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Autore: avalon9    09/07/2008    3 recensioni
Dopo la morte di Hades...Dopo che l'inferno è scomparso...Dopo anni di lontananza, per paura di far soffrire con la sola presenza, l'ho rincontrato. Per caso. Dopo averlo tanto sognato, aspettato, desiderato...E' cambiato lui, sono cambiata io...Ma quel passato che ci unisce c'è sempre. Adesso, in questa lettera, c'è un futuro. Con lui o di morte?. Se Lei chiamerà, riuscirò a lasciarlo andare?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Andromeda Shun, Chameleon June
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Esistono molte cose nella vita

Esistono molte cose nella vita

che catturano lo sguardo,

ma solo poche

catturano il tuo cuore:

segui quelle.

 

Churchill

 

 

 

Sono in bagno. Il bagno della mia stanza d’albergo.

 

Le mie mani tremano come foglie; non riesco a fermarle.

 

Non ho il coraggio di guardare quella busta bianca appoggiata sul lavandino. È arrivata questa mattina. E io ho il terrore che contenga quelle parole che ho cercato di dimenticare.

 

Ho paura di veder sparire tutto quello che mi sono costruita. Di ritrovarmi di nuovo proiettata in quel mondo. L’ho scelta io, quella vita. Non ho rimpianti per questo. È la mia vita. La amo. E la odio. Perché adesso ho paura che mi possa portare via lui. Questa volta per sempre. Paura. Paura.

 

Alcune immagini del passato bussano alla mia mente. Cerco di scacciarle; inutile. Rivedo il triste corridoio incolore di un ospedale. Un medico dalla faccia altrettanto incolore. Parlava, ma io non lo ascoltavo. Ero in trance; l’unica cosa che vedevo era il letto oltre quel maledetto vetro. Non volevo perderlo…Non dopo che era ritornato; che avevo ripreso la speranza. E che tutto era finito.

 

Chiudo gli occhi. In realtà, ero sicura di averlo perso comunque. Un pensiero che mi faceva gelare il sangue Cercavo di scacciarlo, ma in fondo sapevo che la realtà non si può cancellare. E ignorarla non mi sarebbe servito a nulla. Dovevo accettarlo. Anche per lui. Quello che aveva vissuto lo aveva segnato fin dentro la sua anima. Nel profondo. Troppo. Ferite difficili da rimarginare.

 

Non ha mai voluto parlarne, neanche con me. E io non l’ho costretto. Sarebbe stata solo una violenza gratuita. Però sapevo bene che nessuna delle mie supposizioni, neanche la più devastante, poteva sfiorare la realtà di quello che aveva visto. E soprattutto di quello che aveva provato.

 

Mi bastava stargli accanto. Anche se il più delle volte sembrava smarrito in un mondo suo. Era diventato l’ombra di se stesso. E mi faceva male vederlo così. Molto male.

 

Così, alla fine, me ne ero andata. Mi ero convinta che fosse la mia presenza a impedirgli di guarire, di tornare sereno. I ricordi che gli rievocavo. Non l’ho neanche salutato. Non volevo più fargli del male.

 

Cinque minuti, dieci minuti…Quanto tempo sarà passato? Non riesco ancora a guardare la lettera. Perché prima vorrei mettermi d’accordo con me stessa sulla decisione giusta. Ma cosa diavolo farei se scoprissi che è ciò che temo? L’avrebbe di certo ricevuto anche lui. Mentirgli quindi sarebbe inutile. E poi se ne accorgerebbe subito. Cosa farei, allora? Ce l’ho la forza di vederlo soffrire di nuovo? Di rischiare di perderlo? Proprio adesso? Soprattutto adesso?

 

No; non ce l’ho. So già che non che la farei ancora. Che sono cambiata troppo per riuscire a sopportare di nuovo quell’angoscia. Ma so anche che lui andrebbe. Soffrirebbe ancora, ne è cosciente anche lui, ma non rinnegherebbe quella vita. Quella vita… La sua vita. Che è anche la mia.

Lui è così. È determinato. Ma è anche tenero e dolce come una nuvola di zucchero filato. Rosa per di più. Lo amo. Posso dirlo: mi sento di dirlo. Ma è anche un uomo che ha riconquistato con fatica il suo equilibrio, maturando un senso del mondo tutto suo, una realtà dolce  e malinconica.Ma estremamente viva e pulsante.

 

L’ho rincontrato otto mesi fa, ad una festa per la presentazione del cartellone teatrale. Mentre tutti cercava di parlare con tutti, lui scivolava in silenzio in quelle stanza affollate, senza partecipare a nessun tipo di conversazione.

 

L’ho riconosciuto subito. Anche se era cambiato. Più alto, pallido, con i capelli tagliati. Pareva ascoltare frammenti di dialogo, lasciarsi attraversare dalle parole. Senza intervenire, senza giudicare, solo ascoltando e accogliendo voci di altri dentro di sé.

 

Cosa guardi, cosa ascolti ?Non si capisce se sei distratto o attentissimo”. Quelle erano state le prime parole che avevo rivolto al mio angelo. Dopo anni che non ci vedevamo, che non sapevamo nulla l’una dell’altro. Ero agitata. Non mi aspettavo di incontrarlo in un’occasione come quella. Anche se lo avevo sognato per tanto tempo. Voltarmi, e trovarmelo di fronte. Però, soprattutto, in quel momento, avevo paura che non mi riconoscesse. Che mi avesse cancellata dalla sua memoria. Era la cosa più probabile. Perché me ne ero andata proprio per quello. Ma faceva male pensarlo. Maledettamente male.

 

Hai ragione, sono entrambe le cose. Colgo farfalle di dialogo qua e là, schizzi di conversazione, abbozzi di facce sconosciute, per poi farne quello che voglio nella mia testa”, mi aveva risposto, voltandosi.

 

Avevo trattenuto il fiato quando i nostri occhi si erano incrociati. Avevo davanti il ragazzo che mi aveva sempre confortato con un sorriso quando ero triste e che aveva riso con me quando ero felice. Aveva il sorriso negli occhi. Di nuovo. Era stato per far rivivere quel sorriso che me ne ero andata. Per quello. E allora perché gli avevo rivolto la parola? Avevo sbagliato. Avrei dovuto lasciarlo andare, senza dire niente. Saperlo di nuovo in piedi. Una boccata d’aria veloce per la mia anima, e basta. Accontentarmi di averlo rivisto, anche se solo per un istante, mescolato a una folla eterogenea; anche se solo di sfuggita. Avrei dovuto annegare nell’emozione di una sensazione; nel batticuore che mi dava il pensiero che fossimo entrambi lì, nella medesima stanza, a respirare la stessa aria, anche se lui non lo avrebbe mai saputo. E invece avevo rovinato tutto. Tutto.

 

Ma ormai non potevo più tornare indietro. E forse non lo avrei mai voluto. Perché, in fondo, volevo quell’incontro. Lo avevo sognato troppo per farmelo sfuggire. E forse era davvero solo un sogno; anche quello.

 

Ti esprimi come un pittore”. Indifferenza. Avevo deciso. Dovevo comportarmi come se niente fosse; come se fossero passate solo poche ore dall’ultima volta che avevo guardato nei suoi occhi.

 

Infatti. Dipingo e non faccio quasi nient’altro. Come vedi neanche parlare. Aveva sorriso. E aveva ricominciato a parlarmi. Tutti gli anni trascorsi annullati in un istante, come non fossero mai esistiti. Aveva ricominciato a parlarmi, quasi riprendendo un discorso interrotto poche ore prima. Senza astio nella voce. La sua voce…Così calda, avvolgente, tranquilla…Ma anche leggermente roca per la sorpresa, e malinconica. Non sembrava realmente rispondere a me; sembrava conversare con un fantasma della sua mente all’inizio.

 

Abbiamo conversato tutta la sera, come quando eravamo ragazzi, respirando la notte parigina, affacciati sul ballatoio di una casa di ringhiera. Andromeda mi ha raccontato della sua vita in quegli anni. Della sua Parigi. Degli angoli della città che lui dipingeva.

 

…vivo in una mansarda, in affitto. Collaboro con alcuni giornali per degli articoli e insegno poche ore alla settimana, solo quel tanto che mi è indispensabile per pagare le spese. I vestiti non mi interessano; li compro usati. Ho perfino un amico panettiere che alla sera mi porta pane e focacce avanzate”. Lo ascoltavo attenta, rapita; non volevo perdere una sola emozione di quei momenti. Avevo paura di sognare. E che mi sarei risvegliata, accorgendomi che era tutto falso.

 

Ho ventitré anni e sono laureato in giornalismo. Lo so: adesso mi dirai che dovrei trovare un vero lavoro, che dovrei guadagnare. Ma io posso vivere solo così e , finché mi è permesso, è questo che voglio fare. Dipingere. Far entrare il mondo nella mia anima, digerirlo, trasformarlo e poi buttarlo fuori attraverso il pennello. Non voglio molto di più. Solo essere libero. E vivere”.

 

Sorridevo un po’ incredula per quello che sentivo. Per la prima volta mi ero accorta di come lui e suo fratello si assomigliassero. Rincorrevano entrambi la loro libertà, anche se in modo diverso: Phoenix mostrandosi ribelle e solitario; lui scrutando il mondo con quella sensibilità che è solo sua e che avevo avuto paura avesse perso.

 

Non ti dirò nulla di quello che ti aspetti o di quello che altri ti hanno detto fino ad oggi. Per me sei eroico. Dopo tutto quello che ti è successo…”. Non sono riuscita a finire la frase. Cosa ne sapevo, io, di quello che gli era successo? Io me ne ero andata. Per lui, certo. Per non farlo soffrire. Ma se lui in questi anni era rinato, io ero morta lentamente. Mi era mancato. Avrei voluto essergli accanto. Ma non ne avevo la forza. Questa era l’unica certezza. Io non ero un sostegno per lui, solo la fonte del suo dolore. Così, mi ero buttata nel lavoro; avevo realizzato una fantasia di bambina. Ma dentro ero vuota. Solo sul palco mi sentivo rinascere. Perché la musica mi stordiva e mi faceva perdere contatto con la realtà. Perché potevo illudermi di scorgerlo fra il pubblico.

 

Avevo sentito i suoi occhi su di me. Si era voltato; ed era serio. Molto. E io mi sono allontanata di un passo, istintivamente. Avevo paura. Non di lui. Ma ero certa che stava per accadere qualcosa che non volevo. Era una sensazione sgradevole. Troppo. Come quando sai che sta per succedere qualcosa, anche se non riesci a focalizzare cosa.

 

Perché te ne sei andata?”.

 

Me lo aveva chiesto a bruciapelo. Mi ero sentita morire. Potevo dirgli che lo avevo fatto per lui? Perché mi sentivo responsabile del dolore che soffriva? Perché lo amavo, e non volevo che soffrisse guardandomi e ricordando il passato?

 

Avevo aperto la bocca per parlare, ma non ci ero riuscita. Mi sentivo gli occhi pieni di lacrime e avevo abbassato la testa per nascondergliele. La sua mano delicata sotto il mio mento e i suoi occhi verdi in cui affogare.

 

Non farlo mai più. Io ho bisogno di te.”.

 

Mi aveva detto in un soffio. E mi aveva baciata. Piano. Sfiorando appena le mie labbra con le sue, morbide e carnose. Affacciati sul cortile di una casa di ringhiere. Dopo il bacio mi aveva sorriso.

 

Sai, anch’io dipingo…”. Una mezza verità. Per allentare la tensione. Perché l’unica cosa che avevo sempre disegnato erano stati scarabocchi che volevano essere il suo volto. Mi sembrava di poter accarezzare i suoi lineamenti con la matita. Ma solo per hobby. Perché non mi dai qualche lezione? Mi servirebbe anche per il mio lavoro. Una scusa, un pretesto. Per illudermi ancora un po’. Perché non se ne andasse ancora. O almeno non subito.

Andromeda continuava a sorridere. Va bene. Vediamoci domani al Jardin du Luxembourg (1) all’una esatta. Ci sarà una buona luce.

 

E il giorno dopo mi aveva fatto togliere le scarpe e inginocchiare sull’erba. Mi aveva fatto dipingere così: inginocchiata sul prato a piedi nudi.

La serata l’abbiamo trascorsa nella sua mansarda-studio. Nell’odore dei colori a olio. Magia. Incanto. Gli ho raccontato del mio lavoro, della mia vita in quegli anni, dei paesi che avevo visitato. Mi sembrava di essere tornata indietro nel tempo. A quando eravamo ragazzi e ci confidavamo i sogni e le speranze. Quando eravamo l’uno il sostegno dell’altro. A quegli anni duri, ma felici.

Così, quando lui mi ha chiesto di nuovo perché ero scappata, io gli ho detto la verità: perché non volevo farlo star male ancora. Perché mi sentivo responsabile.

 

Mi dispiace. È stata tutta colpa mia. Ti ho sempre fatto soffrire.” In questo non era cambiato. Sempre pronto ad addossarsi colpe non sue. Improvvisamente, mi era sembrato così piccolo e fragile; le spalle larghe si erano piegate come sotto un peso opprimente. Avevo sentito una stretta al cuore nel vederlo così. Mi sono avvicinata; volevo dirgli che si sbagliava, che lui non mi aveva mai fatto nulla; che anzi era stato il suo ricordo a farmi andare avanti. La voglia di ritrovarlo. Non mi ha lasciato parlare. Le sue braccia forti attorno a me e le sue labbra sulle mie.

 

Mi sei mancata così tanto”. Credevo di sognare di nuovo.

 

Poi però sono dovuta tornare in me. Sono tornata in albergo e ho ricominciato la vita di tutti i giorni: il lavoro, le prove, le serate passate a discutere. E ho iniziato anche ad aspettare una sua telefonata. E lui mi ha chiamata, infatti, ma non quando me lo aspettavo io. Andromeda è un uomo in grado di regalare stupore e in questi otto mesi ho imparato ha sentire il mondo in modo diverso. Sì: Andromeda mi ha regalato una nuova prospettiva dell’universo. La stessa che si è creato per rialzarsi. E mi ha anche abituato ad amare in modo più libero, spontaneo. Prima di lui, amore per me significava stare assieme tutto il tempo possibile e condividere tutto. E ora mi ritrovo innamorata di un uomo che non sai mai quando ti telefonerà. Però sai con certezza che lo farà. E sai con altrettanta certezza che sei l’unica per lui.

 

Ricordo, per esempio, la prima volta che mi ha invitata a cena a casa sua. Due giorni dopo il nostro primo incontro.

Non portare nulla, penso a tutto io. Tu lavori già tanto; devi solo rilassarti”, mi aveva detto al telefono, invitandomi.

E quando sono arrivata a casa sua c’erano perfino le candele. Mi aveva preparato un ottimo risotto agli scampi, che ho divorato. Andromeda mi allungava gli scampi con le dita e mi baciava, mescolando le sue labbra e la sua dolcezza ai cibi che mi donava. Nessuno mi aveva mai trattata così.

 

Oppure quell’altra volta, quando si è presentato in albergo alle tre di notte, invitandomi a uscire. Ma sei impazzito? Perché dovremmo uscire a quest’ora?” gli ho chiesto stupita. Lui non mi ha risposto; ha solo sorriso. Maledetto sorriso! Mi ha convinto a seguirlo e siamo usciti insieme nella notte. Mi ha portato a Montmartre (2) e abbiamo aspettato l’alba seduti sui gradini della Basilique du Sacré-Coeur (3).

 

“Guarda, Nemes — mi ha detto- guarda il rosa che squarcia i palazzi e s’insinua nei vicoli”. Il rosa era il cielo che iniziava a illuminarsi. È stata l’unica persona a rapirmi, in piena notte, e a farmi osservare la bellezza della città dove mi trovavo.

Andromeda mi ama. Ma lo fa in una maniera diversa da chiunque altro. Non c’è nulla di programmato in lui.

 

E poi, in realtà, Andromeda mi dà tanto ogni giorno, senza che io chieda. Accanto a lui, mi sento l’esploratrice di un mondo nuovo. Perché grazie ad Andromeda sto scoprendo nella realtà tanti particolari divertenti, coloriti, sorprendenti. Sono diventata capace di apprezzare e cogliere le piccole magie del quotidiano. È questo che mi ha conquistata di lui. La sua capacità di trovare sempre una scintilla positiva in ogni cosa. È un dono che ha saputo tenersi stretto; anche dopo aver visto l’Inferno.

 

Ho imparato, paino piano, a rispettare il suo modo di essere. All’inizio, quando andavo a casa sua, notavo soprattutto la miriade di disegni e schizzi. A penna, a china, a carboncino, a olio…Erano ovunque, confusi con foto in bianco e nero, cartoline…Aveva rivestito una parete intera con del compensato e vi aveva attaccato con gli spillini tutti quei fogli. Un mondo intero. Un modo di percepire il mondo intero. Poi c’erano le tele, i colori e il cavalletto, grande, di fronte alla finestra dell’abbaino. Era un universo colorato, caotico, fatto di tutte le sue emozioni; ma non era disordinato. Mi avvolgeva e mi cullava, e a me piaceva.

 

Certe sere, dopo una giornata estenuante di prove, scappo da lui. Spesso lo trovo completamente assorto nella sua pittura; così io mi limito a sedermi sul divano e a leggere. Basta la sua presenza a rilassarmi, cancellando ogni preoccupazioni o nervosismo. Oppure lo guardo; seguo i movimenti lenti e precisi del suo polso. Una danza ipnotica che stordisce. Potrei restare a guardarlo per ore.

 

Ogni tanto, gli chiedo se ha bisogno di qualcosa, vittima di quel micidiale desiderio di prendermi cura di lui che ho sempre avuto. Ma lui sorride, mi prende la mano e mi bacia; e poi sussurra sempre: “Sì…di te!”.

Ho imparato ad amare Andromeda così com’è, senza pretendere di cambiarlo. Perché sarebbe come togliergli l’aria che respira.

 

Ma adesso? Se dovremo tornare, cosa ne sarà di lui? Di noi?...Cosa ne sarà di me?...Non ce l’ho più la forza di guardarlo andare e non sapere se lo vedrò tornare…Non ancora…Non di nuovo…Non ora che l’ho finalmente ritrovato…La maschera…La mia maschera si è spezzata…E io non voglio doverla riparare…

 

Ok: va bene. Adesso guardo.

 

Apro la lettere, e …

 

Mi ripeto mentalmente le parole che ho letto. Non può essere vero. Mi guardo in giro, prendo fiato e aspetto: sento la paura a e la tensione scivolare via lentamente, regalandomi una sensazione nuova, come un sorriso che parte da dentro. Felice. Mi sento felice. Perché non lo perderò di nuovo.

 

Resto paralizzata con un sorriso permanente da quando ho fissato il mio sguardo su quel foglio. Da almeno cinque minuti sono bloccata in questo bagno dalle mattonelle color smeraldo, con la testa che mi ronza e un sorriso ebete. Di colpo, voglio vederlo. Assicurarmi che è tutto vero. Che niente è venuto a portarmelo via.

 

Scendo di corsa nella hall ed esco senza avvertire nessuno. Voglio vederlo. Prendo al volo la metropolitana. Casa sua. Voglio andare a casa sua. Conto i minuti che passano; mi sembra di non arrivare mai. Abesses. Finalmente.

 

Faccio le scale di corsa, col cuore che mi scoppia. Ho paura di aprire la porta e scoprire che lui non c’è più. Che è stato richiamato. O che questi otto mesi sono stai semplicemente un sogno. Stupendi, Coinvolgenti. Magici. Ma solo un sogno della mia mente.

 

Invece, lui è qui. Come sempre. Sta dipingendo un volto; il volto di una donna. Il mio.

 

Perché?” gli chiedo, appena arrivata.

 

Non lo so. Ma mi sono svegliato questa mattina con il tuo viso in testa. Si volta verso di me e sorride. Non ce la faccio più. Mi rifugio nel suo petto e inizio a piangere. Lui non dice niente. Si limita a stringermi forte e cullarmi.

 

Cosa ti succede?”. Mi parla piano, e io inizio a calmarmi. L’ansia, la paura, tutti i miei fantasmi spariscono, annullandosi nel profumo della sua pelle, nel calore del suo respiro.

 

Ho avuto paura di perderti” ammetto alla fine. Tiro fuori la lettera e gliela metto in mano. La legge attentamente. Poi mi guarda. E sorride. Un sorriso bellissimo, pieno di orgoglio, infinitamente dolce. “ E’ meraviglioso!”mi dice stringendomi di nuovo a sé.

 

Già, meraviglioso…Sono stata scelta per uno stage di danza di sei mesi in Russia, a Mosca…Ho la possibilità di diventare una professionista affermata. Ma…

 

Rimaniamo in silenzio per un quarto d’ora. E io non ho paura. So cosa voglio dirgli. E sono decisa a seguire la mia scelta. Determinata come poche volte in vita mia. Non ho intenzione di fare quello stage. Io non ti lascio di nuovo. Resto qui. Con te. Ho parlato troppo in fretta. Ma non volevo rischiare che mi interrompesse.

 

Sei mesi in Russai ci faranno bene. E poi, d’estate Parigi diviene troppo caotica”, risponde lui, sorridendo alla sua solita maniera.

 

Resto basita: non ha considerato neanche per un momento l’idea che io rifiutassi. Mi siede accanto e mi abbraccia, attirandomi a sé. Non devi rinunciare ai tuoi sogni per me. Hai fatto troppi sacrifici. Non sarebbe giusto…. Tace per un attimo, affondando nei miei capelli, e poi sussurra: “ Già una volta ho creduto di averti perso, e mi sono sentito morire. Non commetterò due volte lo stesso errore…Tu hai il diritto di volare, io voglio vederti volare…Ma non ti lascerò fuggire di nuovo”.

 

So che Andromeda non parla mai a sproposito. So che pensa veramente quello che ha detto; e che forse sta già pensando ad un modo per mettersi in contatto con Crystal, perché ci aiuti quando saremo a Mosca. Ma non m’importa nulla di questo. Mi importa solo che lui sarà accanto a me; che è disposto a seguirmi mentre rincorro i miei sogni, donandomi sempre incanto e gioia di vivere.

 

Mi stringo a lui e lo bacio, con passione e dolcezza. Non sono mai stata così felice in vita mia. Perché sono certa che lui non mi lascerà mai sola.

 

 

 

 

Note:

 

1) Jardin du Luxembourg:  giardini dell’omonimo palazzo, situati sulla Rive gauche della Senna, sono fra i più belli di Parigi, frequentati da migliaia di parigini che, come Hugo, Baudelaire, Verlaine, Balzac, Gorge Sand e molti altri prima e dopo di loro, amano la tranquilla atmosfera che li pervade. Tra le opere che li abbelliscono, da citare la Fontana de’ Medici, del 1664, in stile italianeggiante.

 

2) Montmartre:  la collinetta di Montmartre, il “Monte dei martiri”, ricava il proprio nome dalla credenza popolare che su quest’altura vi fosse stato decapitato Saint Denis (Dionigi), primo evangelista della città. La particolare atmosfera del quartiere attrasse nel secolo scorso non pochi artisti, i quali vi stabilirono la propria residenza, immortalandolo in celebri raffigurazioni. Ai mostri giorni la collina conserva angoli pittoresche dai quali traspare una capitale fin-de-siécle che si annida ancora qua e là nelle pieghe dell’animo parigino. Cuore di Montmartre è Place du Tertre, antica piazza alberata che conserva un aspetto paesano, luogo di ritrovo e di svago grazie ai suoi ristoranti e al gran numero diartisti e pittori che distillano la loro arte in ritratti, paesaggi e caricature.

 

3) Basilique du Sacré-Coeur:  la basilica si staglia al di sopra di una monumentale scalinata da cui domina larga parte della città. I lavori di costruzione della chiesa si protrassero dal1876 al 1914. Costruita in marmo bianco, la basilica è il risultato di un incrocio di stili, dal romanico al bizantino; col tempo, complice anche la sua posizione dominante, è diventata meta tradizionale di passeggiate serali.

 

4) Abbesses:  ventesima fermata della linea metropolitana numero dodici, in direzione Sud-Nord (Mairie d’Issy-Porte de La Chapelle), Abbesses ferma ai piedi della collinetta di Montmartre.

 

 

 

 

 

 

Ripercorrendo

 

 

Una storia vecchia.

Una delle ultime che abbia scritto riguardante il fandom dei Cavalieri. Un ricordo che ho voluto lasciare così, anche se, adesso, a distanza di quattro anni, potrei/vorrei riprenderla in mano e cambiare un po’.

Non so.

E’ un altro stile; non così lontano da quello medio (tralasciamo i deliri similpoetici, che è meglio) che uso adesso, ma nemmeno quello delle origini. Una via di mezzo, credo di poterlo definire.

E a rileggere mi sono accorta di una cosa.

Di solito, ci si mette a scrivere fan fiction per tanti motivi. Ma uno di quelli più gettonati, statistiche sottobanco alla mano, sembrerebbe essere l’insoddisfazione.

Ecco. I Cavalieri sono il primo manga su cui abbia mai scritto. E stranamente mi sono sempre rifiutata di inserire personaggi originali. Mi bastavano loro. Così.

E’ un discorso che non c’entra molto; anzi: non c’entra affatto. Risultato del post che sto scrivendo per il blog (ogni momento è ottimo, per partire).

Comunque.

Una vecchia storia. Proprio una storia vecchia. Forse un po’ ingenua e melensa. Troppo melensa (?), ma non cambio. Mi sembrerebbe di tradire un pensiero di tanti anni fa ( e adesso dove se n’è andato, quel pensiero?).

Con questo, non vuol dire che rifiuto critiche e appunti. Al contrario! Sono sempre, sempre, benvenuti (al maschile plurale, come vuole l’italiano. Ah, il sessimo è anche linguistico). Magari la riprenderò in mano. Non per cambiarla. Ma proprio per riscriverla. Completamente.

 

Intanto, una piccola noticina finale. Non è una AU, anche se dell’ambientazione tradizionale (mitica, fiabesca, eroica?) dei Cavalieri non ha pressochè nulla. È il seguito, se volete. Una parentesi dopo Hades; anni, dopo Hades.

Prima che Kurumada riprendesse in mano il manga con gli antefatti. Prima che le televisioni giapponesi trasmettessero L’Overture al Tenkai.

Perdonate, quindi, le eventuali incoerenze di trama con la continuità (devo decidermi a imparare l’inglese) ufficiale.

 

Alla vostra gentilezza

  
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