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Autore: Jooles    06/04/2014    3 recensioni
Si dice che non appena Achille aveva visto il corpo straziato di Patroclo le sue grida fossero giunte fino alle mura di Troia, che le porte Scee avessero tremato.
Una profonda amicizia che si tramuta in un amore inconsapevole.
Ma quando si capiscono certe cose, è sempre troppo tardi.
[Iliade, Patroclo x Achille]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Achille, Briseide, Patroclo
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Storia partecipante al contest "The French Mistake" di michicucciola sul forum di EFP
Autore sul forum:
Jooles93
Raiting: giallo
Generi: introspettivo, triste, sentimentale
Fandom e OTP: Iliade, Patroclo/Achille
Eventuali note: Dal secondo pezzo, la storia si riferisce agli avvenimenti del libro XVI (stesso libro della morte di Patroclo, tra l’altro), in cui Patroclo corre a pregare Achille di tornare in battaglia e aiutare l’esercito che sta subendo una pesante sconfitta: Achille, infatti, si è ritirato a causa dell’offesa subita da Agamennone quando quest’ultimo gli ha sottratto Briseide.
 
Indice dei nomi:
Chirone: centauro inventore della medicina e della chirurgia che ebbe, tra gli altri, Achille e forse anche Patroclo come suoi discepoli.
Menezio: padre di Patroclo (in alcuni pezzi mi riferisco a Patroclo come ‘figlio di Menezio’ per non essere ripetitiva).
Peleo: padre di Achille (vale quanto detto per ‘Menezio’).
Automedonte: auriga di Achille, conduceva i suoi cavalli in battaglia.











 
 
 
 
-Nemesi d’eroe-
 
 



«Devi stare tranquilla, sei al sicuro qui.»
Per il momento, avrebbe voluto aggiungere.
Briseide lo scrutava allo stesso modo in cui un animale in gabbia osserva timoroso il proprio carceriere.
Patroclo si allungò dal kline sul quale si era poggiato, stremato, tendendo un braccio a sfiorare un livido tumefatto sotto l’occhio della prigioniera. Briseide fece in fretta a nascondere il volto dietro la folta chioma setosa, ma non si trattenne dal sbirciare il ragazzo celata da quelle ciocche brune.
C’era una calma stranamente rassicurante dietro la sua mascella squadrata e lo sguardo profondo. Non vi era niente dell’eroe bruto in quel giovane che aveva appreso chiamarsi Patroclo. Le mani callose e ruvide avevano qualcosa di diverso da quelle degli uomini che l’avevano trascinata nell’accampamento degli Achei tirandola per le braccia o sollevandola bruscamente di peso; avevano ucciso anch’esse, compiuto atrocità. Eppure, in qualche modo, avevano conosciuto la dolcezza e l’avevano coltivata, evitando che si sperdesse in fondo ad un cumulo di infiniti lutti provocati dalla guerra. Briseide lo comprese quando Patroclo le sfiorò lo zigomo ferito con la punta delle dita tremanti e quello, invece di rilasciarle un fastidioso bruciore, sembrò che pulsasse di meno.
 
«Qualche foglia pestata di calendola basterà» le riferì, indicando l’ematoma. La fanciulla non capì, ma quei suoni erano così limpidi che ritenne non avesse nulla da temere.
Patroclo si avvicinò ad una scatola di legno lavorato dall’altra parte della tenda, estraendone ampolle e boccette di differenti misure. Quando fece ritorno con in mano un impasto scuro e molle, questa volta Briseide non si sottrasse al suo tocco.
 
La sua prigionia contava il tempo di tre giorni e qualche ora, ormai. La prima notte era rimasta seduta sul terriccio all’interno di un grosso tendone, i polsi stretti da una spessa corda legata a un palo. Ce l’avevano buttata per poi abbandonarla con il monito che Achille sarebbe arrivato e che ci avrebbe pensato lui.
“Il tuo padrone arriva tra un po’”. Ma il Pelide quella notte non si era presentato.
Nemmeno le due notti seguenti le aveva fatto visita per inaugurare il suo prezioso bottino di guerra. Il lembo della tenda si era scostato per far entrare solamente un’altra persona, quella che ora gli sedeva di fronte.
Briseide non ricordò di essersi già imbattuta nel ragazzo fin quando la rabbia smise di celare i suoi occhi e non prestò maggiore attenzione al suo volto.
 
Non appena aveva fatto ingresso all’accampamento, un paio di guerrieri le avevano subito messo gli occhi addosso. Si era fatta strappare la spallina della tunica nella foga di difendersi, ma quando ormai la sua mente di era rassegnata alla sorte, anche se il corpo continuava a lottare con calci e pugni, qualcuno aveva parlato e tutto aveva trovato fine. C’era un giovane, e c’erano i guerrieri achei che si lamentavano, innervositi.
«Lei è di Achille.»
«Tanto era troppo rognosa per i nostri gusti.»
Non aveva capito ciò che si erano detti, il dialetto frigio era molto diverso dal loro, ma era stata lasciata in pace, e tanto bastava.
 
Achille si fece vivo molto presto, però. Entrava nella sua tenda dove ad attenderlo c’era Briseide, e non vi usciva che al mattino. Patroclo lo vedeva, il suo rifugio era stato picchettato proprio lì di fronte: il giovane eroe faceva capolino da dietro il telo color avorio e si stirava la schiena, tendendo in alto le braccia. Sembrava che il suo petto nudo fosse prediletto dal sole, che lo illuminava e metteva in risalto i suoi muscoli come non accadeva nemmeno con gli elmi lucenti. Si recava sulla riva e si inumidiva la chioma con l’acqua salata. Poi tornava a vestirsi, e infine spariva fino alla sera.
Quando Patroclo si affacciava a vedere come stava Briseide, la trovava ancora che dormiva.
Il pomeriggio stavano spesso insieme, e Patroclo le domandava spesso come stesse. Lei ancora non capiva la sua lingua, ma i segni di violenza sul suo corpo sembravano guarire.
 
~¤~
 
«Cento, mille, forse più, stanno cadendo tutti sotto i colpi dei troiani!», il cuore di Patroclo affannava il suo stesso petto per la lunga corsa dalle navi assediate fino alla tenda in cui Achille manteneva l’offesa subita da Agamennone. I suoi occhi un tempo limpidi in quel momento erano sfocati dalle lacrime che sgorgavano come l’acqua da una fonte scoscesa: prepotenti e copiose, gli solcavano il viso.
Achille rimase con le spalle a lui rivolte. Questa volta non avrebbe dato ascolto al suo migliore amico. Che periscano tutti, in primo luogo l’avaro re.
«Achille, te ne prego», Patroclo non aveva mai mostrato orgoglio di fronte a lui. Lo pregava e lo scongiurava di salvare i greci, coloro che lo avevano sbeffeggiato togliendogli la donna troiana e così il suo onore.
Ma Patroclo non aveva mai dato troppa importanza a queste cose, ecco perché continuava a non capire. Ed era anche per questo che spesso uomini come Diomede e Menelao lo deridevano. Achille si arrabbiava, lo faceva lui al posto di Patroclo, e quando gli chiedeva perché non reagisse, quello scrollava le spalle, semplicemente. Poi passava a parlare delle medicine e delle tecniche apprese da Chirone, oppure di come Briseide imparasse velocemente la loro lingua.
 
«Achille.»
Ci fu qualcosa nel tono con il quale gli si rivolse, che Achille non poté semplicemente ignorarlo. In quel momento lo aveva pregato di voltarsi e di ascoltarlo non perché tentasse di convincerlo a salvare l’esercito. Era per Patroclo, per lui soltanto. Era qualcosa che serviva al suo cuore: aveva bisogno che quel semidio, cresciuto troppo in fretta sotto i colpi della guerra, si voltasse a guardarlo. Gli era indispensabile, come se fosse il suo centro di gravità personale.
Quando il Pelide si voltò, non fu pronto ad accogliere quella vista: Patroclo era ancora scosso dai singhiozzi, ma il suo sguardo non era più quello del ragazzino spaventato e insicuro che era sempre stato. I suoi occhi erano fieri e forti, le labbra non tremolavano. La guerra lo aveva mutato e plasmato, Achille lo aveva avuto sotto le mani per tutto quel tempo eppure non se ne era mai accorto. Era stato troppo impegnato a straziare cadaveri o a ritenersi offeso per il torto ricevuto dal suo re.
A quella vista, il cuore di Achille si straziò maggiormente. Aveva sempre creduto di poter ritrovare la calma nel suo amico, di potersi nascondere da tutto semplicemente standogli vicino.
Ma alla fine avevano fatto in modo che anche Patroclo cambiasse, che la sua dolcezza si celasse, e fu per questo che l’ira di Achille per coloro che lo avevano trascinato in guerra crebbe.
 
«Perché sei adirato con Agamennone per averti sottratto Briseide?»
Non capiva.
«Che domanda mi fai, Patroclo? Lui ha voluto che così io fossi deriso da tutti i grec-»
«Non l’hai mai toccata» lo interruppe.
Se lo aspettava da Patroclo. In fondo, lui e Briseide avevano passato molto tempo insieme da quando la ragazza era stata sottratta al suo tempio.
Questo però non aiutò a trovargli la risposta. Non aveva mai dovuto dargli spiegazioni, con lui non c’era mai stato bisogno di tanti convenevoli e Patroclo, dal canto suo, era sempre stato pronto a difenderlo senza mai chiedere spiegazioni, come se il solo fatto di essere Achille fosse sufficiente.
Ma non quella volta.
«Cosa ti hanno fatto?», Achille sembrava essere in agonia di fronte all’espressione così dura e al contempo sofferente del compagno. Gli si avvicinò, premendo il naso contro il suo. Poi, un boato assordante scosse le fondamenta della tenda così come le loro gambe, la battaglia infuriava a soli pochi chilometri da lì, e Achille si scostò. Patroclo non sentì altro che il freddo sulla punta del naso dove fino a un attimo prima vi era stato quel contatto. Era stato inebriato dal suo profumo, dolce, come l’olio di mandorle con cui si massaggiava il corpo, ma non troppo dolce; pungente, come l’aria fredda del mattino che pizzica le narici, solo più piacevole.
Ma un attimo dopo quel fragore, lui non era più lì. Achille andò dall’altra parte del tendone per versarsi una coppa di vino. Il suo volto adesso era impassibile.
«Va’» disse.
 
Per molte sere da quando erano arrivati sulle spiagge dell’Anatolia, Patroclo era tormentato da delle immagini. Arrivavano di notte, prepotenti, e non c’era modo di scampargli. Dapprima iniziavano come sogni, lasciandogli la sensazione di carezze da cui veniva svegliato di soprassalto. Ma anche con gli occhi aperti queste immagini avanzavano. C’erano delle mani, forti e levigate, che si protendevano verso di lui per cercare di toccarlo. Conosceva molto bene quelle mani e anche quando arrivava la mattina e pensava di essere al sicuro dall’oscurità che si celava dietro le sue palpebre, Patroclo non riusciva a sfuggirgli. Le immagini continuavano, sempre, e non si lasciavano fermare.
La notte scorsa, prima dell’attacco alle navi, Patroclo aveva sognato che quelle mani venivano tranciate da un spada affilata. Si erano mosse per qualche attimo, stroncate dai polsi, con qualche convulsione e scatto, simili alla coda di una lucertola, ma poi erano rimaste a terra immobili. Aveva scostato il lenzuolo umido del suo sudore ed era corso alla tenda adiacente, sconvolto.
Ma quando aveva aperto il lembo del tendone e vi aveva sbirciato dentro, Achille dormiva imperturbato.
 
All’imbrunire seguente, l’esercito troiano li aveva attaccati, avventandosi sulle loro imponenti navi. Patroclo era di nuovo corso da Achille, ancora scosso dalla premonizione della notte passata, e questa volta non aveva nascosto le lacrime.
Si era ritrovato a pensare, egoisticamente, di essere sollevato che Achille non fosse più sceso in guerra. Ma quando, aggirandosi per l’accampamento, aveva origliato le calunnie che gli uomini rivolgevano sul conto dell’eroe, non aveva potuto non provare un certo moto di orgoglio ferito, come se avessero colpito lui stesso. Avevano già dimenticato le gloriose gesta del Pelide in battaglia, di quante volte lui da solo avesse salvato la testa all’intero esercito.
Allora il figlio di Menezio non aveva potuto rimanere impassibile e il suo desiderio che Achille rimanesse al sicuro lontano dalla morte era stato schiacciato dalla volontà che tutti tornassero a vederlo con gli occhi di prima.
 
Tornato nella sua tenda dopo essere stato cacciato da Achille, Patroclo poté finalmente accasciarsi a terra. Le sue ginocchia avevano minacciato di cedergli sin da quando aveva messo piede nella tenda dell’altro. In lontananza, le urla degli uomini e i boati delle navi che cadevano sotto i colpi delle catapulte nemiche gli invadevano i sensi, annebbiandogli la vista e intorpidendogli l’udito. Se avessero continuato di questo passo, presto o tardi si sarebbero trovati sopraffatti e sconfitti dai nemici e nonostante odiasse Agamennone, Menelao, e chiunque li aveva fatti schierare iniziando quell’assurda guerra, era il suo esercito e anche lui vi faceva parte.
Sarebbero morti tutti, lui compreso, e qualcosa di terribile sarebbe accaduto ad Achille.
Non poteva permetterlo.
E fu in quell’istante che gli venne in mente.
 
«Sei qui.» Non era una domanda, voleva solo accertarsi che fosse davvero davanti ai suoi occhi come aveva sperato. Achille oltrepassò l’entrata del suo rifugio ma Patroclo non si alzò da terra. Avanzò di qualche passo, poi fletté le ginocchia per ritrovarsi alla stessa altezza del compagno. Non si preoccupò di sporcarsi la veste bianca. Spostò il peso su una mano poggiata sul terriccio sabbioso e i muscoli del suo braccio si incurvarono dolcemente, i suoi occhi verde scuro trovarono quelli del ragazzo seduto di fronte a lui.
Il cuore di Patroclo accelerò e non riuscì a dare un nome alla ragione per cui accadde. Achille lo aveva guardato infinite volte, ma c’era un’intensità che non conosceva nel suo sguardo e questo gli rese più difficile ciò che aveva da dirgli.
«Lascia che combatta al posto tuo.»
Il figlio di Teti sgranò gli occhi e per un attimo parve sperduto, come se non riconoscesse il luogo dove si trovava.
«Non permetterò che tu rischi di incontrare la morte», la sua risposta non ammetteva repliche.
Patroclo lo fissò dritto negli occhi, come una lancia che si conficcava nel cielo. Non poteva cedere adesso, o Achille non lo avrebbe più ascoltato.
«Ascoltami. Manda me al tuo posto. Lasciami indossare la tua armatura.»
«No!», il suo volto era sfigurato dalla rigidità, qualcosa che non gli si addiceva.
«E poi, tu…», non sai combattere come me, avrebbe voluto dire.
Fu come se lo avesse detto, perché Patroclo sorrise.
«Non c’è bisogno che io combatta. Hanno tutti talmente paura di te che scapperanno non appena mi mostrerò con indosso l’armatura del semidio.»
Ma Achille continuava a scuotere la testa.
«Non se ne parla, è pericoloso.»
Patroclo si protese verso di lui, un movimento infinitesimale, ma era come buttarsi da una cascata, e fino all’ultimo istante non era sicuro se gettarsi o meno. Si sporse in avanti e le loro bocche si sfiorarono goffamente. Poi, subito, con un sussulto spaventato, si ritrasse ed ebbe un solo istante per vedere il viso di Achille. Aveva gli occhi sgranati per la sorpresa ed era completamente immobile, quell’assenza di movimento che era soltanto sua. Patroclo inorridì per ciò che aveva appena fatto.  Trasse un profondo respiro e si accorse dello spazio vuoto tra i loro volti. Forse se ne accorse anche Achille, perché subito, così inaspettatamente quanto un fulmine in una giornata assolata, si sporse e le sue labbra atterrarono lievemente sulle altre, il dolce calore delle loro gole che si mischiava. Non fecero altro che abbeverarsi l’uno all’altro, senza pensare, colmandosi dei reciproci respiri, dei morbidi movimenti delle labbra.
Patroclo non sapeva cosa fare, e si preoccupava di ciò che potesse piacere ad Achille. Gli baciò il collo, il petto, spingendolo con delicatezza a sdraiarsi.
I loro corpi si unirono come mani.
 
Rimasero immobili per un bel po’, mentre fuori, a pochi chilometri da loro, imperversava una tempesta di lance e dardi infuocati. Se solo Patroclo avesse avuto le parole, le avrebbe pronunciate. Ma non c’erano, o almeno lui non le conosceva, nessuna sembrava abbastanza potente da contenere una realtà così immensa.
Achille si alzò di scatto a sedere; sulla pelle nuda della schiena rimasero attaccate alcune macchie di terra, incollate da un velato strato di sudore sulla pelle. Si voltò un attimo e sollevò una mano, avvicinandola al viso dell’altro. Patroclo chiuse gli occhi: non aveva bisogno di guardarla, poiché le sue dita erano scolpite nella sua memoria, sottili e venate come le foglie del tiglio selvatico, forti e rapidi. Attese un contatto, che però mancò. Qualcosa dentro di lui si infranse, e gli tornò in mente il sogno. Il suo cuore si era incrinato per poi cadere maciullato sul terreno: come le mani di Achille.
Il Pelide ritrasse la mano e si alzò. Indossò i vestiti e si allontanò a grandi passi, lasciando Patroclo mortificato e spaventato a terra.
«Non dovevo» lo sentì sussurrare, forse certo che Patroclo non avrebbe sentito.
Invece lo udì.
 
~¤~
 
Patroclo si inginocchiò, allacciandosi le cinghie, le sue dita così rapide che lui stesso quasi non riusciva a seguirle. Indossò la corazza e gli schinieri di bronzo, che sentiva pesanti e stretti contro la sua pelle.
Uno squarcio di luce inondò la tenda, una figura alta e robusta si affacciò.
«Sei pronto?» chiese Automedonte.
Patroclo lo guardò solo per un attimo, poi tornò a occuparsi della sua armatura. C’era quasi, gli mancava un solo dettaglio. Afferrò l’elmo e se lo fece calare in testa. Guardò il suo riflesso sullo scudo ancora poggiato a terra, e quasi credé di avere le allucinazioni. Se non si fosse concentrato sul suo sguardo e sul taglio degli occhi, avrebbe detto di stare a guardare Achille. Ogni dettaglio dell’armatura era inconfondibile e i troiani l’avrebbero riconosciuto all’istante come il figlio di Peleo.
«Sono pronto» disse.
 
Quando salì sul carro, Patroclo gettò un ultima occhiata all’accampamento dietro di sé. Non lo vide da nessuna parte, ma forse pensò che fosse meglio così.
Poi Automedonte fece schioccare le redini, e i cavalli iniziarono a correre verso la battaglia.
Dal riflesso sullo scudo che teneva poggiato ai suoi piedi, gli parve di intravedere una lucente chioma dorata.
 
 
~¤~
 
Esodo
 
Si dice che non appena Achille aveva visto il corpo straziato di Patroclo le sue grida fossero giunte fino alle mura di Troia, che le porte Scee avessero tremato. Si era gettato sul suo corpo non appena Menelao lo aveva poggiato a terra, delicatamente, quasi fosse più fragile del cristallo. Si era afferrato i capelli con le mani e se li era strappati dal cranio, come se volesse espiare in quel modo il suo dolore; ciuffi dorati erano caduti sul cadavere. Aveva continuato a gridare il suo nome per ore, fin quando la voce aveva perso forza e il nome era diventato solo un sussurro.
Tutti lo consolarono dicendogli che con quel gesto eroico aveva salvato l’esercito; ma Achille avrebbe preferito che fossero tutti morti per riavere Patroclo lì con sé.
 
L’ultima notte in cui lo aveva visto, Achille ricordava di essere rimasto accecato da un dolore opprimente. Era rimasto scandalizzato da se stesso quando si era ritrovato a bramare le labbra dell’amico più del sangue dei troiani sul campo di battaglia. La confusione lo aveva accecato, più dell’ira, e si era pentito amaramente di essere stato così sconsiderato.
Si domandava da quanto Patroclo nutrisse per lui quei sentimenti, e da quanto lui stesso li contraccambiasse senza mai essersene accorto.
 
Rivedeva Patroclo bambino che si arrampicava su per un albero; poi cadeva, e Achille gli inumidiva la ferita sulla caviglia con la saliva per disinfettarla. Ricordava la lira che avrebbe sempre voluto saper usare, e che Achille suonava solamente per lui.
Al tempo ancora non lo aveva capito, tutte quelle piccole attenzioni che riservava a lui soltanto.
I ricordi avevano continuato a traboccare per ore, come zampilli impazziti di una fontana. Achille era fatto di ricordi.
 
Verso sera aveva radunato i greci con una richiesta da fare.
Tutti lo avevano ascoltato e rispettato, perfino Agamennone.
 
~¤~
 
«Qui andrà bene» pronunciò Odisseo.
Due uomini iniziarono a scavare una buca nel terreno sabbioso, proprio al di sotto di un monolite scolpito e lavorato finemente. Il mastodontico pezzo di granito svettava verso il cielo a bucare il sole del tramonto, i cui raggi traboccavano sulle onde e si sperdevano al largo.
Alla base del monumento, una solida lastra di pietra grezza le faceva da sostegno. Le donne vi avevano lasciato sopra ghirlande e corone di foglie di noce, minuziosamente lavorate e intrecciate.
 
La guerra era terminata dopo dieci, infiniti anni. La terra ne risentiva ancora gli echi, la sabbia aveva assorbito il colore del sangue versato ed aveva assunto una tonalità più scura. Ma anche quel cupo capitolo di storia aveva raggiunto la sua fine: le navi achee si preparavano a salpare.
 
Odisseo alzò lo sguardo sull’orizzonte.
«Sarà un lungo viaggio di ritorno» sussurrò.
Gli uomini lasciarono cadere le vanghe e drizzarono le schiene.
«Fatto» annunciò quello che tra i due sembrava il più anziano.
Odisseo si piegò sulle ginocchia e adagiò una piccola urna nella buca di esigua profondità. Poi la ricoprì attentamente con il terriccio, facendo attenzione a non schiacciare troppo per non crepare la ceramica.
«Se solo Teti sapesse che suo figlio ha deciso di mischiare le sue ceneri con quelle di un mortale» mugugnò l’altro uomo, quello più barbuto.
Odisseo si lasciò sfuggire un fioco sospiro.
«Per questo ieri il mare era agitato» sentenziò.
Quando ebbe ricoperto la buca, Odisseo salì il gradino della base della scultura commemorativa e scostò leggermente una composizione floreale che copriva la dicitura: PATROCLO.
E sotto, con caratteri diversi poiché postumi: ACHILLE.
 
Lasciarono l’insenatura diretti alle navi. Alle loro spalle, il monumento proteggeva fiero le sue anime, e la sua ombra si allungava fino al bagnasciuga, finendo in acqua, come se volesse indicare la strada di casa.
 
Era tempo di tornare.
 
 
 

















n/a
Salve! Primo tentativo in questa sezione. :)
Da brava fan di Omero quale sono, non poteva tardare ad arrivare qualche cosa anche qui. 
Spero che la storia sia stata di vostro gradimento. Io personalmente sono un'eterna insoddisfatta, perciò non sono convinta e mai lo sarò, eppure mi è piaciuto scrivere questo piccolo racconto. Spero solamente che i personaggi siano convincenti. *_*
Se qualcuno volesse farmi sapere la sua opinione sono qui, anzi, mi farebbe moooolto piacere. :)
Saluti! <3 
  
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