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Autore: Blackbird_    21/03/2014    8 recensioni
Per John scrivere una canzone d'amore è sempre stato un gioco da ragazzi. Quello che però Lennon non sa è che parlare dei propri sentimenti in un testo non è così facile: aprirsi al mondo, rivelare ciò che più nascosto c'è nella testa e nel cuore, parlare di sé al mondo è molto più difficile di quanto possa sembrare. Ma John Lennon è un uomo orgoglioso e cocciuto e scriverà comunque la sua canzone, dichiarandosi fra le righe alla persona più importante della sua vita...
Genere: Angst, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: George Harrison, John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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If I Fell


 
John girò e rigirò fra le dita quel biglietto di San Valentino per la milionesima volta. Ormai aveva perso il conto di quanti ne avesse ricevuto, in quell’anno. Quello era uno dei tanti. Era anche l’unico, però, ad aver catturato tutta la sua attenzione. Lo poggiò lentamente sullo scrittoio dove era sistemato e riprese a leggerlo, per la millesima volta da quando lo aveva notato per la prima volta.
 
 
Non t'amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani che propagano il fuoco:
t'amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, entro l'ombra e l'anima.
T'amo come la pianta che non fiorisce e reca
dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;
grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato aroma che ascese dalla terra.
T'amo senza sapere come, né quando né da dove,
t'amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti
che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.*
 
A: John Lennon    DA: Anonimo
 
 
"Cosa ti prende, Johnny?" lo interrogò George, guardandolo di sottecchi. Con una rapida occhiata capì che quel biglietto che l'amico stava leggendo e rileggendo era la causa di quell'insolito silenzio. Non era da Lennon, dopotutto, essere così pensieroso e meditabondo: quello, di solito, era il suo ruolo nella band.
"Niente" fu la risposta secca e poco attenta di John, che non distolse minimamente lo sguardo da quel bigliettino color cielo e da quelle parole scritte in una calligrafia rotonda e ordinata.
George fece un cenno a Ringo, seduto dietro il tavolino da tè insieme a lui. Era un uggioso e piovoso San Valentino, uno dei tanti che i quattro trascorrevano lontani da casa per colpa del tour e delle incisioni. Ormai, vivendo praticamente insieme da mesi, tutti e quattro avevano imparato a conoscersi e a capirsi con un semplice scambio di sguardi. E come Harrison era riuscito a notare la stranezza nei comportamenti di John, così Ringo aveva realizzato dal cenno dell'amico che, in qualche modo, avrebbero dovuto risollevare Lennon dai suoi pensieri chiaramente neri.
Perciò Richard, senza farsi troppi problemi, si alzò e si avvicinò a grandi passi verso lo scrittoio su cui era poggiato John. Appena questo notò lo spostamento d'aria ed intuì le intenzioni del batterista, però, si affrettò a voltare la cartolina, mostrando il suo lato bianco e vuoto.
"Dai, John, apri il tuo cuore con noi" insistette Ringo, palesemente insoddisfatto della mancata riuscita della sua missione impossibile. Quando quel testardo di Lennon decideva qualcosa, quella doveva essere. E se, quel pomeriggio, aveva deciso che quel biglietto non doveva essere letto, nessuno lo avrebbe fatto. E questo comportamento quasi infantile innescava negli altri componenti della band un ancor più infantile bisogno di andargli contro, spesso facendo i capricci. Ma, in realtà, non vincevano quasi mai.
"Secondo voi si può amare qualcuno senza nemmeno saperlo?" domandò John, placido, freddo. Sembrava non aver minimamente ascoltato le parole dell’amico che, ora, lo guardava con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. “Ma che cazzo di domanda è?” inveì, perplesso, il batterista e “Richie! Cosa sono queste brutte parole?” lo canzonò George, scoppiando poi a ridere. Era proprio vero: i ruoli si erano invertiti. Di solito era John quello scherzoso e dal tono perennemente canzonatorio. Ringo, quasi offeso da quell’imbeccata, tornò al tavolo dove era seduto Harrison ed iniziò a lamentarsi con lui per quei toni poco carini che aveva utilizzato.
John, perciò, ringraziò il cielo o chi per lui per essere riuscito a liberarsi della curiosità di quei due così in fretta. Non era il momento adatto per scherzare, quella poesia e quell’autore anonimo gli stavano confondendo le idee. Nella sua testa si affollavano decine e decine di quesiti, accompagnati da echi di parole lontane. Si può amare qualcuno senza nemmeno saperlo? Senza sapere come, né quando né da dove Si può amare qualcuno in segreto? Come si amano certe cose oscure, segretamente. Può il fiore di un amore non sbocciare mai? Come la pianta che non fiorisce e reca dentro di sé la luce di quei fiori. Esiste un amore puro? Senza problemi né orgoglio. Si chiese, ancora una volta –la tredicesima, da quando aveva aperto la busta contenete quella cartolina- chi fosse il mittente, perché avesse preferito non firmarsi. Fino a quel momento tutte le sue fan non si erano mai poste grandi problemi a farsi conoscere, in un modo o nell’altro, pur di riuscire a ricevere una risposta e un autografo in cambio. Chi era quella persona che, anonimamente, gli stava confondendo così tanto le idee su ciò che di più certo vi era nella sua vita?
“Cos’è tutto questo baccano?” si annunciò Paul, divertito, entrando nella stanza. Riuscì, incredibilmente, a conquistare l’attenzione di tutti e tre i compagni di band: George e Ringo interruppero il loro battibeccare e John smise di guardare il lato bianco del biglietto. Con un asciugamano fra le mani il nuovo arrivato si frizionò i capelli ancora bagnati. Il motivo per cui Paul avesse il vizio di gironzolare in accappatoio per le suite d’albergo subito dopo essersi fatto una doccia era sempre stato un mistero ancora per tutti. “John non vuole dirci a cosa sta pensando” si lagnò Ringo, mentre il nuovo arrivato ciabattava lentamente verso il piano bar. “E Richie usa linguaggi scurrili” proseguì George, mentre il nominato si voltava per guardarlo nel modo più malevolo che le sue possibilità gli permettessero. Paul ridacchiò, come al suo solito di fronte alle bisticciate fra i due, stappò una bottiglia di vino bianco francese e versò il liquido ambrato in quattro bicchieri già preparati sul ripiano. Porse ai due amici il loro calice, per poi prendere il proprio e quello di John.
“Cosa ti prende, Johnny?” chiese poi all’amico, porgendogli il bicchiere di vino. John lo guardò da capo a piedi, con un’espressione impassibile, per poi schioccare la lingua ed accettare il dono dell’amico. “Pensieri” rispose, stavolta, evitando di negare nuovamente l’evidenza. Il linguaggio criptico era una delle sue specialità, in casi simili, ma, perlomeno, era riuscito ad esternare un minimo delle sue preoccupazione. “Una canzone può risolvere molti dubbi” replicò Paul, alzando lievemente il bicchiere in segno di brindisi. Bevve, poi, compiaciuto dalla propria arguzia e dal proprio ottimo consiglio. Senza condividere il cincin con l’amico, Lennon poggiò il  calice ancora pieno sul ripiano dello scrittoio. “Non sono un fottuto jukebox, Macca. Non sono come te” fu la sua risposta secca e per niente soddisfatta. “Provaci, almeno” non si scoraggiò Paul, svuotando definitivamente il bicchiere.
John infilò la cartolina nella sua busta e si alzò, spostando pesantemente la sedia apparentemente antica. “Anche volendo sarebbe troppo difficile, con voi tre ficcanaso sempre fra i piedi a curiosare fra le mie cose” pronunciò stizzito. Lanciò un’occhiata ai due seduti sul tavolino da tè, sperando che lo avessero sentito, e, notando le loro espressioni quasi offese, se ne andò verso la sua stanza da letto.
Odiava ammetterlo ma, per una volta, Paul aveva ragione. Non era affatto la prima volta, in realtà, ma il suo orgoglio era sempre troppo forte per cedere e fargli ammettere di avere torto. John era sempre stato bravo con le parole, con i modi di dire, con i giochi di suoni. Era sempre stato bravo anche a scrivere di sé, di quello che gli frullava per la testa. La prova erano i due album già pubblicati, tutte le canzoni che, insieme al suo compagno di band, aveva composto e scritto. Era sempre stato facile scrivere, per lui. Qualsiasi cosa: racconti, poesie, canzoni. Per una volta, però, i pensieri erano talmente affollati da non lasciar spazio all’immaginazione di filtrarne alcuni per poterli riportare su carta.
Si richiuse la porta alle spalle, sperando di isolarsi completamente dagli altri, e si sedette su una sedia posta vicino al tavolo porta televisore. Aprì lentamente la busta con dentro il biglietto di San Valentino e lo tirò fuori con gli occhi chiusi, prendendo delle grosse boccate d’aria. Stava per ricominciare a leggerlo per l’ennesima volta quando, in una grande confusione, Paul spalancò la porta della stanza. John, disturbato ancora una volta da quello che sembrava essere diventato un esercizio per la sua tranquillità, girò nuovamente la cartolina, mostrandone il retro. McCartney, entrando, gli fece l’occhiolino e si sbrigò a raggiungere il grande armadio posto a pochi passi dall’enorme letto al centro della stanza. Lo spalancò e ne tirò fuori il necessario per rivestirsi.
“Mi spieghi per quale motivo ti diverti a gironzolare nudo nella mia stanza?” chiese John, seccato, studiando ogni suo movimento con gli occhi ridotti a due fessure. “Perché, Johnny caro, dimentichi che questa è anche la mia stanza” rispose Paul, divertito da tutto quel finto fastidio che trapelava dal tono di voce dell’amico. Si sfilò l’accappatoio con nonchalance, obbligando l’altro a voltarsi per non sembrare inopportuno. “Alberghi di merda, è così difficile mettere quattro stanze singole in una suite?” commentò John, sbuffando, mentre Paul scoppiava definitivamente a ridere. “Finisco di vestirmi ed esco, tranquillo. Non interromperò ulteriormente il tuo estro creativo, promesso”.
E così fu. Paul era abbastanza intelligente da aver capito che quando John era di umore nero era assolutamente inutile parlargli, scherzare o tentare di consolarlo. La pietà e la compassione erano inutili con lui, e anzi non facevano altro che peggiorare la situazione. Tutto ciò che bisognava fare era lasciarlo in pace, lasciare che assimilasse e combattesse da solo i suoi fantasmi e i suoi pensieri negativi. Perché John Lennon era un tipo orgoglioso, e questo lo sapevano bene tutti, ma il suo migliore amico in particolar modo. Si vestì, quindi, in fretta e furia, fissando la nuca di John che, appoggiato sul mobile, fissava qualcosa su di esso. Quando terminò uscì dalla stanza, con un semplice “Se ti servo, sono in sala con gli altri” che non ricevette risposta.
Passarono svariati minuti prima del risveglio di John da quella trance che lo aveva avvolto. Era tanto orgoglioso quanto lunatico e, in un batter d’occhio, scattò in piedi. Quel momento di assoluta riflessione venne interrotto, infatti, da un improvviso attacco di frenesia, di voglia di fare, di scrivere. Si precipitò verso il comodino dalla sua parte del letto, aprì il primo cassetto velocemente e afferrò una penna. Riempire la stanza d’albergo di penne era sempre stato un suo grande vizio, ma era bene essere preparati agli improvvisi attacchi d’ispirazione. Sì, in quel momento si sentiva ispirato. Finalmente. Era riuscito, con quel lungo silenzio e con quei minuti a fissare il lato bianco della cartolina, a filtrare le proprie idee, i propri pensieri. Finalmente sapeva cosa lo turbava. Non aveva ancora risposte alle sue domande, ma sapeva di cosa avrebbe parlato. Tornò al tavolo, si sedette pesantemente e stappò la penna, per poi poggiarne la punta sul retro di quel biglietto che tanto gli aveva dato da pensare.
 
Intro]
 
Scrisse, frettolosamente, nell’angolo in alto a sinistra del foglio, relegato in un quadrato. Tremò per un attimo, spaventato per quello che aveva improvvisamente in mente. Poggiò di nuovo la punta della penna sul foglio, dopo averla fatta vibrare in aria per un po’, prese un respiro e chiuse gli occhi. Doveva scrivere, o presto sarebbe impazzito sommerso dai pensieri.
 
If I fell in love with you
 
Lo aveva fatto, lo aveva scritto davvero. Ci era riuscito.
Mai, come in quel momento, si rese conto di quanto quella locuzione fosse azzeccata. Amare, innamorarsi, era una vera e propria caduta libera. Una realtà che ti privava della terra sotto i piedi per sopravvivere, una realtà che ti toglieva ogni genere di certezza. Cadere, senza freni. Lasciarsi andare. Precipitare, vittima della gravità e degli eventi. Il dubbio era sempre presente: si cadeva, ma si atterrava? E, se accadeva, come?
John sapeva benissimo che sarebbe finito giù senza freni, fino alla distruzione. Non ci sarebbe stato nessuno a rendergli la caduta più morbida. Perché, quella volta, era diverso. Molto diverso. Troppo. E, per la prima volta, John aveva voglia di parlare di sé, di quello che aveva dentro, senza più inventare.
 
Would you promise to be true
and help me understand?
 
Si può amare qualcuno senza nemmeno saperlo? Quella domanda, che a Ringo e George era parsa così assurda, continuava a rimbombare nella mente di John. Le cotte, gli innamoramenti, erano facili da riconoscere. Si sentivano, si conoscevano. Tutti i sintomi erano sempre stati così minuziosamente descritti da letterati e musicisti da rendere molto difficile l’ignoranza nel campo. Persino John, in quegli anni di carriera che gli permisero di diventare un componente della band più famosa del mondo, ne aveva spesso parlato nelle sue canzoni. Tante erano persino diventare delle hit mondiali. Ma mai, come in quel momento, si sentiva di non sapere un bel niente dell’amore. Perché, appunto, era improvvisamente di quello che si parlava. Amore vero, non semplici sbandamenti. Nessuno gli aveva mai insegnato a conoscerlo. Ed ora, improvvisamente, sentiva questo bisogno. Cos’era quello che aveva dentro? Solo una persona avrebbe potuto aiutarlo, probabilmente la persona più sbagliata della Terra.
 
'Cause I've been in love before
And I found that love was more
Than just holding hands.
 
Chiuse con un punto la frase appena scritta.
“Ma come ti viene in mente?” chiese, prendendo la pena e scarabocchiando il foglio sul quale Paul aveva appena scritto. Quello alzò lo sguardo per incenerirlo con i suoi occhi verdi, ma senza minimamente riuscire a scalfirlo. “E’ una licenza poetica, John” cercò di spiegargli, mantenendo la calma ed evitando di urlargli contro. Erano a casa di Jane, coi genitori presenti, e una litigata delle loro era davvero un pessimo biglietto da visita per quelli che, probabilmente, sarebbero diventati, prima o poi, i suoi suoceri. A John, invece, di Jane e dei suoi genitori importava ben poco. Era sicuramente molto più concentrato sulla riuscita della canzone che stavano provando a scrivere da ore. Brian era stato chiaro: “Scrivete ad una canzone pensando all’America”. Comporre la melodia era stato semplice: erano riusciti in poco tempo a trovare l’andamento giusto, a trovare gli accordi perfetti e l’atmosfera ideale per una canzone pensata per il mercato americano. Il problema, ora, erano le parole.
“I want to hold your hand, Paul? Voglio stringerti la mano? Stiamo scrivendo una fottutissima canzone d’amore, non una canzoncina per bambini dell’asilo” lo riprese, di nuovo, col tono di voce sempre più alto. Era furioso. “Conosci qualcosa di più romantico?” chiese Paul, a voce bassa, prendendo un foglio bianco poco distante da lui e riscrivendo i primi due versi. “Qualsiasi cosa è più romantico di una stretta di mano!” lo attaccò l’amico, riuscendo però a contenere la voce. Paul sorrise appena, terminando la copia di quelle poche parole che avevano già scritto, e si mise a guardare l’amico che iniziava a diventare paonazzo in viso. “Ti sbagli di grosso, Johnny. Tenersi per mano è un gesto d’amore. È intimità. È essere una cosa sola…” “Sei uno schifoso sentimentale” lo interruppe John, incrociando le braccia. Non era affatto convinto di quello che aveva appena ascoltato, ma non poteva più replicare alla sua maniera, piccato. Non aveva altro da aggiungere.
L’amore era molto più di una stretta di mano.
“Può darsi” alzò le spalle Paul, soddisfatto per essere riuscito, con le sue parole, ad aver fatto finalmente calmare l’amico. “Hai qualche idea migliore?” domandò, poi indicandolo con la punta della penna stilografica che teneva in mano. “Potremmo parlare di scambi di sguardi, di parlare con gli occhi” proseguì, pensante, mentre John alzava gli occhi al cielo, interdetto. Quale parte del ‘no alle canzoni per i bambini dell’asilo’ gli erano estranei? “Lascia perdere, Paulie” lo glissò, semplicemente.
Tenersi per mano era intimità. Era essere una cosa sola.
“No, John. Dev’essere una canzone seria, e ci dobbiamo lavorare insieme, ricordi? Dimmi cosa ne pensi” insistette Paul, mentre Jane entrava nello scantinato per portare ai due il terzo tè della giornata. Era ormai pomeriggio inoltrato, e i due stavano lavorando alla loro canzone per l’America già dalla mattina presto. La ragazza, dopo aver lasciato sul tavolo il vassoio con le due tazze, diede un bacio a Paul, che fu ben felice di ricambiare per un tempo che sembrò infinito. Quando lei li lasciò nuovamente soli a lavorare, John guardò Paul perplesso. “Cosa c’è?” chiese questi, sentendosi improvvisamente studiato e sotto esame. “E’ questo che stavo cercando di spiegarti. L’amore non è solo stringersi la mano, è anche baciarsi, toccarsi. È anche qualcosa di più fisico di due mani che si intrecciano, ecco” “Lo so, Johnny, ma non possiamo metterci a parlare di tutto”. Il loro discorso si chiuse così. Quella giornata terminò in fretta e la loro canzone non era ancora pronta. Era una novità, rispetto ai loro standard: erano sempre riusciti a scrivere brani interi in poche ore ma quella, altroché, stava dando loro dei veri grattacapi.
Amare era molto di più.
Quella sera, John portò a casa con sé quelle poche parole che erano riusciti a buttare giù. Sapeva che la moglie e il figlio erano già a dormire perciò evitò di disturbarli, e si sistemò sul tavolino del salone. Strappò un paio di fogli a righe da un quadernino ad anelli che Cyn aveva lasciato lì ed iniziò a scrivere.
I want to hold your hand. La canzone che li aveva portati al successo anche nel nuovo continente era stata una piccola vittoria di Paul.
John, al solo pensiero di quel giorno, sorrise debolmente. Quella notte di fine anno aveva imparato molte più cose sull’amore di quanto non avesse fatto in una vita intera. Non era il gesto in sé a rappresentare quel sentimento, ma era ciò che racchiudeva: empatia, sicurezza, intimità, comunicazione, unione. L’amore era complicità, era accettare e comprendere i difetti degli altri, era essere felici della felicità dell’altro. L’amore era trovare il contrappunto della propria anima.
Quelle vecchie consapevolezze tornarono alla sua mente e lo cullarono per qualche minuto, rispondendo ad alcune delle sue domande. Quella, però, era una di quelle situazioni in cui crogiolarsi nei dubbi era di gran lunga più confortante di quella verità. Perché la verità faceva male, e spaventava.
Trattenne il respiro per un attimo, tremando appena, per poi tornare a dedicarsi alla sua canzone. Quello non era il momento migliore per perdersi fra i ricordi e fra le vecchie e nuove paure.
Tracciò velocemente una stanghetta verticale, per poi cerchiarla con un tratto veloce e sicuro. Uno: stava per iniziare la prima parte del suo racconto, di ciò che aveva da dire. Fin’ora era stato solo un’introduzione celere, un porre le basi per ciò che sarebbe seguito. Ma ora, finalmente, era pronto ad aprirsi più di quanto non avesse già fatto coi pochi versi che aveva già buttato giù, nero su bianco, sul retro di quel bigliettino.
 
If I gave my heart to you
 
John storse le labbra un attimo dopo aver finito di scrivere l’ultima parola: quel passato stonava terribilmente. E non perché suonasse male musicalmente: della musica non si era ancora occupato affatto, preso com’era dalla foga di tirar fuori quello che aveva dentro. Quella frase ipotetica, quella eventualità mancata resa ormai impossibile dal tempo verbale coniugato male gli facevano mancare l’aria. Perché, sebbene sapesse fin troppo bene quanto irrealizzabile fosse tutto quello che stava scrivendo, una minuscola parte di sé continuava a sperare in qualcosa di diverso. Era di presente che aveva bisogno quella sua piccola parte, magari anche di futuro. Perciò, velocemente, tracciò una i fin troppo marcata sopra alla a di gave che ora, finalmente, era diventata give. Una risata, quasi isterica, perforò il silenzio. Quell’illusione era troppo assurda persino per il suo creatore. Non serviva a nulla crederci troppo, come non era servito a nulla, fino a quel momento, negare l’evidenza.
Il suo, probabilmente, era amore, quello vero, ma niente e nessuno lo avrebbe mai dovuto sapere.
 
I must be sure
from the very start that you’re,
gonna love me more than her
 
Si può quantificare l’amore? Se c’era un modo per poterlo fare, in quel momento, di certo sarebbe stato molto utile. Perché se quello che John stava improvvisamente provando –e, in realtà, chissà da quanto lo provava- era davvero amore, cos’era quello che provava per Cynthia, sua moglie? In cuor suo sapeva fin troppo bene quante differenze ci fossero fra i due rapporti.  Lei era una donna meravigliosa, solare, protettiva, semplice, senza pretese. John le voleva davvero bene: lei gli aveva mostrato quanto amore potesse meritare, gli aveva mostrato un nuovo mondo e lo aveva aiutato a crescere. Loro figlio era qualcosa accaduto per caso, ma, nel suo piccolo, era stato un miracolo, e non solo un pretesto per farli sposare. Era la migliore ragazza con cui John fosse stato, e lui la amava davvero.
O, almeno, era quello che aveva sempre creduto. Nonostante gli anni insieme, Cynthia non era quell'opposto e contrappunto che combaciava perfettamente come un pezzo di puzzle alla sua anima controversa, e lui questo lo sapeva fin troppo bene. Sbuffò, quindi, quando si rese conto che lui, probabilmente, un'anima gemella l'aveva eccome... Ma non era lei. C'era solo una persona sulla faccia della terra con la quale aveva davvero sintonia, comunicazione, unione ed affinità. C'era solo una persona in grado di riempire ogni suo vuoto, di comprenderlo, assecondarlo e, se necessario, andargli contro.
Era amore, quello? Se tutto ciò che era frullato nella sua testa fino a quel momento era vero... Probabilmente sì. Ma si può vivere nella consapevolezza di non poter mai amare la propria anima gemella?
John alzò gli occhi al cielo, maledicendo se stesso e i propri pensieri. Anima gemella? Era serio? Probabilmente scrivere quella canzone e scavare così a fondo fra i propri pensieri e sentimenti lo stavano rendendo pazzo. Non era mai stato così sentimentale e non voleva diventarlo proprio in quel momento. Si alzò dal tavolo, buttò la penna a terra e si gettò sul letto, affondando il viso in uno dei cuscini candidi. Anche solo l'aver pensato quello che aveva pensato lo rendeva nervoso. Si stava aprendo, stava mostrando al mondo la propria vulnerabilità. E lui non era così. O, meglio, lui non appariva così. Lui era quello forte, era quello sicuro di sé, era quello che sapeva sempre cosa dire al momento giusto.
Avrebbe dovuto alzarsi, prendere quel maledetto bigliettino di San Valentino e tutte le sue parole, farlo in mille pezzi e gettarlo nel camino insieme a tutte le altre lettere d'amore che aveva ricevuto. Avrebbe dovuto prendere un altro foglio bianco e scrivere le prime cose che gli capitavano a tiro, prendere la sua chitarra, trovar loro una melodia e renderle la prossima hit mondiale. E, invece, John, ad occhi chiusi,  inspirò una, due, tre volte. Si riempì i polmoni di quell'aria profumata di biancheria pulita e pino silvestre, e si beò di quei profumi contrastanti ma così dannatamente compatibili. I due aromi si mischiavano perfettamente, si riempivano a vicenda. Il fresco e familiare di uno si aggiungeva al caldo e dolce dell'altro. Erano l’uno l’opposto e contrappunto dell’altro e insieme funzionavano in modo impeccabile, creando nell’aria un aroma perfetto.
Passarono parecchi minuti prima che John trovasse la forza e il coraggio di voltarsi, aprire gli occhi e guardare il soffitto bianco della sua stanza. Forse stava diventando pazzo sul serio ma, per la prima volta, avrebbe rischiato. E non per far conoscere al proprio contrappunto ciò che sarebbe accaduto se solo avesse provato a dichiararsi. Anche perché, in realtà, quella canzone sarebbe stato il suo unico modo per farlo: non voleva rendersi ridicolo, non voleva esporsi troppo e non avrebbe mai e poi mai messo alle strette l’oggetto di quel suo amore così profondamente sincero. Per la prima volta, John scriveva per sé, per sfogarsi, per togliersi di dosso tutto quello che aveva in testa. Quella canzone forse sarebbe diventata la sua prima ballata, o forse un’altra delle sue numerose hit. Ma quel che era certo era che sarebbe stata una delle canzoni più sincere che avesse mai scritto.
Rotolò giù dal letto velocemente e si buttò a terra, iniziando a camminare a gattoni alla ricerca della penna che aveva lanciato chissà dove. Guardò sotto il letto: niente. Sotto la scrivania, vicino al suo comodino, sotto l’armadio: niente. Iniziò ad avvicinarsi alla porta e fu lì che la vide: era a pochi passi dallo stipite in legno bianco dell’entrata della stanza. Ormai a terra, non si premurò affatto di alzarsi in piedi per raggiungere la propria preda, ma continuò il suo passo bambinesco. Era quasi arrivato a prendere quella dannata penna quando, improvvisamente, la porta si aprì.
“John è ora di cena, scendi con noi?” si annunciò George, con un sorrisetto soddisfatto a stirargli le labbra. Quando notò che il suo compagno di band non era alla scrivania come Paul gli aveva annunciato, ma a terra su quattro zampe, Harrison si spaventò un poco, e sgranò gli occhi. John reagì allo stesso modo, aprendo la bocca e assumendo un’espressione sconvolta. “Cosa stai facendo?” gli chiese il ragazzo alla porta, sconvolto ma assolutamente divertito. Lennon iniziò a balbettare frasi senza senso. Non aveva la più pallida idea di cosa dire. “Io… stavo… cercando la penna!” si giustificò infine, raggiungendo a grandi passi l’oggetto incriminato e mostrandolo all’amico. “E cosa ci faceva lì la penna?” chiese ancora George, iniziando a ridacchiare. “E’… è… volata. In un momento di entusiasmo, sai come funziona” inventò John, sperando di essere credibile. “Non importa. Vieni a cena o no?” cambiò discorso il ragazzo, sinceramente più interessato alla stanza piena di cibo che lo aspettava che alle avventure di John sul pavimento. “No, credo che resterò qui a scrivere” fu la risposta repentina di Lennon, che si alzò in piedi ed iniziò a pulirsi i pantaloni dalla polvere inesistente della moquette della stanza. “Ok”.
Quando il click della porta, più simile a un 'sei finalmente libero', riecheggio nella stanza insieme alle risate ormai lontane di George, John poté finalmente trarre un sospiro di sollievo. Ora la paura di apparire pazzo non era più forte come pochi minuti prima perché, fondamentalmente, la figura dello scemo l'aveva appena fatta. Cercando di non pensarci troppo tornò a gran passi alla sua sedia e rilesse le due strofe che aveva già buttato giù. Potevano andare: dopotutto non si era sbilanciato poi molto.
Aprì di nuovo la penna e ricominciò a scrivere velocemente, con la sua solita pessima grafia. Lasciò un po’ di spazio, tanto per far capire anche graficamente la fine della prima strofa, e, sul bordo sinistro del foglio, tracciò velocemente un due. Seconda strofa, era sempre più dentro a quell’affare. Cerchiò anche questo numero ed iniziò a scrivere il nuovo verso che gli era venuto in mente.
 
If I trust in you oh please

Improvvisamente, John non era più sicuro di quello che stava scrivendo. Non perché non lo convincesse il modo in cui stava aggiungendo parole ai suoi versi: erano le parole stesse a mandarlo in paranoia. Forse stava iniziando a spingersi troppo oltre. Quella che doveva essere una canzone per svuotare la mente si stava lentamente evolvendo in una dichiarazione in musica, anche se la musica ancora non esisteva.
Per un attimo, però, analizzò tutte le possibilità. Si fidava del suo cuore? Un po'. A volte troppo, a volte troppo poco. Stavolta troppo, in ogni caso. Si fidava di se stesso? A volte. Questa volta sì, sapeva di fare la cosa giusta. Si fidava di quella che considerava la sua anima gemella? Sempre. Lo aveva sempre fatto, e non avrebbe smesso per nulla al mondo. Non di certo adesso che stava iniziando a parlargli col cuore. Ma forse stava considerando troppo positivamente tutta quello situazione. Forse sbagliava a fidarsi del suo cuore, di sé, del suo amore.

Don't run and hide
 
Fuga. Nel peggiore dei casi quella sarebbe stata la reazione ad una simile dichiarazione.
Indifferenza. Forse sarebbe stata anche peggio.
John sapeva fin troppo bene come andasse il mondo. Conosceva i pensieri della gente, sapeva i pareri generali riguardo a determinati sentimenti. Il suo amore sarebbe stato frainteso, non capito. Le persone sarebbero state crudeli con lui.
Ma, più di qualsiasi altra cosa, John sapeva del parere della persona a cui stava dedicando tutto il suo amore, e quella canzone. Sarebbe fuggito, sicuramente, si sarebbe nascosto da lui e dai suoi sentimenti. Forse non si sarebbero più parlati, quel rapporto instaurato poco a poco sarebbe andato in frantumi in pochi istanti, lasciandolo a mani vuote.
Era stato difficile capire del suo amore, ma ora mille altri dubbi gli affollavano la mente. Non poteva parlare di questa cosa a nessuno o tutta la sua vita sarebbe stata compromessa. Sua moglie, i suoi amici, il gruppo, le fan. Nessuno sarebbe stato dalla sua parte.
"Secondo me le famiglie di Romeo e Giulietta erano troppo esagerate" sostenne John, richiudendo malamente il libretto con la sceneggiatura dell'opera shakespeariana che doveva studiare per uno show televisivo. George iniziò ad annuire sommessamente, mentre Ringo non tolse minimamente il suo nasone dalle pagine di quel libro che stava leggendo così appassionatamente.
"Sono d'accordo con te. L'amore dovrebbe andare oltre ogni pregiudizio ed orgoglio. E poi, sposandosi, quei due hanno anche unito Verona, portando guadagno ad entrambe le famiglie... Non capisco per quale motivo li abbiamo comunque voluti separare" argomentò George, gesticolando e perdendo il segno dalla propria copia del libro. Richard alzò lo sguardo per fissare l'amico, dubbioso. "E tutto lo spargimento di sangue? L'amore non è compensazione di morte..." "Certo che lo è, Richie" lo interruppe George, animandosi ulteriormente.
John sorrise nel notare il buffo dibattito al quale aveva dato il via, per poi voltarsi verso Paul che stava provando il proprio costume da Romeo di fronte allo specchio. "Tu cosa ne pensi, Paulie?" gli chiese, sinceramente curioso di conoscere il parere dell'altro amico. Quello si sfilò il cappello piumato dalla testa e guardò Lennon attraverso il riflesso dello specchio. "Io credo che sia troppo semplice parlare in questo modo. È ovvio che l'amore sia più forte dei pregiudizi e dell'orgoglio ma è anche vero che sradicare un determinato modo di pensare dalle menti di un'intera società sia difficile. Non puoi fare una colpa alle famiglie di Romeo e Giulietta solo perché la pensano come tutti gli altri" gli spiegò, lisciando con le dita la piuma di struzzo cucita sul copricapo.
"Ma come hanno aperto la mente i loro figli avrebbero benissimo potuto farlo anche loro" si imbronciò John, incrociando le braccia. Quando si trovava in disaccordo con l’amico per qualche motivo si ritrovava sempre ad intrecciare le braccia, in un gesto infantile che manifestava il suo totale disaccordo. "Non è facile come sembra" fu la placida risposta di Paul.
"Con questo costume sei ridicolo" cambiò discorso l'altro, indispettito dall'essere stato azzittito con così poche parole, guardandolo e sogghignando divertito dal vestito pomposo che le sarte del teatro avevano cucito apposta per la sua parte. "Pensa alle trecce bionde che dovrai mettere in testa per essere la mia Giulietta, piuttosto" gli fece la linguaccia Paul, ferito nel suo orgoglio di principe azzurro.
Per quanto l'amore potesse essere forte, nessuno avrebbe cambiato mentalità. Nessuno lo avrebbe sostenuto. Probabilmente nemmeno la sua anima gemella.
John vacillò per un momento, ricordando quel pomeriggio rinchiuso nel camerino di un teatro televisivo. Forse Paul aveva avuto ragione anche quella volta nonostante, come sempre, non gliel'avesse concessa personalmente. Fuga. Indifferenza. Probabilmente era questo che lo aspettava oltre il varco della dichiarazione.
Quando tornò con lo sguardo sul retro della cartolina si rese conto di essersi nuovamente perso nei meandri dei suoi pensieri, fluttuando in momenti passati che tornavano alla sua mente come dei film a colori. Era inutile considerare tutte quelle opzioni: quella sarebbe stata soltanto una delle sue tante canzoni, una come tutte le altre. Nessuno avrebbe mai conosciuto i suoi dissidi interiori nello scriverla.
La sua creazione stava prendendo lentamente forma e, in realtà, chissà se avrebbe mai visto la luce. Ad ogni parola scritta era sempre più combattuto fra le due idee contrastanti di stracciare tutto e di finirla e trovargli una melodia. Ma, come aveva fatto dall'inizio della stesura, si convinse che era meglio andare avanti e, per questo, tornò a scrivere.
 
If I love you too oh please
 
Quel too lo fece sorridere involontariamente. Perché come era possibile non sapere di essere innamorato, era possibile che non sapesse di essere ricambiato? Spesso aveva notato degli atteggiamenti strani, spesso ambigui, ma non ci aveva mai dato troppo peso. In realtà il più delle volte sentiva lo stomaco scombussolato ed un torpore che lo mandava in estasi ma solo ora ricollegava tutte quelle reazioni ai suoi sentimenti. Era possibile che il suo amore fosse ricambiato? Sorrise nel pensare che sì, forse anche lui era amato allo stesso modo in cui amava, di nascosto, quasi senza saperlo. Non appena si riprese, però, si diede mentalmente dello sciocco per aver ragionato come una qualsiasi ragazzina infatuata. Quello che provava e sentiva lui era ben oltre l'infatuazione.
Poi, però, la sua mente iniziò a viaggiare su una rotta del tutto diversa. Se fosse stato davvero ricambiato ne avrebbe avuto le prove. Si stava basando su sensazioni, casualità, e questo era il peggior modo per crearsi farse speranze. Non che desiderasse arrivare a conclusioni, era ovvio. Se conosceva bene la sua anima gemella, come credeva di fare, probabilmente quella si sarebbe aperta a lui, gli avrebbe detto ogni cosa. Avrebbe trovato un modo qualsiasi per fargli sapere del suo amore. Eppure ciò non era accaduto mai, e mai sarebbe accaduto. E poi, davvero, non era mai stato così fortunato nella sua vita. Lui non sarebbe mai stato ricambiato da nessuno. Cynthia era l'eccezione che confermava la regola anche se, in realtà, aveva già capito che non fosse la stessa cosa.
Questo altalenarsi tra massima positività e pensieri negativi lo disorientava più di qualsiasi altra cosa. Era sempre stato un tipo lunatico, era vero, ma questo continuo pendolare tra un estremo e l'altro lo rendeva insicuro ed incapace di comprendersi. Stava pensando a troppe cose tutte insieme, spesso senza un nesso logico ad unire tutte le parti. Era troppo facile scrivere canzoni parlando degli altri. Era ora che arrivava la parte difficile, e di questo se ne stava accorgendo in quel momento.

Don't hurt my pride like her

L'orgoglio, eccolo che tornava.
Finito di scrivere l'ultimo verso della seconda strofa, John richiuse la penna e la poggiò vicino allo schermo del televisore. Lesse e rilesse quello che aveva scritto fino a quel momento, navigando nuovamente fra quegli abissi di pensieri che lo avevano condotto fin lì.
L'orgoglio. Quante volte si era comportato in un certo modo solo per mantenerlo integro? Troppe, davvero. Probabilmente John non conosceva al mondo persona più orgogliosa di se stesso. Erano state rare le volte che era giunto a compromessi, che aveva accettato di mettere le proprie idee ed il proprio orgoglio in un secondo piano. Come quella sera di fine anno che aveva scritto I want to hold your hand. Rare, rarissime, ma pur sempre per qualcuno di importante.
Probabilmente non era mai stato ferito nell'orgoglio. Ma la frase che aveva appena scritto suonava bene, perciò decise di tenerla. Non doveva per forza parlare di tutto, giusto? Poteva sempre aggiungere e togliere come più gli aggradava. Dopotutto quella era la sua canzone.
Si convinse di aver fatto bene ad aver messo un verso solo parzialmente vero e decise di proseguire.
Un solo problema, però, ora lo torturava: aveva fame. Il suo stomaco brontolava già da qualche minuto, insistentemente. Era riuscito a sopportarlo il più a lungo possibile ma ora, sul serio, non riusciva più a gestirlo. Si alzò velocemente dalla sedia su cui stazionava già da un bel po' e cercò di mantenere un passo felpato nel tragitto fra quella e la porta. Diede un'occhiata curiosa attraverso la serratura, giusto per controllare che gli altri tre non fossero già rientrati dalla cena. Scrivendo aveva completamente perso la concezione del tempo, e potevano essere passate ore, o pochi secondi, dall'irruzione di George. In ogni caso, degli altri non sembrava esserci traccia e questo rassicurò un poco John. Non aveva voglia di piombare fra di loro, felici e spensierati, ed essere sommerso di domande su domande sul suo comportamento schivo. Doveva prima riuscire a concludere la sua dannata canzone.
Aprì la porta con forza e si sbrigò a raggiungere il piano bar situato nella parte opposta del salone rispetto alla sua camera. La moquette rossa purpurea attutiva ogni suo passo svelto che lo condusse fino al mini frigo posizionato sotto le mensole dei vini. Lo aprì, esultante, ma lo scarso contenuto affievolì tutto il suo entusiasmo. "Suite di merda" commentò a denti stretti, infilando la mano fra quelle piccole pareti ghiacciate ed estraendo un pacchetto di plastica con su scritto Tuna. Un sandwich al tonno era l'ultimo dei suoi desideri ma quella, sul serio, era l'unica opzione accettabile. A meno che non avesse voglia di pesce crudo o gelatine dalla dubbia provenienza. E, in tutta onestà, preferiva accontentarsi pur di non mangiare quella roba.
Richiuse l'anta del frigo e si avviò di nuovo verso la sua camera. Lungo il tragitto scartò il panino e gettò la carta a terra, dopo averla accartocciata alla meno peggio. Quella rotolò chissà dove e John sperò con tutto il cuore che le cameriere non la trovassero, che marcisse ed iniziasse ad emanare un odore così nauseabondo da far fuggire tutti i futuri clienti.
Si risedette al suo solito posto, addentando quella che era diventata la sua cena, dopo aver richiuso attentamente la porta della stanza. Masticando e appurando che, dopotutto, quella roba non era poi così male, ricominciò a leggere i versi già scritti. Iniziò a cercare quello che potesse essere il giusto arrangiamento per quelle parole. Immaginò una chitarra solista, due chitarre che si intrecciavano come due mani, il basso lento e delicato, la batteria leggera ma coinvolgente. Ma, nonostante le sue mille immaginazioni, nessuna nota e nessun accordo arrivarono alla sua mente. Era ancora troppo dentro le parole per astrarle e metterle in musica.
Tornò, perciò, a concentrarsi su di esse, mordendo per l'ennesima volta il suo sandwich. L'ultimo verso, notò, era incompleto. Era come se non riuscisse a rendere nella maniera giusta quello che frullava nella mente di John e, per questo, andava assolutamente completato. Non scrisse nessun tre cerchiato, dato che quello che aveva ora in mente non era tanto una terza strofa quanto un completamento della seconda.
Con la mano libera afferrò la penna poggiata a pochi centimetri dal foglio e "Cazzo!" gli cadde un pezzo di tonno sul foglio. Maledetto panino e maledetto tonno. Si sbrigò a togliere dal biglietto quel pezzetto di pesce intriso d'olio prima che potesse rovinarlo interamente e lo gettò a terra, schifato. La macchia provocata era piccola e scura ma, almeno, non aveva coinvolto nessuna parola scritta. Era proprio sotto la parola hurt, e per questo John lesse il tutto come un segno del destino. Al diavolo, non aveva mai creduto nel destino ma quell'olio avrebbe potuto benissimo cancellare quella parola dolorosa e, invece, non lo aveva fatto. C'era come un messaggio in tutta quella casualità: il dolore ci sarebbe stato, nulla lo avrebbe cancellato. Superstizioni del cavolo.
Girò fra le dita il biglietto per controllare che l’olio non avesse rovinato la poesia sulla facciata principale. Grazie al cielo sembrava non esserci alcuna traccia di quello che era appena accaduto e, con un sospiro di sollievo, John ruotò nuovamente il foglio e lo poggiò di nuovo sul tavolo.
Per forza di cose venne costretto a rientrare di un poco il margine del verso che stava per scrivere. Ma, pensandoci bene, forse quella non era una soluzione così pessima: scrivendo le nuove parole in modo diverso rispetto alle altre avrebbe reso meglio la sua subordinazione alla strofa precedente. Forse il destino non ce l’aveva poi così tanto con lui.
 
'Cause I couldn't stand the pain
And I would be sad
If our new love was in vain
 
John, stavolta, scrisse tutto d’un fiato, senza mai fermarsi a rileggere il verso concluso. Aveva avuto bisogno di tirar fuori velocemente quello che era bloccato sulla punta della penna e dei suoi pensieri, e lo aveva appena fatto. Solo dopo aver ripreso fiato, come se avesse scritto tutto stando in apnea, riuscì a rileggere quelle nuove parole e ad analizzarle attentamente.
Aveva impiegato tanto, troppo tempo per capire cosa fosse quella strana sensazione che lo intorpidiva da un po’. Ma, nonostante tutto, ora era consapevole di aver amato, e come mai aveva fatto in vita sua, pur senza averlo mai saputo fino a quel momento. Una cosa di cui improvvisamente era certo, però, era che il suo non era affatto stato nulla di inutile, invano. Non era mai stato come tutti gli altri: tutti fuggivano dai sentimenti pur di non essere costretti a soffrire, al costo di sprecare l’amore, un elemento importante della vita. Ma lui, scrivendo quella canzone, stava dimostrando al mondo e a sé stesso di non avere paura.
Ma… sì, come in ogni cosa c’era un ma. John sapeva fin troppo bene che tutti i suoi buoni propositi e i suoi bei pensieri sull’essere forte e sull’evitare di sprecare quello che provava erano decisamente poco applicabili al suo caso. Lui sapeva bene solamente una cosa: il suo amore era invano. E nonostante avesse scritto una sottospecie di preghiera in quei versi affinché non lo fosse… la realtà era quella, e non sarebbe potuto fuggire. Non aveva paura, era forte tanto quanto il suo cuore ma comunque avrebbe sofferto dell’impossibilità dei suoi desideri.
I suoi pensieri erano un continuo controsenso: nulla era inutile ma tutto lo era. Non lo era affatto se considerava tutto ciò che di bello gli aveva provocato, fino a quel giorno, quello che stava imparando in fretta a considerare l’amore più grande della sua vita. Lo era, se iniziava a pensare come tutti gli altri, considerando l’amore un sentimento prevalente fisico. Non lo era, se invece astraeva il concetto puro di amore, come aveva fatto quando aveva scritto I want to hold your hand. Lo era, se capiva, ancora una volta, che tutte quelle sue parole d’amore non sarebbero mai direttamente arrivate al destinatario, se non indirettamente.
John fece ciondolare per un po’ la penna sotto il naso, mentre rileggeva nuovamente il tutto coi gomiti poggiati sul tavolo. Quando, finalmente, tornò alla realtà ed appurò che, in fondo, quello che stava scrivendo lo convinceva abbastanza, riprese la penna in mano e la puntò ancora una volta sul foglio. Scarabocchiò un tre veloce ed un cerchio per contornarlo che, in realtà, era talmente sformato da non servire proprio a niente. Provò ad aggiustare il danno fatto, peggiorando ulteriormente la situazione. Rinunciò quasi subito: dopotutto quel numero serviva solo ad aiutarlo a tenere il conto delle strofe, non serviva a nulla che fosse perfetto ed ordinato.
In ogni caso, non poteva davvero credere di essere già arrivato alla terza strofa che, sicuramente, sarebbe stata anche l’ultima. Si era posto questo piccolo limite fin da quando aveva iniziato a scrivere canzoni e di certo quella dichiarazione non sarebbe stata l’eccezione che confermasse la regola.
 
So I hope you see that I
Would love to love you
 
John si dedicò finalmente a ciò che sapeva fare meglio: i giochi di parole. Lui era sempre stato bravo in questo senso, giocava con le assonanze e con le ambiguità delle parole continuamente. Era accaduto con Please please me, accadeva continuamente con i racconti e le poesie nonsense che si divertiva a scrivere durante i momenti di noia del tour. Ed ora, in questa canzone che parlava interamente di sé, aveva bisogno di aggiungere qualcos’altro di suo, un piccolo ed ulteriore segno di riconoscimento che avrebbe firmato quei semplici versi.
E poi, come sempre, non faceva altro che dare un’idea di ciò che pensava. Avrebbe amato poter amare la sua anima gemella sotto tutti i punti di vista ma, per ora –e per sempre-, si sarebbe accontentato di amare in quel modo platonico ed incondizionato che era sempre stato. Ne sarebbe comunque valsa la pena, perché non era da tutti trovare così in fretta la parte mancante della propria anima, e lui era stato così fortunato da trovarla e da condividere con questa tutto ciò che di bello lo circondava. E sarebbe stato bello, per una volta, che questa sua parte mancante notasse tutto questo.
I pensieri di John vennero interrotti da un gran fracasso proveniente dalla stanza precedente. Sbuffò, capendo che i suoi tre compagni erano rientrati dalla cena più entusiasti del solito. Se li conosceva abbastanza bene avrebbero ben presto iniziato a farsi una partita a Poker con le carte e le chips messe a disposizione dell’albergo, George avrebbe vinto la prima mano, Ringo tutte le altre e Paul si sarebbe ben presto stufato di perdere continuamente e avrebbe abbandonato il gioco. E mentre gli altri due avrebbero continuato la loro battaglia all’ultimo sangue, allenandosi coi bluff, il disertore sarebbe andato in bagno, si sarebbe fatto la barba –nonostante non fosse ancora cresciuta- e poi si sarebbe messo al piano, quello posto all’ingresso del soggiorno, e avrebbe iniziato a buttare giù accordi a caso alla ricerca di qualche nuova idea geniale. Se John li conosceva abbastanza bene, aveva ancora un’ora e ventitré minuti di libertà prima di essere avvolto dalla musica di McCartney.
Doveva finire quella canzone prima che tutto ciò avvenisse. Fortunatamente mancavano solamente due versi che, di getto, si apprestò a scrivere. Si allontanò mentalmente dalla confusione nella stanza adiacente alla sua e tornò a concentrarsi solo sulla sua opera.
 
I hope that she will cry
When she hears that we are two
 
Chiuse la sua ultima strofa con una speranza finale. Quel she, ancora una volta, non si riferiva ad una persona reale, quanto ad un'entità immaginaria. E ancor più immaginario era l'ultimo verso, quello che racchiudeva, alla fine di tutto, uno dei desideri più reconditi nell'animo di John. We are two. Suonava bene anche solo a pronunciarlo. Quello, pensò, era probabilmente il verso chiave di tutta la canzone, il verso che raccoglieva tutte le sue vane speranze e che mostrava alla luce del sole, nero su bianco.
Quando mise il punto dopo l'emblematico two, John realizzò di essere finalmente riuscito a concludere quella sua canzone. La rilesse dieci, cento, mille volte prima di esserne del tutto soddisfatto e, alla fine, lo era. Mettendo da parte la sua continua autocritica riuscì a comprenderne il potenziale, nonostante non avesse ancora un titolo.
Non ci stette troppo a pensare, in realtà. Dopo averla mordicchiata un po' per poter pensare meglio, Poggiò la penna in fondo al foglio, al centro, e scrisse velocemente.

If I felt

Sì, quello era decisamente un titolo perfetto. Stava bene con tutti i suoi pensieri, e non stonava affatto con i vari versi.
C'era solo una cosa che mancava, una cosa fondamentale affinché tutte le sue fatiche divenissero una vera canzone: la musica. John considerò per un attimo l'idea di alzarsi per prendere la sua chitarra e provare a cercare gli accordi ideali ma, repentinamente, la scartò.
Sapeva che non sarebbe mai riuscito a concludere nulla senza l'aiuto di qualcuno. Quel qualcuno che era sempre disposto a correggerlo, a stimolarlo, ad ispirarlo e a collaborare per qualcosa di unico. Quel qualcuno che era il suo opposto e contrappunto, l'unico per cui metteva da parte il proprio orgoglio pur di vedere felice, l'unico che aveva amato più di qualsiasi altra cosa in vita sua. C'era solo una persona in grado di completare la sua opera incompiuta, di completare i suoi pensieri, e quella persona era esattamente la stessa a cui era dedicata la sua canzone...
"Paul!" gridò, sperando che l'altro, oltre la porta, lo sentisse. Sentì uno schiamazzo, delle risate e “Paul!” chiamò di nuovo, senza minimamente spostarsi dalla sua postazione.
Un leggero rumore di passi annunciò lo spalancarsi della porta della camera da letto. Paul osservò John, ancora seduto sulla stessa sedia su cui l’aveva lasciato qualche ora prima, e sbatté velocemente le ciglia sui suoi grandi occhi verdi. “Mi hai chiamato?” chiese, facendo il finto tonto. In mano teneva il rasoio e il contenitore del dopobarba: John, come al solito, aveva indovinato. Si conoscevano davvero fin troppo bene. “Ho un nuovo testo che necessita di musica” tagliò corto Lennon, sorridendo innocentemente e sperando di convincerlo. “Mi stai chiedendo aiuto?” sorrise l’altro, entrando completamente nella stanza da letto. John, come sempre, incrociò le braccia al petto “Non fare lo stupido, Macca, non ho bisogno del tuo aiuto. Ti chiedevo solo se avevi voglia di scrivere la musica con me”. Paul ridacchiò divertito. “Mi faccio la barba e vengo ad aiutarti, Johnny” concluse, facendogli l’occhiolino e richiudendosi la porta alle spalle.
Durante l’attesa, John approfittò dell’assenza dell’amico per spogliarsi. Appallottolò la camicia e la gettò sulla valigia spalancata a terra, sistemò alla meno peggio la giacca sulla sedia e poggiò le scarpe sotto al comodino, nell’apposito spazio. Velocemente, tirò fuori da sotto il cuscino il suo pigiama grigio a righe nere e se lo infilò. Odorava di biancheria pulita, un profumo caldo e dolce. Tirò giù dall’attaccapanni la sua vestaglia nera che si strinse addosso aiutandosi col cordone in vita. Anche quella profumava di quell’aroma inconfondibile.
Quando Paul rientrò nella stanza, John era già seduto sulla sua parte del letto ad attenderlo. “Oh, bè, se la metti così mi preparo anch’io per la notte” si sbrigò a sottolineare, chiudendosi nella stanza ed ovattando nuovamente le voci dei loro due amici che erano ancora impegnati a giocare a carte. Si avvicinò al letto e, anche lui, estrasse da sotto la coperta il suo pigiama, identico a quello di John. Mentre si spogliava e sistemava accuratamente i suoi panni nell’armadio, l’amico non poté fare a meno di studiarlo ed osservarlo in ogni suo movimento. Non sapeva se era cosa giusta mostrargli la canzone che aveva scritto: come avrebbe reagito? John iniziò a fantasticare sulle decine e decine di risposte false che avrebbe potuto dare ad ogni eventuale domanda inopportuna. Lo vide mentre posava le scarpe, mentre si infilava i pantaloni del pigiama, mentre indossava la vestaglia uguale alla sua, mentre si avvicinava all’armadio per prendere la chitarra classica poggiata sul muro, sotto la grande finestra.
Con lo strumento in braccio, Paul si sedette al fianco dell’amico, nella sua parte del letto. Emanava un buon profumo, probabilmente di dopobarba: pino silvestre, lo stesso di cui era impregnato il cuscino. "Allora?" domandò Paul, distogliendo John dai suoi pensieri. "Allora cosa?" chiese quello, quasi colto di sorpresa. McCartney schioccò la lingua, scosse la testa leggermente e gli diede un buffetto sulla spalla. "La canzone, Johnny. Come pretendi che ti aiuti..." "Non mi stai aiutando... stiamo collaborando" venne interrotto dal tono scocciato di John. "D'accordo, come vuoi. Ma non posso... Collaborare... Se non mi fai vedere il testo che hai scritto, non trovi?".
Come quasi sempre Paul aveva ragione ma, stavolta, John fu costretto a concederglielo. Si alzò dal letto e ciabattò velocemente verso il mobile del televisore sul quale il bigliettino era poggiato. Per scongiurare a pregiudizi o forse senza un vero motivo, si sbrigò ad infilare la cartolina nella busta: non voleva che l'altro leggesse ciò che aveva scaturito in lui tutti quei pensieri contorti che, in parte, aveva riportato scritto. Si buttò pesantemente sul materasso e strisciò fino al lato del suo compagno.
“Di cosa parla?” chiese Paul, ricevendo in mano la busta col testo che vi faceva capolino. “Leggila e basta” lo invitò John, mordendosi il labbro per l’eccessivo slancio con cui aveva invitato l’altro ad eseguire quella semplice azione che per lui, improvvisamente, era diventata spaventosa. Chiuse gli occhi, inspirando quanta più aria possibile nei polmoni, mentre lo sguardo dell’altro già scorreva veloce fra le parole scritte in quella pessima calligrafia. Lennon pregò con tutto il cuore che quei versi non lo tradissero troppo, che non dicessero più di quanto non aveva avuto intenzione di dire. Sperava di essere riuscito a mantenere nei meandri della propria testa quelle riflessioni e quegli strani pensieri che erano lentamente affluiti da un angolo buio fino alla penna.
Un sorriso debole inarcò lentamente le labbra di Paul. “E’ molto bella” si complimentò, infine, poggiando la busta ai suoi piedi. “Cosa te l’ha ispirata?” chiese, curioso, ancora sorridendo. John, sentendosi colto in flagrante, iniziò a balbettare frasi incomprensibili. “Oggi è San Valentino, ci voleva un po’ di romanticismo. Ma non me l’ha ispirata niente in particolare. Nessuno in particolare” spiegò, gesticolando più del solito, e perdendo completamente quel tono fermo e deciso che aveva normalmente. L’amico annuì, col viso ancora palesemente soddisfatto di quello che aveva appena letto “In ogni caso prima di iniziare a pensare alla musica darei un paio di ritocchi al testo. Posso?” “Fai pure” gli diede il permesso John, porgendogli la penna che aveva preso insieme a tutto il resto. Con uno scarabocchio veloce Paul cancellò il trattino della t del titolo, trasformandolo in If I fell. “Se dici If I felt è come se mettessi il dubbio sui sentimenti descritti nella canzone: se io provassi. Invece così hai un doppio significato: se io mi innamorassi, così riprendi anche il primo verso della canzone, e se io cadessi, qualcosa di doloroso. L'ambiguità di significato ci sta bene, considerando il modo triste in cui hai descritto il sentimento dell'amore, non credi?”. Lennon non rispose nemmeno, si limitò ad annuire lentamente, rapito dagli occhi sinceri e dalle parole profetiche dell’amico. Anche lui, poco prima, aveva fatto un ragionamento simile, e questo parallelismo lo inchiodava su quel materasso ma lo rendeva anche inspiegabilmente leggero. La pensavano allo stesso modo: era già capitato moltissime altre volte ma questa era la prima in cui John si rendeva conto di quanto le loro teste fossero collegate. Se solo Paul avesse saputo…
 
If I fell in love with you
Would you promise to be true
and help me understand?
'Cause I've been in love before
And I found that love was more
Than just holding hands.
 
If I give my heart to you
I must be sure
from the very start that you’re,
gonna love me more than her”
 
Paul lesse tutto velocemente. Quei versi era così belli, così poetici. Iniziò ad assimilarli, a comprenderli e a fantasticarci su. Si chiese più volte a chi fosse indirizzata tutta quella dolcezza ma, lo sapeva bene, l’amico non gli avrebbe mai rivelato nulla. Non era mai stata una loro abitudine parlare di sentimenti, donne ed affini, probabilmente perché avevano sempre avuto delle idee contrastanti a riguardo e perché erano sempre stati abbastanza gelosi delle loro stesse storie. Sorrise appena quando lesse il verso che citava la loro canzone, I want to hold your hand, ricordando quella strana litigata avuta in casa di Jane. Ricordò nitidamente le idee bizzarre di John, il modo in cui in nessun modo era riuscito a convincerlo ma anche la sua faccia soddisfatta, quasi felice, di quando l’indomani si presentò col testo quasi completamente pronto. Si chiese, sognante, se anche lui ricordasse quel giorno, e quella sensazione di benessere che trapelava dal suo sorriso. Senza saperne il motivo, poi, Paul non badò affatto a quell’her e a quella figura femminile presente nella canzone. Sembrava come un’immagine onirica, lontana, astratta: di certo non si stava riferendo a Cynthia. Anche se, per un attimo, si chiese chi mai amasse l’amico più della moglie. Sentii come un bruciore allo stomaco, ma non ci diede peso.
John ascoltò lentamente quelle parole che aveva letto e riletto già centinaia di volte. Stavolta, però, ascoltate dalla voce profonda e dolce dell’amico, provocavano in lui una reazione diversa. Era come se le sue budella si fossero attorcigliate su se stesse. E quei versi, improvvisamente, sembravano molto più belli di quanto non gli fossero sembrati fino a quel momento.
“Secondo me questo verso andrebbe cambiato. E’ un po’ troppo americano, non credi?” sentenziò Paul, interrompendo la lettura. Senza aspettare la risposta dell’autore della canzone, tracciò una barra su quelle ultime parole e sopra di essa, con la sua calligrafia perfettamente rotonda, corresse il verso. Sapeva che era inutile stare a parlare troppo con John riguardo alle correzioni, dopotutto gli aveva lasciato carta bianca.
 
I must be sure from the very start
That you wold love me more than her
 
Rispetto all’americanismo utilizzato da John, la correzione suonava all’orecchio più delicato, come una carezza.
“Meglio così, in effetti” si sbrigò a commentare Lennon, dando una leggera pacca sulla spalla dell’amico. Quello sorrise soddisfatto, talmente tanto da mostrare la dentatura, e riprese la sua lettura.
 
If I trust in you oh please
Don't run and hide
If I love you too oh please
Don't hurt my pride like her
 
'Cause I couldn't stand the pain
And I would be sad
If our new love was in vain
 
Paul era entrato talmente tanto nella parte che la sua voce, nel leggere l’ultima parola, si incrinò, come rotta da un pianto inesistente. Alzò lo sguardo per guardare John, sperando che non si fosse accorto di quella stonatura. Lo vide mentre teneva il capo chino, gli occhi fissi sulle lenzuola bianche con le quali stava freneticamente giocherellando con le mani. E, in quel momento, avrebbe dato qualsiasi cosa per entrare nella sua testa e capire cosa avesse e perché quelle parole lo rendessero così malinconico e agitato. Lo conosceva bene, benissimo, e da anni ormai, ma, per la prima volta, non riusciva a capirlo.
L’unica cosa che sapeva, e che riusciva ad intuire facilmente, era che quelle parole fossero sincere, vere, reali, che fossero il frutto di lunghi pensieri e di grandi confessioni. E non aveva bisogno che John glielo confermasse, lui lo sapeva e basta. Lo capiva dal mondo in cui quei versi erano entrati nel suo cuore così velocemente, nel modo in cui aveva compreso quei sentimenti contrastanti che li avevano causati.
Lo sapeva fin troppo bene perché anche lui, spesso, si era sentito in quel modo.
 
So I hope you see that I
Would love to love you
I hope that she will cry
When she hears that we are two
 
“Qui sei stato cattivo, Johnny, fattelo dire” si interruppe di nuovo Paul, sbrigandosi a tracciare una linea sul penultimo verso. “Ti sei anche ripetuto” aggiunse, col tono da maestrina. “Si chiama anafora, Paulie” lo corresse John, assumendo un’espressione da so-tutto-io e abbassando gli occhiali –che aveva appena indossato- sul naso. “Sì, va bene, può chiamarsi anche Gertrude: ci sta male comunque” Paul finse di offendersi e si sbrigò a correggere quello che l’altro aveva scritto. Quella che doveva essere una figura retorica era diventata, secondo lui, un’inutile pomposità.
 
So I hope you see that I
Would love to love you
And  that she will cry
When she learns that we are two
 
“Perché avresti corretto anche hears?” domandò John, curioso. “Non lo so, ma sta meglio così, non trovi?”. Lennon scrollò le spalle. Senza obiettare e senza andargli contro lo fece vincere ancora una volta. Ormai si stava anche quasi abituando a rinunciare, ma vedere Paul così felice e soddisfatto lo faceva stare bene.
McCartney portò di nuovo la penna sul foglio. Tracciò, fra l’ultima strofa e il titolo, un tre e un quattro. “Queste vanno ripetute, mi piace come hai reso l’idea” disse freneticamente, più a se stesso che all’amico. Con lo stesso entusiasmo prese a scrivere dell’altro: qualcosa che John riuscì a leggere solo quando, finalmente, il foglio fu di nuovo libero dalle mani dell’altro.
 
If I fell in love with you
 
“Lo vuoi ripetere?” chiese l’autore del brano, dubbioso. “In questo modo crei una cornice a tutto quanto. Se mi innamorassi di te… tutte le cose che hai scritto… Se mi innamorassi di te. Ha senso. È un rimando. Una Gertrude” spiegò Paul, gesticolando e cercando di far capire all’altro quanto avesse in mente. “Paul, si chiama anafora… E un attimo fa hai detto che è inutile e che ci sta male” lo rimproverò John, alzando gli occhi al cielo, esasperato. L’entusiasmo del suo amico lo rendeva sempre felice, ma era sempre stata sua abitudine nascondere il suo stato d’animo sotto un velo di saccenza e di sconfitta. “Lo so, ma stavolta ci sta bene” e il discorso fu chiuso.
Paul rilesse silenziosamente tutti i versi. Poteva sentire già nitidamente la musica di accompagnamento perfetta per quei pensieri così romanticamente tristi e malinconici: una chitarra solista, due chitarre che si intrecciavano come due mani, il basso lento e delicato, la batteria leggera ma coinvolgente. Quella sarebbe stata una delle ballad mai composte fino a quel momento dal loro gruppo. Quelle parole erano così belle, così esplicative che chiunque le avrebbe amate ed apprezzate.
Ma, in realtà, ciò che più motivava Paul, ciò che lo rendeva così partecipe, era il fatto che quelle parole calzassero a pennello coi suoi pensieri. Si era ritrovato fin troppo spesso a pensare di essere innamorato a tal punto di non comprendere la vera essenza del proprio amore, spesso dubitando addirittura di sé e della sua relazione con Jane. Perché, sì, spesso si era sentito di amare qualcun altro al di fuori della propria fidanzata. Si era spesso reputato una persona orribile per questo, ma, dopotutto, al cuore non si comanda, e a questo aveva imparato ben presto ad abituarcisi. Lui però, al contrario di John, sapeva fin troppo bene di non essere mai stato abbastanza coraggioso da dichiarare apertamente i propri sentimenti. Era sempre stato spaventato dall’imprevisto, preferendo di gran lunga sguazzare negli agi delle certezze della sua vita. Quella canzone forse non era una dichiarazione esplicita ma era pur sempre un inizio. Lui, invece, fino a quel momento non aveva mosso un dito per far capire quanto provasse. La persona che amava, la sua anima gemella, probabilmente non avrebbe mai saputo nulla.
“Hai qualche idea per la musica?” chiese, interrompendo i suoi stessi dolorosi pensieri, alzando lo sguardo verso John. Quello sorrise appena, socchiudendo leggermente gli occhi come era solito fare quando il suo sorriso era sincero, e fece di no con la testa. “L’unica cosa che so di questa roba è che dovrebbe essere una ballad. Almeno credo. Cioè, sicuramente una melodia lenta ci starebbe meglio” spiegò tranquillamente l’autore del testo, poggiandosi con la schiena sul cuscino che aveva prontamente poggiato sul muro. Paul annuì. “Poi pensavo ci stesse bene un duetto fra noi due” John rimase scioccato dalle sue stesse parole: dove era finita tutta la sua inibizione, tutto l’autocontrollo che era riuscito ad imporsi? “Nessuno dei due che contrasta l’altro, come un piccolo coro” si sbrigò ad aggiungere, sperando che l’altro non intuisse nulla riguardo all’ispirazione di quella canzone. Paul era stato la sua musa ma questo non avrebbe mai dovuto saperlo. Come se ci si stesse tenendo per mano aggiunse nella sua mente, sognante. McCartney scosse di nuovo la testa in su e in giù, sempre più convinto. L’idea di John era buona, e sarebbe sicuramente andata benissimo. Un piccolo coro, nessuno che contrasta l’altro, come una passeggiata mano nella mano si ritrovò a pensare, stupidamente.
Pur di non continuare a vagare fra i propri pensieri, Paul strinse a sé la chitarra ed iniziò a cercare sulla barra un’idea per un accordo iniziale. John gli si avvicinò subito, consigliandolo e spiegandogli ciò che, più o meno, aveva avuto in mente durante la composizione del testo. Provarono davvero tutte le note presenti sul pentagramma prima di trovare l’attacco migliore, che si trovò essere un Mi bemolle. Suonarono per tutta la notte, cercando accordi e melodie tanto dolci quanto quelle parole. Ignorarono persino Ringo e George che erano entrati in stanza per dar loro la buonanotte, a mezzanotte inoltrata, e che erano usciti senza ricevere cenni o risposte di alcun tipo. Passarono ore ed ore a rivedere quei versi, immersi nella musica ed in quell’aria piacevole che si era venuta a creare. John e Paul erano sempre stati cane e gatto, così diversi e così contrastanti, ma se c’era una cosa in grado di legarli più di qualsiasi altra… quella era la loro musica. Quella che creavano loro, genitori indiscussi di piccoli capolavori che facevano scalpitare centinaia e centinaia di persone in tutto il mondo. Quella canzone così semplice era una delle loro creature. Gli dedicarono amore per una notte intera, raffinandola e curandola, facendola crescere. La videro maturare sotto ai loro occhi, con lo stesso orgoglio col quale si vede crescere un figlio. Passarono attraverso le medesime fasi: l’infanzia, in cui c’è bisogno di tutto l’aiuto possibile affinché cammini; l’adolescenza, la fase di crisi e di rigetto, in cui quasi ci si pente di qualsiasi cosa fatta; la maturità, in cui tutto inizia a prendere davvero forma. La composizione era talmente semplice da rasentare la banalità. Toni discendenti, aspra nona di Re ad aprire la sezione a contrasto, insidiosi passaggi di basso. Ogni aspetto era comunque perfetto per far meglio risaltare i sentimenti espressi dai versi.
John era felicissimo del risultato che stavano lentamente ottenendo. Non avrebbe mai sperato nulla di meglio. La sua dichiarazione stava prendendo forma, si stava trasformando in una meravigliosa canzone. E quello che c’era di più bello era che la stava cantando con Paul, la stava componendo con lui. Non era più, quindi, solo una figura onirica, un’immaginazione: Paul era in tutto e per tutto dentro quelle parole. Si sentiva andare a fuoco ogni volta che l’altro cantava per lui quei versi, sentiva di essere l’oggetto di un amore grande quasi quanto il suo. I suoi sogni si alimentavano, il suo amore cresceva a dismisura.
“Direi che per oggi può bastare” disse John, dopo un nuovo giro di accordi. Si sporse per vedere meglio la sveglia poggiata sul proprio comodino: erano le quattro meno un quarto del mattino. Era assonnato, stanco, ma tanto felice da non accusare alcun senso di malessere per quel tardo orario. Paul annuì, si alzò per posare la chitarra e se ne tornò a letto. “Grazie per l’aiuto, Paulie” continuò John, sbadigliando e infilandosi sotto le coperte. L’amico lo guardò con una tenerezza indescrivibile nello sguardo e un sorriso felice a stirargli le labbra. “E’ stato un piacere, Johnny. Buonanotte” fu la sua risposta. John spense la propria abatjour, lasciando la stanza nella semi oscurità.
Paul diede un’ultima occhiata al testo della canzone. Era stata una notte meravigliosa: aveva sempre amato comporre musica con John, era uno dei più bei doni che la vita gli avesse donato. Era il suo opposto, il suo contrappunto, e miscelare le loro idee era sempre stata una chimica perfettamente armonica. Era riuscito, con quella canzone, a tirare un pensiero recondito della propria mente che, probabilmente, senza quella non avrebbe mai visto la luce.
Pensieroso sfilò il foglietto dalla busta nel quale era sistemata alla meno peggio. Rimase piacevolmente sorpreso quando notò che sul retro era scritta una poesia.
 
 
Non t'amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani che propagano il fuoco:
t'amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, entro l'ombra e l'anima.
T'amo come la pianta che non fiorisce e reca
dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;
grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato aroma che ascese dalla terra.
T'amo senza sapere come, né quando né da dove,
t'amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti
che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.
 
A: John Lennon    DA: Anonimo
 
 
Lui, quello che non aveva mai mosso un dito per dichiararsi, venne pervaso da un improvviso senso di benessere. Se solo fosse stato in grado, avrebbe scritto una canzone come If I Fell per qualcuno come John. Perché sì, John era il suo opposto, il suo contrappunto, la sua anima gemella.
Era proprio per questo che, leggendo quella poesia, il suo sorriso si amplificò: il suo biglietto anonimo per John, dopotutto, era arrivato a destinazione.



 



Angolo autrice:
Questa storia è dedicata alla mia cara Angie, la polLorella migliore che potesse mai capitarmi. E' a lei che ho promesso la mia prima McLennon ed è a lei che la dedico, con tutto il cuore. Sarò stata cattiva a non fargliela leggere prima della pubblicazione ma, per la prima volta, desideravo che leggesse qualcosa di cui sono pientamente soddisfatta. Perciò... ecco a te, cara permalosona: spero solo di non aver deluso le tue aspettative... ♥
*: la poesia utilizzata è il sonetto XVII di Pablo Neruda, meglio conosciuta come 'Non t'amo come se fossi rosa di sale'

 
   
 
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