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Autore: Umabel    30/03/2014    1 recensioni
Dal suo tempio, Leto osservava le frecce scoccate da Apollo falciare sette bellissimi giovani, la malattia divorava le loro vigorose membra fra i lamenti ed intanto, Artemide colpiva delicate fanciulle, ancora vergini, ingenue, candide come gigli e sentiva il proprio animo farsi leggero nell'udire le grida di Niobe raggiungere l'Olimpo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Leto

   Leto aveva immaginato la sua immortale esistenza senza figli: un'anonima quotidianità simile al tempo di Estia, così virtuosa da bandire qualsiasi emozione carnale per chiudersi in una rarefatta realtà di sentimenti freschi, rigeneranti come il vento estivo ed una parte di lei quasi invidiava la comoda posizione della Dea del Focolare.
Lei era conscia di essere diversa, di avere un sentiero opposto tracciato dal Fato e quando Zeus era arrivato, aveva capito cosa le era richiesto, aveva acconsentito ad essere posseduta dal più potente fra gli Dei, dal figlio che aveva vinto il padre e dato nuovo ordine al mondo; gli era stata grata di averla scelta per dargli un erede divino.
Era, che non vedeva oltre il vincolo matrimoniale, era di differente avviso: gli accoppiamenti di Zeus erano vissuti come un affronto al suo ruolo, pure se egli mai avrebbe rinunciato alla regina che aveva scelto, che aveva posto al di sopra di ogni altra, che amava per il temperamento focoso e per la sottile arguzia; Leto sarebbe stata lieta di prostrarsi ai piedi della Dea implorando perdono ma era consapevole dell'inutilità del gesto; Era aveva già scatenato la sua temibile ira su di lei.
Leto si era data alla fuga, non aveva altra possibilità di salvezza e non aveva avuto pace o riposo per l'intera gravidanza, spesso fra le lacrime aveva desiderato scambiare il proprio destino con quello di Atena, la figliola prediletta di Zeus o con la dissoluta Afrodite, ma il suo dovere era nascondersi, salvare se stessa e la vita che le era stata affidata.
Il dolore di quei momenti ancora la tormentava, sentiva l'angosciosa paura di essere punita serrarle il cuore in una stretta crudele, anche ora che i suoi figli erano splendenti, portentosi nella loro eccellenza, Leto avvertiva il passato raggiungerla, soffocarla con l'antico terrore, infine guardando i ridenti occhi di Artemide e i capelli biondi di Apollo, ritrovava il sorriso: loro erano una prole che superava ogni speranza, ogni preghiera di madre.

Dal suo tempio, Leto poteva osservare le frecce scoccate da Apollo falciare sette bellissimi fanciulli, guardava la malattia divorarne la carne mentre Artemide colpiva delicate vergini, che si accasciavano al suolo come candidi gigli recisi e nel seguire tutto ciò, il suo animo si faceva leggero mano a mano che lo strazio di Niobe cresceva.
La regina di Tebe, avrebbe pagato per la superbia, per la superficialità con cui aveva sottovalutato le fatiche di una madre, assai superiore a lei, piccola morta e le sue grida raggiungevano l'Olimpo come ingiurie e suppliche.
I principi e le principesse spirando, scivolavano nel Regno di Ade, questi malinconico per l'assenza di Persefone, scrutava accigliato la strage perpetrata dai nipoti.

Nessun Dio s'era apertamente opposto alla vendetta dei fratelli, tranne Estia, chiaramente, pronta a perdonare qualsiasi profanazione, salvo poi essere difesa da una pletora di divinità tra cui Apollo stesso, incantato dal suo dolce fascino.
Leto ricordava che era stato rifiutato come un ragazzino alle prese col primo amore, malgrado l'orgoglio, aveva convenuto che quell'unione sarebbe stata infelice e nulla le aveva biasimato.
Ora, Niobe pregava inginocchiata con una bambina stretta al seno, esigeva una risposta dai Numi, conscia di averli oltraggiati ed era tipico degli Umani, riscoprire l'umiltà quand'era tardi per riparare a uno sbaglio.

«Il suo cuore non è spezzato.»
interloquì Estia fra gli Olimpi: «Esso è continuamente trapassato da lame arroventate, un tormento che neppure le Erinni saprebbero infliggere con tanta asprezza.»
Leto non era ammessa a quell'eletto conciliabolo, poteva seguirlo da una rispettosa distanza, notò che i suoi figli erano rientrati, ancora ansanti per l'impresa e Ares s'era limitato a far roteare gli occhi, annoiato da quella riunione.
«Ha una voce così penetrante!»
si lamentò Afrodite, il bellissimo viso era imbronciato: «Ci tedierà per moltissimo tempo con strilla volgari, ormai abbiamo sentito le sue lamentazioni: può tacere.» scosse il capo dorato
«Temo sia difficile controllarsi, quando coloro a cui hai dato la vita sono morti fra le tue stesse braccia.»
prese la parola la Regina, altera ed insieme tranquilla: «Niobe non vorrà tacere neppure per prendere fiato, urlerà con tutta la sua anima sino a quando ne avrà una che possa soffrire.» concluse con un'occhiata eloquente al marito.
«Non potete mandare nell'Oltretomba ciò che vi indispone.»
disse a bassa voce Persefone: «Siamo costretti a ospitare Ombre così petulanti da farci sperare che fuori vi siano altri col talento di Orfeo ansiosi di riscattarli.» tacque, quando Demetra le sfiorò il polso.
«Aspetterete invano.»
si intromise Apollo: «I talenti musicali come il suo non ve ne saranno in futuro.» spostò lo sguardo su Dioniso, che sorrise serenamente: «Una mia freccia e...» stava per proseguire, ma Zeus li zittì con un gesto, poi emise un lieve sospiro.
Una brezza tiepida raggiunse Tebe e fu silenzio.
Niobe non aveva più cuore per gridare: la sovrana di Tebe era un masso immobile, muto fra i cadaveri e il suo silenzio pesò più del pianto.
Leto dovette distogliere lo sguardo e con lei, ogni altro Dio; un fugace pensiero si affacciò nella sua mente, si impose di scacciarlo. La tristezza rischiò di avvolgerla ed era una coppa pesante da cui era arduo uscire, ma d'un tratto, volle piangere.

La voce limpida di Artemide, la riscosse: «Madre» chiamò allegramente, era accompagnata da una muta di cani uggiolanti a cui donava carezze e bocconi di carne; la sua bella figliola gettò le bianche braccia al collo di Leto: «Non angustiarti: il padre Zeus ha risolto tutto.» mormorò con dolcezza.
Ella la trattenne a sé, Artemide aveva il profumo del bosco sulla pelle, aveva l'odore inebriante della libertà che lei non aveva conosciuto.
«L'avrei uccisa, non fosse stato per Persefone.» replicò Apollo: «Dioniso ha ancora il coraggio di sorridere, quando si nomina Orfeo. Hai notato?» domandò piccato alla sorella.
Artemide appoggiò la testa sulla spalla di Leto, i capelli scuri come la notte coprirono il braccio materno: «Le Menadi hanno detto...» cominciò a dire, ma Leto le posò un dito sulle labbra.
Apollo finse di non aver sentito: «Fai tacere i cani, se rimani.» rilevò atono: «Ho portato la lira, intendo usarla» affermò, come fosse annoiato: «Spero anzi che le mie allieve dilette interrompano il faticoso oziare per onorarci con una danza che possa definire tale .» cercò con gli occhi Leto per un tacito assenso.
«Sarebbe cosa gradita.» acconsentì lei, allungò la mano libera per sfiorare il viso di Apollo: «Vai in giardino, figliolo e noi ti seguiremo: è tutto passato, è tutto risolto.» affermò con un'impercettibile esitazione: «Non sono più turbata.» mentì Leto.


   
 
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