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Autore: Morea    20/03/2014    3 recensioni
Contando quella attualmente in corso, era a quota ottocentotrentasette sfuriate, cinquecentoventisei avvisi di licenziamento, trecentosessantuno promesse di ferite gravi e diciotto minacce di morte.
In realtà il conto non l'aveva tenuto lei, la matematica non era mai stata il suo forte e neanche la memoria aveva mai giocato a suo favore, ma Ami Mizuno non faceva che imbrattare di palettini il fido quadernino azzurro che teneva sempre a portata di mano, vicino alla testa del suo ultimo cadavere.

Tokyo, tempo imprecisato, quasi-AU, storia ispirata parzialmente ad anime e manga. [Vorrebbe essere un giallo, ma la testa della sua autrice non è ancora sicura di voler collaborare. Molto probabilmente i personaggi andranno un po' (tanto) OOC, ma si spera di riuscire ad arginare i danni.]
Usagi e il suo Ufficio Investigazione si ritrovano a indagare su una serie di misteriosi furti e omicidi, mentre Mamoru si esercita con le proposte di matrimonio e russa insieme a Motoki.
Genere: Commedia, Dark, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inner Senshi, Luna, Mamoru/Marzio, Usagi/Bunny, Yuichiro/Yuri | Coppie: Mamoru/Usagi
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Contando quella attualmente in corso, era a quota ottocentotrentasette sfuriate, cinquecentoventisei avvisi di licenziamento, trecentosessantuno promesse di ferite gravi e diciotto minacce di morte.
In realtà il conto non l'aveva tenuto lei, la matematica non era mai stata il suo forte e neanche la memoria aveva mai giocato a suo favore, ma Ami Mizuno non faceva che imbrattare di palettini il fido quadernino azzurro che teneva sempre a portata di mano, vicino alla testa del suo ultimo cadavere. Nella foga di segnarsi la diciannovesima minaccia di morte ai danni di Usagi Tsukino aveva persino rischiato - e solo rischiato, perché Ami era meticolosa ed ordinata perfino nei suoi impeti di entusiasmo - di strappare una ciocca di capelli biondi all'uomo disteso sul tavolo settorio: aveva però inchiodato in tempo e preso la penna allungando un poco indice e medio, evitando così di colpire in piena faccia il suo nuovo arrivato con un pugno che di certo non avrebbe sentito. Mentre si destreggiava nel tenere in equilibrio la penna solo con due dita, Usagi le lanciò un'occhiata di fuoco, alla quale lei rispose imbarazzata.
Con ottocentotrentasette sfuriate, cinquecentoventisei - no!, cinquecentoventisette in quel preciso momento - avvisi di licenziamento, trecentosessantuno promesse di ferite gravi e diciannove minacce di morte sulle spalle, Usagi sospirò: Luna sapeva essere così insostenibile, a volte. A sentir lei, sembrava che il loro distretto di polizia fosse il peggiore dell'intera Tokyo, anzi del'intero Giappone, macchè!, del mondo, e sono sicura che se là fuori esistessero altri distretti di polizia su altri pianeti o nello spazio siderale, saremmo peggiori anche di quelli! Usagi, come ogni giorno, provava a ricordarle che non era colpa di nessuno se il ladro con cui avevano a che fare non dava segni di cedimento: mai un'impronta, una sbavatura, un testimone. Aveva sguinzagliato le sue sottoposte più fidate alla ricerca di ogni sorta di indizio, ma Rei Hino non faceva che incenerire i suoi appunti al termine di ogni giornata - lei sosteneva di usare un accendino portato appositamente per le delusioni, un sempre più atterrito Yuuichirou Kumada era pronto a giurare di fronte all'imperatore che alla sua collega bastava guardare i foglietti che l'avevano contrariata perché questi prendessero inspiegabilmente fuoco da soli - e Makoto Kino prendeva semplicemente a calci ogni cosa che si frapponesse fra lei e la strada più corta per tornare a casa, mentre chiunque la sfiorasse dopo l'ennesima sequela di insuccessi saltava letteralmente dall'altra parte del corridoio, come respinto da un campo magnetico avverso.
Ami Mizuno, nel frattempo, sezionava placidamente cadaveri. Aveva di nuovo rischiato di urtare malamente la sua salma dopo la trecentosessantaduesima promessa di ferita grave di Luna, così per scusarsi aveva rassettato il suo povero morto bistrattato. Il cartellino con su scritto John Doe penzolava pigramente dal suo alluce.

« Non capisco perché diavolo Luna mi debba torchiare sempre in obitorio » brontolò Usagi, mentre si impegnava per raschiar via l'anima del morto dalla sua pelle. Ormai lavorava all'Ufficio Investigazione da qualche anno, ma non riusciva a non provare empatia per ogni vittima che le passava fra le mani: la doccia subito dopo ogni sua visita all'obitorio, oppure dopo il ritrovamento di qualche cadavere sospetto sparso per Tokyo, era obbligatoria e salvifica, e di certo il comportamento poco naturale della sua coinquilina in queste situazioni non la aiutava a soffrire di meno per quella morte che incontrava così spesso.
« Hai finitoooooooo? » sbraitò Minako Aino, sicuramente barricata nella stanza più lontana dal bagno comune. « Guarda che se puzzi di morto ti sbatto fuori di casa! »
« Non puoi sbattermi fuori di casa, Minako, il contratto l'abbiamo firmato insieme e paghiamo l'affitto in parti uguali! Anzi, in realtà... »
« Okay, okay, okay, bla, bla, bla...  »
Usagi continuò a insaponarsi, a metà fra il divertito e il corrucciato: la sua migliore amica ultimamente non se la passava benissimo, dal punto di vista economico. Il fatto che lavorasse proprio nella prima gioielleria presa di mira dal misterioso ladro non aiutava: era sparito quell'unico Red Crystal, mentre diamanti, perle e catene d'oro erano rimasti intoccati ai loro posti, e lei era divenuta la principale sospettata del furto, in quanto unica persona presente al momento dei fatti. Non c'erano prove tangibili contro di lei - le telecamere a circuito chiuso la mostravano prima intenta a vendere ad un cliente un anello di fidanzamento, poi pigramente abbandonata su uno sgabello in un momento di calma e infine lunga stesa a terra, come fosse stecchita. Tutto questo senza una diamine di interruzione: la sequenza in cui Minako si accasciava al suolo era stata studiata in ogni dettaglio da Usagi e tutto il suo reparto, eppure l'unica cosa che si riusciva a vedere era il cristallo scomparso che prendeva, usciva dalla sua teca allarmata e si allontanava da solo, fluttuando nell'aria. Tutte le volte in cui il nastro veniva mandato indietro, rivisto e poi riavvolto, l'intero Ufficio Investigazione era sempre più inebetito e confuso da quella scena, e tutti finivano per avere un fastidioso mal di testa che si estingueva da solo qualche minuto dopo. Nessuno, però, riteneva questo fatto particolarmente degno di nota: sicuramente rivedere quegli spezzoni dieci volte all'ora poteva non essere esattamente piacevole per la vista ed il cervello.
Fatto sta che la direttrice della gioielleria - molto scettica di fronte alla storiella di un cristallo che svolazzava fuori dal suo negozio - aveva suggerito a Minako di dare le dimissioni. Usagi aveva provato invano a convincerla a non farlo: la sua datrice di lavoro non poteva allontanarla per qualcosa che non aveva commesso, e poteva appellarsi a qualunque articolo e cavillo del Codice per mantenere il suo posto di lavoro indeterminato. Minako, però, aveva accolto l'invito: non riusciva a non sentirsi responsabile per ciò che era accaduto, e per non saper neanche raccontare agli inquirenti i dettagli di quel pomeriggio, come se avesse dormito tutto il tempo. Usagi alla fine aveva desistito, se hai un cuore troppo grande e ami il prossimo più di quanto ami te stessa, io non so proprio che fare, e Minako aveva sorriso triste, rientrando seduta stante nel favoloso mondo dei disoccupati. Adesso frugava febbrilmente la sezione delle offerte di lavoro su ogni quotidiano: se non altro, il suo licenziamento spontaneo le era valso delle buone referenze, che sicuramente le avrebbero fatto comodo nella ricerca di un nuovo impiego. Certo, questo se nessuno dei suoi potenziali nuovi datori di lavoro avesse notato la coincidenza di date fra il furto e le dimissioni... che lei avrebbe cercato di nascondere il meglio che poteva.
« Che voleva stavolta Luna? »
« Il solito » mugugnò Usagi mentre tamponava l'acqua che le impregnava i capelli con un asciugamano più grande del normale, ricamato da sua madre Ikuko. Non essendo mai riuscita a convincerla a tagliarli, la donna era dovuta correre ai ripari, cucendole un servizio di asciugamani extra-large che non lasciassero sfuggire neanche una doppia punta: quando viveva ancora a Juuban lo faceva principalmente per non far buscare alla figlia un raffreddore e alle piastrelle del suo pavimento un allagamento da incubo, adesso che Usagi aveva abbandonato il nido continuava a produrre ricami a ritmi industriali cosicchè almeno un paio di volte al mese potesse avere una scusa buona per visitare la sua bambina. Al momento, Usagi aveva ventinove anni e qualcosa come centosettantadue asciugamani (e non era sposata, che non c'entrava niente, ma sua madre glielo ricordava sempre). La stima esatta, firmata Ami Mizuno, teneva conto anche di quelli che avevano riportato ferite di guerra in seguito a stirature maldestre e quelli che Usagi regalava a Natale alle sue quattro amiche più care. Una domenica su due un nuovo palettino si univa agli altri nel quadernino azzurro: essendo il giorno libero della dottoressa, nessun cadavere rischiava - e solo rischiava! - urti o tagli postumi.

Da qualche parte a Juuban, Mamoru Chiba si rigirava fra le dita un solitario da 18 carati. In realtà stava ripetendo i soliti esercizi che faceva da anni per allenare le sue mani da chirurgo, con l'unica variante di avere qualcosa come 75000 yen sulla punta del medio.
Dal giorno prima fissava quel diamante, indeciso sul da farsi: l'aveva poggiato prima sul comodino, dopo sul futon, poi sul piano cottura, infine sul tavolo dove pernottavano le sue chiavi di casa, subito accanto alla porta, ma era giunto alla conclusione che non stesse bene da nessuna parte. Allora aveva cominciato a esercitarsi.
« Mi vuoi sposare? » si chiedeva di fronte allo specchio, inginocchiato davanti all'armadio.
L'altro Mamoru, dentro il vetro trattato, era un po' imbarazzato e non si decideva mai a dir di sì, così tutte le volte che Chiba-due rifiutava, l'anello cambiava posto. Quella notte dormì nel terriccio di un ficus, mentre Mamoru, essendo sabato sera, pensò bene di folleggiare leggendo un articolo recentissimo sui nuovi ritrovati chirurgici per l'asportazione della cataratta.
Motoki Furuhata, che col suo migliore amico condivideva solo l'età e la passione per le moto, pensò bene di attaccarsi al campanello per farlo scendere nel giro di cinque minuti. Era più o meno sicuro che stesse leggendo qualcosa di insostenibile sul trattamento delle emorroidi, e non poteva tollerare il fatto che da qualche parte della città ci fossero delle gnocche a piede libero senza che lui potesse rimorchiarle. Mamoru non era interessato alla merce, ma la logica maschile prevedeva la presenza di una spalla, di un braccio destro, o direttamente di un intero corpo umano funzionante in ogni sua parte per sostenere un manzo nelle sue missioni di conquista, così Chiba si poteva benissimo attaccare al ca...sco della moto, vestirsi appena decentemente e seguirlo, anzi accompagnarlo, dato che lui era in riserva da circa tre settimane.
Quando il suddetto Chiba si affacciò dal balcone con addosso una felpa, un paio di boxer e degli zoccoli modello-nonno-di-Heidi, Motoki si sentì male, imprecò sottovoce e salì nell'appartamento col casco sottobraccio. Anche quella sera le gnocche rimasero al sicuro nelle loro postazioni sparse per Tokyo, il fascicolo sulla cataratta (già letto e sottolineato) venne posato su un divanetto, Motoki e Mamoru si addormentarono di fronte a un film. Quella sera avevano tentato di guardare Iron Man, ma avevano cominciato a russare già prima che Tony Stark riuscisse a finire la sua armatura.

Qualche isolato più in là, a casa Kino, cinque ragazze dormivano pesantemente con addosso improponibili pigiami con orsacchiotti, conigli e pecorelle. In realtà quattro stavano dormendo, la quinta si stava scervellando in sogno: Ami Mizuno non era il tipo che rimanesse volentieri indietro con le sue mansioni, soprattutto perché bastava un minimo ritardo per saturarle tutti i cassetti scorrevoli dell'obitorio, e okay che non si trovava poi così male in mezzo a quel ghiaccio e alle bolle di nebbia che scoppiettavano non appena scongelava momentaneamente un cadavere, ma c'era un limite al disordine, perbacco! Così aveva pian piano imparato ad addomesticare la sua vena onirica, in modo che lasciasse spazio alla fase REM solo dopo aver ripercorso rapidamente ma con abbondanza di dettagli tutti gli avvenimenti e le analisi del giorno. Usagi aveva riassunto questo procedimento con una parola, ouch. E non perché avesse effettivamente senso in relazione a tutto ciò, ma perché l'unica reazione che era riuscita ad avere di fronte al racconto sulle abitudini dell'amica era stata il portarsi le mani fra i capelli. In realtà prima di questo gesto si era schiaffeggiata la fronte, scuotendo la testa, ma la combinazione di movimenti le era uscita male e si era cacciata un dito nell'occhio, da qui il famoso ouch. Comunque, mentre Ami ouchava, cacciò un'imprecazione nel dormiveglia.
Normalmente Minako ed Usagi non si svegliavano neanche con una cannonata precisamente indirizzata sul timpano, ma quella volta scattarono sul futon, addirittura prima di Rei e Makoto: Ami aveva detto una parolaccia, e questo poteva solamente significare che il mondo stava per finire e che dovevano salutarsi con le lacrime agli occhi prima che fosse troppo tardi.
Ami le fissò imbarazzata, sebbene fosse ancora un po' in trance. Poi mandò tutto al diavolo, e parlò.
« John Doe non è morto per cause naturali. »
« Ha avuto un infarto? » chiese la bocca impastata di qualcuna.
Ami scosse la testa. « Non aveva malattie, alterazioni dei valori del sangue, segni di patologie letali. Non ha avuto un ictus, né un infarto, niente di niente. »
« Vuoi dire che l'hanno... ammazzato? » chiese Usagi con le mani sulla bocca. Poi si ricordò di essere responsabile dell'Ufficio Investigazione, dunque si rese conto che non stava proprio bene reagire come una bambina impaurita a una possibilità del genere. Le sue amiche comunque, ormai troppo abituate, non ci fecero troppo caso.
« Non ci sono segni di arma da fuoco, nè di coltellate, né tracce di veleno di alcun tipo. Non è affogato, non è stato strangolato, non è stato colpito, non è stato bruciato. »
« Ma allora... deve essere morto per cause naturali! Perché dici di no? » esclamò perplessa Makoto, che ci teneva particolarmente a tagliar corto per dormire le tanto agognate dodici ore della notte fra sabato e domenica.
Rei però sapeva già cosa stesse per dire. Anzi, a dire il vero non lo sapeva, ma se lo sentiva. In effetti aveva percepito qualcosa di strano, quando era passata a portare dei tramezzini alla dottoressa Mizuno...
« È caldissimo, ragazze. »
Usagi avrebbe avuto qualcosa da obiettare, dato che quell'anno l'inverno non stava essendo esattamente mite, ma si autocensurò in tempo, capendo.
« Un morto... caldo? »
  
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