OVER THE WALL
*
Il primo caldo era
opprimente, quella mattina.
L’afa lo costrinse a liberarsi bruscamente delle coperte continuando a rigirarsi
convulsamente sul suo giaciglio.
Riscoprendosi ormai completamente sveglio, Vegeta, si destò aprendo appena gli
occhi che si voltarono verso il comodino.
Scoprì ben presto che era anche fin troppo tardi per poltrire ulteriormente.
D’altro canto, però, la sera precedente si era coricato ad ora tarda a causa dei
suoi allenamenti.
In un gesto assonnato si issò portandosi in posizione seduta sentendo le
lenzuola appiccicarsi contro la pelle nuda e sudata.
Faceva un gran caldo, ecco il primo buon motivo della giornata per metterlo di
malumore.
Come se ne avesse bisogno, lui di malumore sembrava esserci nato.
Era come se, appena uscito dal grembo materno, fosse già riuscito a trovare
delle buone ragioni per odiare la vita stessa.
Il suo viso non ebbe nemmeno il tempo di decorarsi con l’espressione pacata e
rilassata del sonno che, appena pochi istanti dopo, si contrasse in una smorfia
infastidita.
Secondo motivo per la quale il suo umore, a pochi secondi dal risveglio, era
ulteriormente peggiorato; quell’incessante e fastidioso rumore che proveniva da
fuori della sua abitazione.
Il continuo camminare avanti e indietro, l’insistente chiacchierio ovattato ed
incomprensibile, l’incessante sbattere di oggetti o presunti tali lo stavano
davvero innervosendo.
L’ineluttabile grugnito giunse rumoroso e seccato dall’irascibile inquilino
della casa.
Vegeta si grattò il capo in un gesto assonnato ed infastidito al tempo stesso.
I suoi piedi si posarono al terreno ed indolente si diresse verso la cucina alla
ricerca di qualcosa che potesse ristabilire la sua, già pessima, giornata.
Un caffè dannatamente amaro era proprio ciò che gli serviva per ridestare
definitivamente le sue membra.
Si riempì la tazza con la bevanda, opportunamente conservata in un termos, e si
servì della prima sorsata.
Niente zucchero, niente latte né dolcificanti di alcun genere.
A lui piaceva così, il caffè, nero come le tenebre e come il colore dei suoi
occhi.
Per un secondo socchiuse le palpebre lasciandosi inebriare dall’aroma che aveva,
regolarmente, il potere di svegliarlo con decisione.
Il suo sguardo si scostò sulla portafinestra che dava sul balcone, appena fuori
dalla cucina stessa.
In casa l’aria era irrespirabile, chissà se fuori, al fresco, la temperatura si
sarebbe rilevata più sopportabile?
Così, tazza in mano e soli boxer indosso, si avviò verso quello che sperava
potesse rivelarsi un sano refrigerio.
Attraversò il salottino, attiguo alla cucina, adibito a palestra personale
schivando pesi ed attrezzi ginnici lasciati a riposare immobili al suolo in
attesa del loro prossimo utilizzo.
Vegeta aprì la finestra lasciandosi investire dal leggero venticello che fu
artefice del suo unico refrigerio.
Sorseggiando la bevanda appoggiò i gomiti sulla balaustra del terrazzo
sporgendosi oltre per osservare il terreno visibile due piani sotto di lui.
Non gli fu difficile notare il particolare camion che sostava davanti
all’ingresso della palazzina.
Tanto meno gli fu difficoltoso comprendere la motivazione di tale insolito
parcheggio.
Oggetti d’arredamento giacevano appena fuori da esso e, un paio di uomini
forzuti, erano intenti a portare all’interno gli svariati mobili.
Un trasloco.
Motivo d’irritazione numero tre.
Nuovi vicini si traduceva semplicemente come nuove rogne, nel suo linguaggio.
Un sonoro sbuffo fu il libero sfogo dei suoi pensieri.
Infastidito rivolse le spalle al mondo e, sempre restando coi gomiti poggiati
alla balconata, tornò ad osservare l’interno della sua abitazione.
I suoi occhi studiarono la piccola palestra da lui allestita, mentre la sua
mente vagò leggiadra ripensando agli allenamenti della sera precedente e quelli
che avrebbe svolto durante la giornata odierna.
Flessioni, addominali, giusto per scaldarsi un po’, poi sarebbe passato a cose
ben più difficili.
Almeno per il restante della mattinata, fino a quando, uscito di casa, lo
avrebbero pagato per allenarsi in una palestra più grande.
Istruttore, mah, sempre meglio di niente, d’altronde.
“Ehi, ciao. Tu devi essere Vegeta, ho visto il tuo nome sul campanello”
s’introdusse una voce sconosciuta tra i suoi pensieri.
Vegeta scostò lo sguardo alla sua destra, dove una piccola inferriata
suddivideva il suo dal balcone accanto.
Il viso latteo e sorridente di una donna si presentò ai suoi occhi porgendogli
la mano nel mezzo metro che separava la grata dalla fine del terrazzo stesso.
“Io mi chiamo Bulma Brief, sono la tua nuova vicina” si presentò subito la donna
dai particolari capelli azzurri.
È proprio vero quando si dice che il buongiorno si vede dal mattino, la sua
giornata non faceva che peggiorare; ed era sveglio da meno di dieci minuti.
Senza dire o fare nulla, Vegeta si allontanò dalla ringhiera tornando sui suoi
passi, rientrando nel suo appartamento.
Bulma lo vide sparire nel nulla, la mano sempre tesa ed uno sguardo sbigottito
in volto, “Razza di maleducato” non poté fare a meno di farfugliare al vento.
*
Una goccia di sudore percorse tutto il suo viso teso e concentrato.
Scivolò lentamente fino a ricadere al suolo espandendosi appena sotto di lui.
Altre gocce seguirono l’esempio della precedente generando, tutte assieme, una
piccola pozza.
Vegeta fletté il braccio eseguendo l’ennesima flessione, rigorosamente compiuta
con una mano sola.
Un altro gesto atletico si accodò ai precedenti aggiungendosi al conteggio
mentale che, il ginnasta, stava compiendo ad ogni sforzo.
Era l’ultimo.
Il braccio restò teso per una decina di secondi, in attesa di compiere il
movimento successivo, le gambe si fletterono leggermente e, con un colpo di
reni, Vegeta balzò quel tanto che bastava per ritrovarsi inginocchiato in
posizione atletica al pavimento.
Perso nei suoi pensieri fissò il suolo per diversi istanti prima di decidere di
rimettersi in piedi.
Il capo, sempre chino, gli impose di non scostare lo sguardo ascoltando solo il
ritmo ansimante del suo respiro.
Il costato si espanse in ampie boccate causate dallo sforzo appena compiuto.
Altre goccioline di sudore percorsero i suoi pettorali solleticandolo
leggermente.
Causa forse, oltre agli allenamenti, anche il caldo che, da diversi giorni, si
stava accanendo sulla città dell’Ovest.
Vegeta socchiuse gli occhi ascoltando la sua inspirazione tornare ad un ritmo
più consono e con un braccio si liberò delle gocce sul suo viso.
Il capo si chinò all’indietro precedendo un respiro più deciso che decretò la
fine del suo affanno.
Tornò ad aprire le palpebre scrutando con attenzione il soffitto, mentre la sua
mano si allungò verso la poltrona più vicina alla ricerca dell’asciugamano che
aveva precedentemente appoggiato.
Una volta che le sue dita afferrarono l’oggetto in questione si passò lo
straccio sul capo e sul viso liberandosi di altro sudore.
Infine lo appoggiò sulle spalle e, dopo rigeneranti torsioni del busto, decise
di abbeverarsi con l’acqua che era solito conservare scrupolosamente in frigo.
Quando aprì l’anta dell’elettrodomestico, però, si trovò una brutta sorpresa.
Per una sbadataggine il limpido liquido non era presente nell’opportuna sezione
del frigorifero, evidentemente si era dimenticato di riporlo la sera precedente.
Fortuna che non era uno sprovveduto.
Era una persona molto lungimirante su certi aspetti e, l’eventualità di restare
senza acqua fresca, era uno di quei casi alla quale prestava particolare
attenzione.
Il suo capo roteò verso il balcone dov’era sicuro vi fosse ancora una confezione
di bottigliette custodite nell’angolo più ombroso del terrazzo.
Senza indugio si diresse, a grandi passi, verso il suo obbiettivo trovandolo
scrupolosamente conservato nell’angolo da lui stabilito.
Privò la confezione da sei bottigliette di un recipiente da mezzo litro e
avidamente si dissetò.
L’assetato atleta si abbeverò senza molto preoccuparsi di attingere appieno
della sua fonte di acqua.
Il liquido, infatti, discese lungo il suo collo percorrendo lentamente il suo
torace.
Inutile dire che, tale gesto, rinfrescò tutta la superficie che fu sfiorata
dall’acqua.
Quando ritenne di aver riacquistato liquidi a sufficienza si versò il restante
contenuto sul capo affinché riuscisse, almeno momentaneamente, a liberarsi del
gran caldo.
Buttò il recipiente nel cestino lì accanto e, con l’asciugamano sulle spalle, si
liberò dell’acqua ancora attaccata al suo viso.
Un improvviso odore di fumo giunse nauseabondo alle sue narici, infastidendo la
sua respirazione.
Vegeta aggrottò seccato le sopracciglia volgendo il capo verso il luogo dal
quale, il fastidioso odore, giungeva rigoroso.
“Senti, Yamcha, te l’ho detto l’altro giorno. Non intendo andare a cena dai
tuoi” udì dire alla vicina.
Vegeta riuscì a scrutare la sagoma della donna, dietro l’inferriata, percorrere
avanti e indietro il proprio terrazzo impegnata in un dialogo telefonico con
chissà chi.
“Perché tua madre mi odia, ecco perché” insistette lei attingendo da una
sigaretta ed aspirandone a pieno il fumo tossico.
L’uomo grugnì impercettibilmente, mentre il suo sguardo si ritrovò ad osservare
un posacenere situato sul muretto che separava, nettamente, i due balconi.
Infastidito si avvicinò a grandi passi fino a raggiungere il divisorio in
cemento, “Ehi!” la richiamò poco coriale incrociando le braccia.
Bulma alzò lo sguardo dal terreno accorgendosi, solo in quel momento, della
presenza del taciturno vicino.
Sorpresa inarcò un sopracciglio liberando le labbra dalla sigaretta, “Ci
sentiamo dopo, Yamcha, ora devo andare” tagliò corto senza, probabilmente,
attendere una risposta dal suo interlocutore.
Richiuse il cellulare a conchiglia e lo adagiò sul tavolino da campeggio che
occupava parte del suo balcone.
“Ma guarda! Non credevo avessi una voce anche tu!” esclamò inconfutabilmente
sarcastica avvicinandosi al muretto dove, dall’altra parte, il vicino la stava
fulminando con lo sguardo.
Bulma assaporò nuovamente il tabacco della sua sigaretta appoggiando il gomito
su una mano, “Cosa posso fare per te?” continuò, ancora leggermente sardonica.
Vegeta restò impassibile alla pungente ironia usata dalla sua vicina, con un
cenno del mento le indicò il posacenere comodamente sistemato sul muro, “Togli
questo coso da qui” ordinò perentorio.
La donna lo guardò immancabilmente stupita “Come scusa?” domandò scettica.
“Non mi piace ripetermi” fu la risposta poco accomodante che ricevette
dall’irascibile vicino.
Bulma rise nervosamente con l’evidente intendo di ritrovare la calma persa già
da qualche secondo, “Scusa, perché mai dovrei farlo?” volle sapere, questa volta
senza sarcasmo, solo un notevole disappunto.
L’uomo scostò lo sguardo verso l’oggetto in questione, “E’ nella mia
proprietà” s’impuntò tornando a squadrarla, ostico, negli occhi.
Lei non si scompose.
Restò a fissarlo per diversi secondi, immobile, aggrottando le sopracciglia con
aria nervosa, “Dovresti chiamarlo territorio, come tutti gli animali”
rispose tonando a brandire una pungente ironia, “E comunque questo muro è anche
parte del mio balcone, che diritto hai di definirlo tuo?” s’impuntò
incrociando le braccia.
Vegeta la fissò in silenzio tornando poi a porre la sua attenzione sull’inerme
posacenere, “Ti avverto, non stuzzicarmi” replicò minatorio corrucciando
maggiormente le sopracciglia.
La donna si appoggiò una mano al fianco, “Perché? Altrimenti?” lo provocò in un
atteggiamento un po’ infantile.
Sul volto di Vegeta si dipinse un ghigno nefasto.
La sua mano agguantò velocemente il posacenere e con un guizzo allungò il
braccio oltre la balaustra.
“Non oserai!” esclamò sorpresa lei.
Bulma non ebbe il tempo di aggiungere altro, l’uomo aprì le dita facendo
precipitare il malcapitato oggetto per due piani, senza minimamente preoccuparsi
di eventuali passanti sotto la traiettoria di caduta.
Il rumore di vetri frantumati costrinse la donna ad affacciarsi oltre la
ringhiera per constare le condizioni dell’oggetto, nonostante fosse chiaro che
di esso non era rimasto molto.
“Non mi piace ripetermi” le ricordò canzonatorio, mentre nei suoi occhi una
notevole punta di divertimento si fece strada tra l’imperturbabilità del suo
viso.
Senza aggiungere altro, Vegeta roteò su se stesso rientrando nel proprio
appartamento.
*
Era un pomeriggio come tanti, in un giorno come tanti di quel’afoso inizio
estate.
Sebbene perseguitasse a non ammetterlo apertamente, il caldo lo stava
notevolmente spossando, pertanto i suoi allenamenti stavano subendo un brusco
calo.
Detestava tutto questo, ma d’altro canto si vedeva costretto a riposare tra una
sezione d’allenamento e l’altra.
In genere non soffriva tanto la temperatura ambientale, ma quell’anno il clima
era particolarmente torrido.
Forse fu quello il motivo che lo spinse a tirare fuori il suo vecchio
ventilatore.
Chissà da quanti anni non usava quell’aeratore, era talmente logoro e malconcio
che a stento riusciva a compiere il suo dovere.
Rumoroso a dir poco.
Vegeta socchiuse gli occhi disteso sul divano, lasciandosi rigenerare dal
continuo movimento refrigerante, per modo di dire, del fragoroso condizionatore.
La televisione era appena percettibile, coperta dal frastuono insopportabile che
quell’attrezzo compiva ad ogni movimento.
Non era realmente interessato al chiacchierio inutile della scatola, che
imperterrita continuava a parlare di cose noiose, né era interessato a poltrire
sul sofà.
Anzi, di questo, poteva pressoché definirsi annoiato.
Il suo udito si focalizzò sul suo respiro, lento e regolare, considerato l’unico
suono silenzioso e rilassante.
Vegeta si sistemò un braccio dietro la nuca isolando la mente da tutto il resto,
dimenticando qualsiasi altra cosa ci fosse da ricordare.
La totale pacatezza della sua attuale posizione lo fece scivolare, lentamente,
in un lieve torpore.
Stava per addormentarsi, stava per cadere nel mondo dei sogni; sta per, ma non
ci riuscì.
Un brusco rumore lo ridestò repentinamente, costringendolo ad aprire gli occhi
quasi allarmato.
L’improvviso odore di bruciato gli pervase le narici mandando al cervello un
segnale d’allarme.
Con un gesto veloce e scattante si mise seduto scrutando con attenzione il
monolocale in cerca di qualunque cosa stesse bruciando.
Non fu difficile individuare quella piccola coltre di fumo nero e denso
fuoriuscire da quello che, in teoria, era il suo ventilatore.
Un nuovo assordante rumore giunse rigoroso dall’elettrodomestico che,
scoppiettante, si spense fermando il suo movimento rotatorio.
L’uomo fu costretto a balzare giù dal divano, staccando bruscamente lo spinotto
che teneva il condizionatore attaccato all’elettricità.
“Maledizione!” imprecò osservando la spina saldamente trattenuta tra le sue
dita.
Il suo sguardo si rivolse ora al malcapitato oggetto che, fumante, gorgogliò
sinistro ancora un paio di volte prima di non dare più alcun segnale di vita.
Vegeta scosse una mano per liberarsi del fumo che lo stava circondando, si vide
costretto ad afferrare l’aeratore per portarlo dove non correva il rischio di
intossicarsi.
Aprì la vetrata della portafinestra e lasciò cadere ruvidamente il rottame al
suolo.
Fissò in silenzio l’oggetto, ringhiando indispettito dall’inutile perdita di
tempo che questo gli aveva, e gli avrebbe, provocato.
Il meteo, qualche giorno prima, aveva già preannunciato giornate afose fino a
fine estate, di certo non poteva sopravvivere senza un condizionatore d’aria.
Ciò implicava la necessità di procurarsi un nuovo ventilatore, se non voleva
morire soffocato.
Solo una gran seccatura.
Un altro improvviso rumore lo distrasse dai suoi turbamenti.
Alzò lo sguardo accertando subito la provenienza di tale fracasso.
Dall’altra parte della, maledetta, inferriata la vicina di casa aveva appena
acceso una piccola radio.
Vegeta la scrutò per alcuni secondi.
La donna gli dava le spalle, intenta a leggere alcuni documenti dall’apparenza
importanti, canticchiando la canzone che stava ascoltando.
Anche lei doveva essere soggetta alla calura che non lasciava scampo.
Quel bikini quasi microscopico, ma non volgare, era la prova lampante di tale
teoria.
L’atleta si vide costretto, quasi involontariamente, ad inarcare un
sopracciglio.
Non che lui avesse indosso molto di più, i soli boxer e canottiera erano
altrettanto esplicativi, ma il moto di perplessità che si dipinse sul suo volto
fu casualmente un sinonimo di un leggero apprezzamento.
Prima di dar seguito a pensieri più immorali scosse violentemente il capo
decidendo di rientrare nella propria abitazione.
Tornò a sdraiarsi sul divano volgendo, finalmente, l’attenzione alla
televisione.
Un insopportabile brusio s’intromise tra lui e il, noioso, notiziario.
Non era veramente interessato a quanto, il damerino in giacca e cravatta, andava
dicendo, ma la continua interferenza era fin troppo rumorosa e fastidiosa per i
suoi gusti.
Fu immediato il riconoscimento di tale suono.
Quella maledetta musica stava davvero cominciando ad innervosirlo anche se, per
la cronaca, non era una cosa poi troppo difficile da ottenere.
Con uno scatto si sollevò dal sofà dirigendosi, con passi pesanti, verso il
balcone.
“Ehi!” urlò all’indirizzo della vicina che sembrò non essersi nemmeno accorta
della sua presenza.
O, quantomeno, finse la più totale indifferenza.
“Ehi, tu” insistette Vegeta avvicinandosi al muro che lo separavano da lei.
Bulma continuò a farsi gli affari propri, solo per un secondo i suoi movimenti
tentennarono evidentemente resasi conto della presenza alle sue spalle.
“Ehi, sto parlando con te!” fu l’ennesimo richiamo anticipato da un sonoro
ringhio frustrato.
“Io ho un nome e non è Ehi” reclamò la donna senza degnarlo del minino
sguardo, “Mi chiamo Bulma” gli ricordò girandosi, finalmente.
Vegeta non sembrò interessato alle proteste della sua interlocutrice, “Non
m’importa come ti chiami” tagliò corto.
Con un cenno del mento indicò la radio appoggiata comodamente sul tavolino,
“Abbassa quell’affare” ordinò.
Bulma inarcò un sopracciglio, infastidita.
Con gesti flemmatici, mirati al chiaro intento di calmasi, pareggiò i fogli
sbattendoli più volte sul tavolo lasciandoli infine ricadere, delicatamente, su
di esso.
La sedia si mosse lentamente e la donna si issò in piedi alzando gli occhiali da
sole che indossava poggiandoli sul caschetto azzurro.
Un passo dietro l’altro la portarono, lentamente, ad osservare gli occhi scuri
del vicino con un’espressione estremamente seria ed in apparenza, ma solo in
apparenza, tranquilla.
“Toglimi una curiosità, hanno aperto le gabbie delle scimmie o sei scappato da
solo, dallo zoo?” domandò derisoria incrociando le braccia.
Vegeta la squadrò da capo a piedi, il suo sguardo si dipinse un celato
interessamento.
Se stava zitta e non rompeva le scatole non era niente male.
“Ad ogni modo non credo di voler abbassare il volume della mia radio, almeno ché
tu non me lo chieda in modo gentile... sempre se ne sei capace, sia chiaro. O
hai intenzione di buttare giù anche quella?” continuò canzonatoria la donna
assumendo un atteggiamento saccente e beffardo.
Il broncio che si dipinse sul volto di Vegeta si tramutò ben presto in un ghigno
divertito.
La sua mano afferrò il rottame a pochi passi da lui e, con una mira che aveva
dello straordinario, centrò in pieno l’elettrodomestico della vicina, “Mpf, ci
sono tanti modi per distruggere le cose fastidiose” concluse incrociando le
braccia.
Bulma spalancò la bocca incredula osservando la radio, o quel che ne restava, al
suolo.
Necessitò di svariati istanti prima di rendersi effettivamente conto di quanto
era appena accaduto.
Adirata tornò ad osservare l’uomo che, sprezzante, le sostava davanti, “Tu...”
cominciò in preda ad una follia omicida “Come hai osato! Razza di scimmia senza
cervello! Come hai potuto! Sei un rozzo maleducato! Tu non sai con chi hai a che
fare! Te la farò pagare molto cara!” lo additò con aria minatoria sbraitando ed
inveendo contro il suo avversario.
Vegeta, al contrario, sembrò molto soddisfatto della sua opera di distruzione,
il suo ghigno si allargò ulteriormente, “Nemmeno tu sai con chi hai a che fare,
donna” la sfidò apertamente senza alcuna remora.
Bulma strinse i pugni che, per la collera, vibrarono visibilmente.
Serrò la mandibola nel tentativo di non uccidere il suo interlocutore e con
notevole sforzo si rivolse vero l’uscita della terrazza tornando nel suo
appartamento.
Vedendola andar via, Vegeta, non poté fare a meno di indugiare con lo sguardo
sulle sinuosità posteriori della donna.
Passarono solo pochi secondi prima di udire, dall’interno della casa, urli e
strepiti isterici indirizzati ad un fantomatico scimmione mentecatto.
L’uomo sorrise soddisfatto.
*
Clima torrido e afoso.
Al diavolo loro e le stramaledette previsioni meteo.
Odiava quando sbagliavano le loro dannate ipotesi, ed ancora di più li odiava
quando azzeccavano.
Detestava i metereologi e basta!
Gente che non aveva niente di meglio da fare che supporre le temperature per i
prossimi giorni.
Ancora non si spiegava perché insisteva ad ascoltarli.
Intanto la conclusione era che, il caldo annunciato, non aveva ancora
abbandonato la città che ribolliva dalle viscere.
Risultato?
Palestra piena di gente che ha tempo da perdere per armarsi di costume da bagno
ed immergersi nella piscina.
A chi toccava, dunque, seguire vecchie rimbambite che a stento riuscivano a
stare a galla?
A lui, naturalmente.
Disprezzava la gente in generale, ma la categoria peggiore erano le rincretinite
di età superiore ai quaranta o cinquant’anni.
L’aveva stabilito in anni di servizio.
Gli uomini perdevano tempo dietro le donne più giovani, così facendo non
seccavano lui.
Le giovani, invece, gironzolavano inutilmente per tutta la palestra, anche in
questo caso riusciva abilmente ad evitarle.
Riguardo alle donne di mezza età invece... erano il suo cruccio, la sua spina
nel fianco.
Chissà perché si appiccavano tutte come api sul miele appena cominciava a dar
loro un paio di insegnamenti.
Le pretese passavano dalle lezioni di nuoto a quelle di ginnastica e viceversa.
Questo, non c’era nemmeno bisogno di dirlo, lo metteva sempre di pessimo umore.
Non odiava il suo lavoro, ma nemmeno lo amava.
Diciamo che, potendo scegliere, avrebbe di gran lunga preferito restarsene a
casa per dedicarsi completamente ai suoi esercizi, peccato che di sola aria non
era possibile vivere.
I soldi, in un modo o nell’altro, doveva pur guadagnarli.
Un ringhio frustrato ed infastidito giunse rigoroso concludendo il fastidioso
percorso dei suoi pensieri.
Con una mano si sistemò meglio la pesante sacca della sua palestra sulla spalla,
mentre con l’altra andò alla ricerca delle chiavi di casa nella tasca della
felpa, ovviamente leggera, che indossava.
Dovette frugare per diversi minuti prima di rendersi conto che lì non c’erano.
Imprecando mentalmente si vide costretto a lasciar cadere la pesante borsa
inginocchiandosi davanti al portone alla ricerca del suo personale pass.
La ricerca si concluse in uno degli scomparti della sacca.
Vegeta ritirò fuori le chiavi tornando a sistemarsi lo zaino come gli era più
comodo.
Con un rumore sordo il chiavistello si aprì dando modo all’uomo di introdursi
nella palazzina.
Riponendo il mazzo nella tasca della felpa si avvicinò all’ascensore con
l’intento di farsi scaricare al terzo piano.
Con sommo disappunto i suoi occhi videro la spia rossa accesa, segno che, la
piccola scatola, era attualmente occupata.
Attese diversi secondi nella speranza di veder spegnere la luce, ma essa rimase
perennemente luminosa.
Passarono alcuni minuti prima che il suo sopracciglio s’inarcò perplesso dalla
particolare condizione statica del mezzo.
Non era una palazzina eccessivamente grande, vantava solo quattro piani.
Impossibile, dunque, che l’ascensore si bloccasse sul medesimo piano per più di
pochi secondi.
Non aveva mai perso di vista quella spia e neanche una volta si era spenta.
Impensabile anche che qualcun altro, a sua insaputa, aveva prenotato l’ascensore
prima di lui.
Inoltre ancora non accennava a scendere.
Solo in quel momento si accorse che la chiassosa scatola non dava alcun segnale,
neanche a livello uditivo.
Le sopracciglia si aggrottarono dubbiose disegnando, sul suo volto,
un’espressione decisamente poco gioiosa.
Seguito da un sonoro ringhio, Vegeta, scostò lo sguardo sulle scale a pochi
metri di distanza.
A quanto pareva non aveva altra scelta.
Non era di certo un problema, per un atleta, infondo erano solo tre piani.
Di buona lena cominciò a percorrere la rampa di scale ascoltando il rimbombo dei
suoi passi ad ogni gradino, appoggiando le dita sul corrimano.
A distoglierlo dai pensieri nei quali si stava lentamente immergendo fu un urlo
condito con svariate imprecazioni.
Vegeta fermò il passo alzando lo sguardo verso gli scaloni che aveva davanti con
l’intento di intuire l’origine di quello strano strillo.
Sia chiaro, la cosa non era per interesse né per curiosità, solo per sorpresa.
Pochi secondi dopo, infatti, tornò a volgere la sua attenzione alle scarpe
riprendendo a percorrere la strada che lo separava dal suo alloggio.
Fu quando raggiunse il secondo piano che udì nuovamente un grido che echeggiò
nella rampa di scale.
A differenza di pochi istanti prima, questa volta, riuscì a comprendere alcune
sporadiche parole.
Non essendo in alcun modo interessato, però, si dimenticò subito di esse senza
preoccuparsi minimamente di decifrarne il significato.
Una sola cosa gli giunse invece rigorosamente chiara e lampante, gli strepiti
venivano dal terzo piano, sul suo pianerottolo.
Infastidito corrugò le sopracciglia riprendendo il suo cammino.
Era quasi arrivato, gli bastava solo percorrere un’ultima serie di gradini,
quando il rumore di passi proveniente dalla direzione opposta lo costrinsero ad
alzare, definitivamente, lo sguardo.
Gli occhi azzurri che incrociò, forse un po’ lucidi, lo indussero a bloccarsi
improvvisamente.
Bulma fece altrettanto.
In un attimo in cui il tempo si fermò; Vegeta osservò, quasi rapito, gli occhi
della strampalata vicina estraniandosi dal resto del mondo.
“Aspetta, Bulma!” si udì distintamente provenire dal pianerottolo risvegliando,
entrambi, da uno strano torpore nel quale erano magicamente finiti.
Bulma riprese la sua corsa verso l’uscita passando accanto all’uomo e
frapponendosi tra lui ed il corrimano.
Vegeta fu costretto a staccare le dita dal cordolo voltandosi velocemente prima
di vederla sparire tra i vari pianerottoli.
Una nuova serie di passi lo indusse a voltare nuovamente lo sguardo verso il
piano alto incrociando, questa volta, lo sguardo con un altro uomo, anch’egli
dagli occhi neri.
Sul volto due grandi cicatrici.
Il misterioso visitatore non si fermò oltre, continuò la sua corsa saltando i
gradini due a due all’inseguimento di quella che sembrava essere la sua preda.
Vegeta lo lasciò passare con disinteresse riprendendo il suo percorso.
Senza più alcun pensiero giunse sul pianerottolo davanti casa ed introdusse la
mano nella tasca alla ricerca delle chiavi.
Lo scampanellio dell’ascensore gli fece intuire che le porte di esso si erano
appena richiuse.
*
Lo scrosciare della doccia picchiettò sulla sua schiena dai muscoli tesi.
Vegeta si lasciò irrorare dal getto d’acqua che, lentamente, percorse i tessuti
muscolari delle sue spalle.
Le mani appoggiate sulla parete, il capo chino e le palpebre ben serrate
permettendo alle gocce calde di rinvigorire le sue membra stanche da un’altra
pessima, ed umida, giornata.
Il rigenerante picchiettare sulla sua nuca sembrò fargli dimenticare ogni minima
fatica.
Rialzò il capo, permettendo all’acqua di bagnargli anche il viso marmoreo
scivolando successivamente sul collo, sulle spalle e tutto il resto del corpo.
Riaprì gli occhi con estrema calma, mentre una mano si appoggiò sul pomello
della doccia chiudendo la fuoriuscita di altro liquido.
La testa tornò a chinarsi, mentre le ultime inesorabili goccioline caddero lungo
il suo viso.
La porta della doccia si aprì solo successivamente, con tutta tranquillità.
Appena i suoi piedi toccarono il tappetino del bagno un’ondata, illusoria, di
fresco lo investì in pieno.
Era uno dei metodi migliori per assaporare, almeno per qualche minuto, la
sensazione che vi fosse una scappatoia all’estate ormai nel pieno della
stagione.
Si rivestì con boxer puliti e pantaloni da ginnastica abbastanza larghi.
Abbandonò, tuttavia, l’idea d’infilarsi anche la canotta, meglio lasciar credere
alla propria pelle che, la sensazione di freschezza, non fosse solo fittizia.
Uscì dal bagno con un asciugamano poggiato sul capo, sfregando con veemenza
affinché potesse asciugare, quantomeno, la chioma dall’intensa colorazione nera.
Gli occhi di Vegeta si scostarono, appena giunse nel salottino, sulla
portafinestra che lo separavano dal resto del mondo.
Per la prima volta, da alcuni mesi, si ritrovò a pensare alla possibilità di
trovare anche la chiassosa vicina.
Speranza?
Il suo piede si mosse da solo, compì un primo passo senza avere il consenso,
totale, del cervello.
Compì un secondo passo, quasi ipnotizzato, verso l’uscita della sua terrazza.
Un terzo, un quarto e svariati altri passi si susseguirono velocemente uno di
seguito all’altro.
Ben presto si ritrovò all’esterno, al fresco, ad osservare, per prima cosa, la
grata che separava i due balconi scoprendosi quasi deluso nel constatare il buio
totale che regnava nella casa accanto.
I suoi occhi scrutarono le, sporadiche, stelle alte nel cielo.
Desiderio?
Si lasciò andare ad un profondo sospiro.
La sua schiena si appoggiò sul muro alle sue spalle, scivolando lentamente al
suolo.
Vegeta osservò la luce lunare che timidamente aveva preso il posto del torrido,
ed insopportabile, sole.
Rimase così per qualche minuto, immerso in pensieri talmente effimeri da
sfuggirgli non appena cambiasse direzione dello sguardo.
La portafinestra dell’appartamento accanto si aprì in maniera decisa e, Vegeta,
scostò lo sguardo nel tentativo di scorgere la persona che normalmente abitava
dall’altra parte del muro.
Il caschetto azzurro apparve oltre il divisorio fermandosi appena mise piede
oltre la porta.
Un piccolo fuoco si accese tra le sue mani e l’odore di tabacco fluttuò
nell’aria.
Vegeta la guardò avvicinarsi al parapetto ed appoggiarvi sopra le mani.
Restò in silenzio, quasi a voler leggere nei suoi pensieri.
Perché?
Istintivamente si alzò dal terreno, compiendo il medesimo gesto.
Bulma non sembrò prestargli molta attenzione, si limitò a fissare oltre la
balconata con un’espressione mesta assaporando il gusto della sigaretta.
Il silenzio regnò sovrano per alcuni istanti.
“Tra qualche giorno pioverà” annunciò senza preavviso lei.
Vegeta intersecò le braccia al petto e si voltò a guardarla, “Come fai a dirlo?”
domandò senza troppo pensare.
“E’ il mio lavoro” spiegò vaga la donna causando un notevole moto di contrarietà
da parte del vicino.
Bulma sospirò tornando ad intossicarsi con il tabacco che reggeva tra le sottili
dita senza mai staccare gli occhi dal manto scuro sopra la sua testa, “Tu credi
negli alieni?” domandò cambiando improvvisamente argomento.
Vegeta inarcò un sopracciglio senza rispondere alla domanda, “Personalmente sì,
mi piacerebbe conoscere qualcuno venuto dallo spazio. Magari sono migliori di
tutti i terrestri” rispose da sola alla sua, inspiegabile, domanda.
“Dovevo fare l’astronauta o la scienziata, altro che meteorologa. Avrei
viaggiato per lo spazio costruendo navicelle spaziali ipertecnologiche ”
ipotizzò vagando con la fantasia, parlando praticamente da sola.
Il ginnasta rivolse nuovamente lo sguardo al cielo, “Se esistessero gli alieni
io sarei sicuramente uno di loro” stabilì aggrottando pensieroso le
sopracciglia.
Infondo era già alieno al mondo.
Finalmente Bulma gli rivolse lo sguardo, “Cosa te lo fa pensare?” volle sapere
incuriosita.
La sola replica fu un’alzata di spalle.
Rinunciando ad avere una risposta più completa, la donna, si limitò ad osservare
l’accendino nelle sue mani.
Vegeta restò ancora per alcuni secondi a rimirare il cielo, poi rivolse lo
sguardo alla vicina.
Ai suoi occhi, però, si materializzò un pacchetto si sigarette, “Ne vuoi una?”
domandò Bulma con cortesia.
L’uomo scosse il capo “Non fumo” rispose inflessibile.
Bulma ritirò la mano posando il pacchetto sul tavolo alle sue spalle, l’ennesima
boccata alla sua sigaretta e un profondo sospiro, quasi liberatorio.
Fu nuovamente il regno del silenzio.
“Oggi ho lasciato il mio ragazzo” cambiò nuovamente argomento senza un apparente
motivo.
Soddisfazione?
Bulma si appoggiò alla ringhiera del balcone scrutando la città immersa nel
buio.
Vegeta la guardò di sottecchi, “Mh” fu la sua sola risposta.
*
L’enorme scatolone dondolò pericolante sulla sua spalla.
La mano si appoggiò al pesante carico che sorreggeva affinché non cadesse.
Vegeta introdusse la chiave nel chiavistello aprendo la porta di casa.
L’uscio si spalanco e, l’uomo, entrò nell’appartamento reggendo il nuovo
condizionatore d’aria con una sola mano.
L’altra richiuse pesantemente l’ingresso riappropriandosi delle chiavi.
Compì pochi passi all’interno dell’abitazione prima di librarsi del pacco che
stava trasportando.
Affaticato ed accaldato lasciò scivolare lo scatolone al suolo passandosi,
successivamente, un braccio sulla fronte sudata.
Era prevista pioggia, ma di nuvole tempestose nemmeno l’ombra.
Come al solito, dei metereologi non ci si poteva affidare in nessun modo.
Nemmeno una gocciolina aveva attraversato il cielo, quella mattina; e lui si era
visto costretto a recarsi al negozio di elettrodomestici sotto un sole cuocente.
Per un attimo i suoi occhi tergiversarono sul balcone.
Con un sonoro sbuffo si liberò della maglietta lanciandola sul divano.
Aprì lo scatolone osservando i vari pezzi di ferraglia che costituivano il suo
nuovo refrigeratore riscoprendosi a non comprendere la meccanica del suo nuovo
acquisto.
Avrebbe comprato un normale ventilatore, se non avesse incontrato sulla sua
strada un’appiccicosa commessa che l’aveva riempito tutto il tempo di inutili
moine.
Esasperato aveva afferrato il primo prodotto economico che aveva visto ed era
uscito dal negozio quasi di corsa.
Un sopracciglio si arcuò perplesso non sapendo proprio da che parte cominciare a
costruire quello stramaledetto coso.
L’aveva portato in casa da meno di un minuto e già lo odiava.
Prossimo a rinunciare al montaggio del condizionatore si accorse del libretto
d’istruzioni inserito nella confezione.
Dopo alcuni secondi di profonda meditazione decise di afferrarlo e di provare ad
interpretarlo.
Niente da fare, lui e la meccanica erano proprio due mondi separati e distinti.
Un grugnito decretò la sua momentanea rinuncia.
Stabilì che ci avrebbe pensato in un secondo momento, dopo una bibita fresca.
Con il libretto ancora in mano si diresse verso la sua scorta sul piccolo
terrazzo.
Appena mise piede all’esterno una piccola sinfonia giunse al suo
orecchio.
Vegeta inarcò un sopracciglio volgendo lo sguardo verso la grata, sorprendendosi
ad osservare la piccola radio, da lui stesso distrutta, risuonare sul tavolo
della vicina.
Che quello fosse lo stesso elettrodomestico non vi erano dubbi, viste le
notevoli ammaccature che lo ricoprivano.
Bulma accompagnò le note musicali canticchiando la canzone che ben conosceva
seguendo il ritmo con un piede.
Seduta su uno sdraio non si accorse subito della nuova presenza, a lui fece caso
solo quando sentì la plastica della confezione di bibite.
Alzò lo sguardo, togliendosi gli occhiali da sole ed osservando attentamente la
schiena muscolosa dell’enigmatico vicino di casa.
“Ciao” lo salutò alzandosi ed avvicinandosi all’inferriata.
Vegeta si voltò a guardarla con apparente disinteresse, ma per un motivo a lui
sconosciuto non poté fare a meno di avvicinarsi anch’egli alla grata.
“Che stai facendo?” le domandò lui notando il costume da bagno della donna.
Bulma piroettò con il chiaro intento di mostrargli il suo abbigliamento, “Prendo
il sole, è una così bella giornata che sarebbe un peccato sprecarla” spiegò
risistemandosi gli occhiali sul naso.
L’atleta inarcò un sopracciglio aprendo la sua confezione d’acqua, “Una donna
giovane e carina come me ha il dovere di apparire sempre bella e perfetta” si
pavoneggiò l’altra.
“Tsk, che spreco di tempo” fu l’intrecciato apprezzamento che,
involontariamente, si lasciò sfuggire.
Il volto della donna si contrasse in una notevole incertezza nel tentativo di
comprendere il reale senso della frase.
Si appoggiò le mani ai fianchi piegandosi leggermente in avanti e scrutando
l’espressione dell’uomo, accompagnata da un sorriso, “Se era un complimento, ti
ringrazio” lo provocò leggermente sardonica.
Vegeta si voltò altrove, punto sul vivo, sorseggiando la sua bevanda.
Bulma sorrise furbescamente raddrizzando la schiena ed incrociando le braccia,
“Anche tu potresti sprecare meno tempo ad allenarti, a quanto vedo” lo stuzzicò
divertita osservando l’interlocutore da capo a piedi.
Per poco, Vegeta, non si soffocò con l’acqua.
Tossì un paio di volte diventando paonazzo, causa il mancato strozzamento,
suscitando tra le altre cose l’ilarità della donna.
Vegeta si asciugò le labbra con il dorso di una mano, nel quale reggeva il
libretto, guardando di sottecchi la vicina.
“Vedo che, il perdente, l’hai dimenticato in fretta” fu la puntigliosa
affermazione dell’uomo con l’intento di farla tacere.
Bulma, infatti, smise all’istante di ridere volgendo la sua attenzione altrove
con sguardo vacuo.
Seguì un secondo di silenzio rotto solo da un profondo sospiro da parte della
donna.
I suoi occhi azzurri si scostarono, lentamente, sull’uomo notando le istruzioni
nella sua mano.
“Hai comprato un nuovo condizionatore?” domandò riconoscendo la figura in prima
pagina.
Vegeta scostò lo sguardo sull’oggetto in questione osservando a sua volta
l’immagine, “Sì” rispose lapidario.
Gli occhi di Bulma si accesero improvvisamente, “Posso montartelo io, se vuoi”
propose euforica additando la radio alle sue spalle, “Sono bravissima con queste
cose, quella l’ho aggiustata da sola” spiegò tornando a pavoneggiarsi.
Il ginnasta la scrutò quasi sorpreso.
Incredibile constatare quanto il caso avesse giocato a suo favore.
Immerso nei suoi pensieri, Vegeta, non fece caso ai movimenti sul balcone
adiacente.
Solo quando rialzò lo sguardo si accorse che Bulma aveva già appoggiato un piede
sul mezzo metro che separava la fine del balcone dalla grata.
Con l’altra mano, la donna, si appoggiò all’inferriata restando in bilico tra le
due terrazze.
“C... cosa stai facendo?” domando sbigottito l’uomo sgranando gli occhi, “Te
l’ho appena detto… vengo ad aiutarti” gli ricordò lei insistendo nel suo gioco
da equilibrista.
Secondo la regola del non guardare in basso, Bulma, guardò l’asfalto due
piani sotto di sé, “Ahhh… è altissimo!” esclamò, un po’ in ritardo, rendendosi
conto del pericolo.
Vegeta le afferrò un polso lasciando riversare al suolo la sua bottiglietta
d’acqua e il libretto che, di conseguenza, s’inzuppò completamente.
Senza lasciarle il tempo di dire altro, l’uomo la trascinò verso di sé
togliendola dalla spiacevole situazione di funambola nella quale si era
cacciata, da sola.
Bulma si sentì ricadere al suolo nella direzione dell’altro, chiuse saldamente
le palpebre aspettando l’impatto col terreno.
Per sua enorme fortuna solo i piedi toccarono il suolo, il resto del suo corpo
sbatté contro i pettorali atletici del vicino di casa.
Quando riaprì gli occhi si ritrovò tra le sue braccia sentendo le gotte
imporporarsi di conseguenza.
Lentamente alzò lo sguardo, incrociando gli occhi scuri dell’uomo, restando
immobile per diversi istanti, come pietrificata.
Vegeta si riscoprì nella medesima situazione; imbarazzato, per chissà quale
motivo, ed immobilizzato.
Ancora una volta il tempo sembrò fermarsi e con un gesto, ben più che istintivo,
Vegeta cercò di sfiorare con le proprie labbra quelle di lei.
Una goccia cadde dal cielo, altre la seguirono rapide ed improvvise.
Il nuvolone nero sopra le loro teste non diede nemmeno il tempo di verificare la
sua presenza prima di bagnare, a tradimento, il terreno sotto di sé.
Bulma si staccò rapidamente dal vicino addentrandosi maggiormente sotto la
copertura del balcone soprastante.
Si afferrò le braccia infreddolite e completamente bagnate entrando
nell’appartamento dell’uomo.
Vegeta, al contrario, restò immobile lasciandosi completamente inzuppare dalle
gocce d’acqua che caddero rigorose dal cielo.
Alzò lo sguardo lasciando che esse scivolassero sul suo viso inebriandosi
dell’odore di pioggia estiva.
“Che stai facendo lì impalato, ti bagnerai tutto!” lo ammonì la metereologa da
dietro il vetro.
Vegeta si voltò a guardarla per diversi istanti prima di decidersi a
raggiungerla.
Infondo, le previsioni meteo, non erano poi così male.
*
FINE
*
*
Storia scritta per il contest sulle Alternate Universe indetto su Writers Arena
*
Le descrizioni non sono decisamente il mio forte, quindi ho provato a farne