due anni da quando Matt se ne
era
andato di casa e da quando non aveva avuto più nessun amico;
era bello provare
nuovamente quegli stessi sentimenti, desiderava riviverli ormai da
tempi remoti
e finalmente poteva farlo.
-In
realtà questo me lo sono inventato al momento. E
ti avviso da subito che, se continuerai a frequentarmi – il
che è molto
probabile – non sarà l’ultima stranezza
che noterai in me, te lo assicuro. Sono
un tipo molto originale, in compenso.-
Bè,
era certo: non esisteva sicuramente un’altra
persona da ricoverare con urgenza nel manicomio più vicino
come lui.
-Mi
piacerebbe provare ad andarci. Posso o ti
ingelosisci che ti rubo il tuo unico amico?- ironizzò.
-Sì
che mi ingelosisco. Nessuno mi sequestra Bob, è
solo mio. Chi si azzarda a toccarlo, è morto. E poi io ne ho
a tonnellate di
amici, ma lui è il più speciale.- fece il finto
offeso, strappandole un’altra
piccola risatina.
Avril
poggiò un piede sulla tavola e con l’altro si
dette la spinta necessaria per iniziare a far muovere le ruote. Non
aveva mai
provato ad andarvi prima d’ora, eppure le piaceva sentire il
vento “sbattere”
contro il suo viso; sembrava lottasse pur di avere la meglio.
Sensazione
stupenda, oserebbe dire, che purtroppo non durò nemmeno
venti secondi: si
sbilanciò col peso troppo all’indietro e
rischiò di cadere nuovamente, ma in
modo più violento… se non fosse stato per Evan
che la prese a tempo al volo,
ovviamente.
«Quel
breve
attimo sembrò ad entrambi una frazione
d’eternità, forse anche di più. I loro
sguardi si erano incrociati appena, eppure mai avevano sentito battere
forte il
loro cuore così tanto.»
-Ehm,
grazie per avermi presa.- mormorò arrossendo
lievemente.
Se
continui
così, credo proprio che dovrai ringraziarlo
chissà ancora quante volte. E ti
ricordo che la giornata non è ancora finita!
-Di
nulla, anzi! Grazie a te per essere caduta.-
ghignò di tutta risposta.
Non
sapeva veramente come prendere quella frase, non
capiva cosa intendesse. O forse era lei che non voleva capire? Forse
non si
sforzava per niente di vedere la realtà perché
non voleva conoscerla, non
voleva affatto.
Lui
le afferrò la mano che, in confronto, sembrava
quella di una bambina. Sentì di nuovo le gote andarle a
fuoco. La sollevo di
poco da terra e la sistemò delicatamente sulla tavola,
mentre la ragazza tolse
velocemente le braccia da intorno al suo collo che aveva poggiato prima
per
evitare di cadere.
Ora
si sentiva spaventata. Perché tutta questa
premura? Ci teneva veramente o era un modo per farla soffrire
ulteriormente? Un
ragazzo come lui poteva avere chissà quante donne dietro,
perché stava perdendo
tempo con una come lei? Se prima voleva fidarsi ciecamente, ora non ci
riusciva
più: un dubbio troppo grande per le sue dimensioni la stava
opprimendo.
-Ehi,
cos’hai?- le domandò, risvegliandola dai suoi
pensieri.
Doveva
averla vista rabbuiarsi e si era preoccupato. E
se fosse solo strategia?
-Niente,
non preoccuparti. Piuttosto, perché mi hai
messa qui sopra?- cercò di cambiare discorso.
Lui
iniziò a lavorare sul suo corpo, modellando parte
per parte, articolazione per articolazione, come da più
abile falegname il
quale cerca di non rovinare il pezzo di legno più pregiato
al mondo e di
ottenere la perfezione da ogni suo incarico, per accontentare in ugual
modo
ogni suo cliente.
Ogni
volte che sfiorava il suo corpo, sussultava
lievemente. Il contatto della sua mano grande e calda su ogni
centimetro della
sua pelle candida era qualcosa di indescrivibile. Qualcosa di nuovo e
mai
provato prima. Lo adorava da impazzire, eppure ne aveva paura allo
stesso
tempo, come se un semplice tocco potesse ferirla.
Anche
lui era alquanto persuaso da ciò che stava
facendo e, per quanto gli sarebbe costato ammetterlo - aveva una
reputazione da
difendere! -, si stava divertendo un mondo nello giocare
con quella bambola con quella carnagione così
pallida che
le ricordava la cera. Passava in punti che, magari, aveva aggiustato
più volte
soltanto per allungare quel piacere immenso che si stava creando da
solo. Ed
era sicuro di un’altra cosa: lei stava godendo. Pure se di
poco, era sicuro che
fosse così.
Si
allontanò, ma non prima che si fosse accertato se
si trovasse ben in equilibrio sulla tavola: -Prova di nuovo.- le disse,
spingendola delicatamente dietro la schiena mentre la ragazza, con il
suo
piede, fece lo stesso.
Questa
volta Avril poté vivere più a lungo quel
momento e studiarlo attentamente. Di sicuro, però, era
ancora certa della mezza
idea che si era fatta prima: andare sullo skate era come una chiave
verso la
libertà, quella eterna. Il vento, contrario ad ogni
movimento, era ciò che più
contribuiva a questa sensazione, mischiandosi con i suoi capelli fin
troppo
lisci - come degli spaghetti - e scompigliandoli nell’aria in
modo tale che,
anche loro, potessero “provare” lo stesso.
Dopo
un paio di giri, forse contro ogni sua volontà,
si fermò nello stesso preciso punto in cui era partita.
-Wow!
Cioè, è una cosa così
diversa… e mi piace
veramente tanto!- esclamò, riprendendo fiato più
volte.
Nel
sentirla pronunciare una frase del genere, Evan
rimase ancora più sorpreso di prima.
Era
la prima ragazza in assoluto a cui piaceva andare
sullo skateboard, considerato come qualsiasi altra donna che avesse mai
incontrato come “un oggetto rozzo ed
insignificante”. Lei era stata la prima a
considerare quell’attività come qualcosa di
diverso, eppure estremamente
splendido.
Era
lei quella diversa e lo aveva capito da subito,
sin dall’istante in cui l’aveva vista,
così piccola e fragile, accovacciata su
quel manto verde.
Quei
vestiti, che nessun’altra si sarebbe azzardata
mai ad indossare.
Quel
carattere, che nessun’altra avrebbe mai adottato
nei suoi confronti. Così suscettibile e allo stesso tempo
tanto indeciso.
Quella
luce, che non aveva mai visto brillare
negl’occhi, così azzurri ed intensi, di
nessun’altra.
Quella
sua personalità, il suo modo di essere, che lo
aveva attratto come nessun’altra avesse mai fatto.
Non
era mai stato tanto curioso nel conoscere una
donna prima d’allora, dal momento che tutte quelle che era
riuscito ad
accaparrare
Era
pronto a scommettere che a lei, invece, tutte
quelle cosucce frivole non interessavano minimamente. E lo si poteva
capire da
lontano.
Forse
era ancora troppo presto per dire che provava qualcosa
- per lui, quel qualcosa equivale a
molto di più -, ma di certo nutriva un certo interesse: era
più unica che rara,
non poteva di certo lasciarsela scappare così facilmente.
-Bè,
se ti piace così tanto, puoi anche tenertelo.- le
disse con un sorriso sulle labbra.
Come
conquistare una ragazza, fase uno. Direi che l’ho vinta: un
punto per me. Ora
cos’hai da dirmi, subconscio caro?
Avril
prese da terra lo skate ma, proprio quando stava
per chiedergli se faceva sul serio e ringraziarlo, lo vide
allontanarsi, quasi
scomparire in fondo alla strada, mentre si portava le mani dietro la
nuca.
Non
capiva davvero cosa potesse mai significare quel
gesto. Era come un addio, come per farle capire che non voleva avere
nulla a
che fare con lei? O magari aveva qualche altra intenzione?
Ma
come poteva averne, dopotutto?! Non si conoscevano
quasi per niente e a malapena ricordava il suo nome! Davvero aveva
sperato,
anche solo per un secondo, che lui potesse essere quella persona che
aspettava
da tempo?
Era
come tutti gli altri, lo sapeva: aveva soltanto
finto di tenerci, mentre il suo scopo era quello di scappare via il
prima
possibile da lei, quella che era emarginata e disprezzata da tutti.
Lei
era quella disonesta, loro quelli giusti.
Lei
era quella strana, loro quelli normali.
Lei
era quella pazza ed insana, loro quelli con la
testa al posto.
Lei
era
quella che doveva soffrire, loro quelli che godevano.
E
lui? Lui da che parte stava?
Bè, di sicuro anche lui fa parte
della
massa.
Eppure
quando si voltò in sua direzione, i loro occhi
si scontrarono per un attimo e le donò un sorriso,
l’ennesimo. Questo, però,
sembrava più sincero degli altri che le aveva dedicato. Era
come se volesse
infonderle sicurezza, come per dirle di non preoccuparsi.
Quel
sorriso stava ad indicare una sola cosa: sarebbe
tornato e molto difficilmente l’avrebbe lasciata in pace.
Angolo
dell’autrice
Ehilà
gente, come va da queste parti?
*le
passa una padella affianco*
Quale
accoglienza!
Lo
so benissimo: sono in un ritardo madornale,
il quale non merita
giustificazioni.
Questo
capitolo non voleva proprio essere partorito
(notare la lunghezza, infatti): inizio a scriverlo, non so
più come
continuarlo, poi continuo, mi blocco e, dopo aver ripetuto altri
procedimenti
per una miriade di volte, arriviamo a questa sera.
Penso,
però, che sospenderò questa storia. No, no,
calma! È una supposizione, nulla di certo!
Vorrei
concentrarmi più su un genere comico/demenziale
(il mio campo, insomma), ma, per il momento, mi manca
l’ispirazione per
qualcosa di originale. Quindi non sospenderò la fic, al momento.
Ho
ricontrollato il capitolo all’incirca una ventina
di volte, per non progettare un aborto di capitolo introspettivo (e
non ci
sono riuscita), voi ditemi comunque se vedete altri errori.
Bè,
dovrete abituarvi ai miei ritardi: il prossimo
capitolo, per cui mi serve un po’ di tempo per progettarlo,
non arriverà di
sicuro presto. Causa: la scuola e gli esami.
Spero
che il capitolo bello sostanzioso sia di vostro
gradimento. Credetemi, i prossimi dubito saranno tanto lunghi.
Mi
eclisso, prima che qualcuno mi faccia del male sul
serio.
Solluxy
♥