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Autore: vannagio    07/04/2014    15 recensioni
Quella era davvero una giornata del cazzo. E JD ne aveva le palle gonfie, di quella merda. Dieci farfalline in un giorno erano troppe per fino per il Santo Protettore Dei Tatuatori. Che forse non esisteva affatto, vista e considerata la ragazzina che era appena entrata nel suo negozio di tatuaggi. C’era solo un tipo di ragazza che JD detestava più della solita Barbie Voglio Una Farfalla Sull’Inguine, ovvero la classica Bellezza Dark.
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
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A Veronica e a Chiara.
Sperando che il cesto dei giochi continui a riempirsi.




Capitolo 10




«Come stai?».
«Bene».
«Davvero?».
«Davvero».
Honey si guardò intorno. Il primo incontro con suo padre lo aveva immaginato diversamente. Con un vetro a dividerli e due cornette per parlarsi, come nei film. Invece l’avevano fatta entrare in una stanzetta, con in mezzo un tavolo, e non appena si era seduta, la porta di fronte a lei si era aperta e ne era uscito suo padre, in divisa arancione. Adesso erano seduti l’uno di fronte all’altra, mentre due agenti, uno per porta, facevano finta di essere invisibili.
«Tu invece come stai?», chiese suo padre.
Eh, bella domanda. Aveva pianto per una settimana, distrutta dal senso di colpa. Poi si era data due schiaffi e si era detta che frignare non avrebbe fatto uscire suo padre di galera. Che non era questo che lui si aspettava da lei. E che doveva essere forte anche per sua madre, che non se la passava meglio di lei.
«È strano non avere più il tuo fiato sul collo». Suo padre rise e Honey con lui, felice di aver un po’ sdrammatizzato l’atmosfera. «Sto bene, sì. Insomma, me la cavo».
«JD ti tratta bene?».
Honey roteò gli occhi.
«Sì, certo che sì. Tu, invece? Che mi dici dei tuoi avvocati? Ti senti pronto per l’udienza preliminare di lunedì?».
Lo sguardo di suo padre si incupì.
«Honey, spero che tu non ti sia fatta false speranze, le probabilità che io esca di qui in tempi brevi sono…».
«Lo so, papà. Volevo solo… confortarti».
Suo padre la prese per mano, da sopra il tavolo.
«L’unico conforto che mi serve è sapere che tu stai bene e che sei felice».
Honey annuì.
Non piangere. Non. Piangere. Lo avevi giurato, che non avresti pianto più. Dimostragli che non si sbaglia, che puoi farcela, che sei grande. Guardalo, sta bene. Sta veramente bene.
Era vero. Le rughe sulla sua fronte si erano appianate; le spalle si erano rilassate, come se finalmente fosse riuscito a liberarsi del macigno che per anni era stato costretto a sorreggere. E se lui era così tranquillo, allora lei non doveva essere da meno. Con uno sforzo titanico, Honey ricacciò indietro le lacrime. Tirò fuori una cartelletta dalla tracolla e la porse a suo padre.
«È un po’ stropicciata, gli addetti alle perquisizioni sono dei veri elefanti».
Lui se la rigirò tra le mani.
«Di cosa si tratta?».
«Sono le bozze delle domande di iscrizione al college. Le belle copie sono state compilate e spedite ieri mattina. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere leggere cosa avevo scritto. Non far caso alle cancellature a penna, però. Come ho detto, sono le bozze».
«Hai pensato bene. Quali hai inviato?».
«Tutte. Ma spero che mi prendano alla New York University. Così non sarò costretta ad allontanarmi da…».
«JD».
«Stavo per dire da mamma. E da te. Ma sì, anche da JD».
Per un attimo Honey fu certa che suo padre si sarebbe commosso.
Potevano entrare soltanto uno alla volta. Perciò, quando ebbero esaurito il quarto d’ora a loro disposizione, Honey uscì per lasciare il posto a sua madre. Fuori dalla stanzetta, suo zio Carlisle camminava avanti e indietro, in attesa del suo turno.
«Come lo hai trovato?».
Honey non dovette pensarci nemmeno un secondo.
«Sereno. Rilassato».
Lui sbuffò.
«Tuo padre è matto come un cavallo, sappilo».
I minuti scorrevano lenti come ore. I passi claudicanti di suo zio scandivano i secondi come un orologio mal sincronizzato. Tac, ta-tac. Tac, ta-tac. Tac, ta-tac. Honey pensò che se non lo avesse fermato subito, sarebbe impazzita.
«Non ho visto Marie Louise, ieri sera. Sta bene?».
Tac, ta-
«Uhm? Ah, sì. Ha fatto cambio con Kimberly, adesso la sua serata libera è giovedì. Venerdì mattina deve svegliarsi presto, ha cominciato a seguire un corso da estetista».
«Oh, è meraviglioso!».
«Già».
Ma suo zio non sembrava davvero convinto di quel già.
«Va… tutto bene tra di voi, vero?».
Lui inarcò un sopracciglio.
«In che senso?».
Honey ammiccò.
«Dai, lo sai in che senso».
«Marie Louise ha… altro a cui pensare. Ed io non voglio esserle d’intralcio».
«Oh, andiamo!».
«Ragazzina, faresti meglio a farti gli affari tuoi».
Suo zio aveva messo su la faccia seria, quella da "Non insistere con me, sono un boss pericoloso". Così Honey si imbronciò e il discorso cadde lì.



«Ciao, Darla».
«Ciao, Honey».
«JD?».
«In laboratorio con Big D».
«Okay».
Honey si lasciò cadere sul divano, che sbuffò per il contraccolpo. Lanciò un’occhiata in tralice a Darla: se mai ci fossero stati dubbi sul sopraggiungere della primavera, lo si sarebbe comunque intuito dal suo abbigliamento, succinto più che mai. Honey aveva una voglia matta di freddarla con qualche battuta al vetriolo, tipo “Non faresti prima a non vestirti per niente?” oppure “Ti rendi conto che la stoffa che hai addosso non basterebbe a confezionare nemmeno un perizoma?”. Nonostante ciò, si trattenne. Darla non le piaceva, non le sarebbe mai piaciuta e il sentimento era reciproco. Però avevano una cosa in comune, JD. Così erano giunte a un tacito accordo: tu ignori me ed io ignoro te e siamo tutti più felici.
«Ehi, dolcezza!».
Honey sorrise.
«Ciao, Big D! Nuovo tatuaggio?».
Big D fletté il bicipite, sul quale una tigre nuova di zecca parve spiccare un salto, nonostante la pellicola trasparente che la imballava.
«Che te ne pare?».
«Stupenda!». Honey si guardò intorno. «Ma Patti non c'è?».
«No, oggi aveva una festicciola con le amichette, l’ha accompagnata Tiffany. Ah, senti, l’ho già detto a JD. Domenica prossima organizzo un barbecue a casa mia. Non credo ci sia bisogno di dirlo, giusto? Sei invitata anche tu».
Non c’era uno specchio, quindi non poteva esserne sicura al cento per cento, ma la probabilità che il suo sorriso fosse quello di una scema era molto alta.
«Oh, ehm, grazie».
Big D le fece l’occhiolino, poi si rivolse a Darla.
«Tu ci sei, giusto?».
«Non lo so. Gregory c’è?».
«Porca puttana, ma allora è vero! Gregory mi ha fatto la stessa domanda, al telefono. Voi due avete…».
Darla roteò gli occhi.
«Fatti i cazzi tuoi».



«Tu sei sicura che io non te ne abbia mai parlato, giusto?».
«Sicurissima. Forse è un tuo super potere, JD. Vedere i tatuaggi sulla pelle della gente prima ancora che alla gente venga l’idea di farseli. Sei una specie di super eroe dei tatuaggi».
«Ah, allora è per questo che sulla tua fronte vedo la scritta scema. Appena finisco con questo, mi metto subito al lavoro lì».
«Sei proprio uno stronzo».
JD rise, senza perdere la concentrazione sul polso di Honey. L’ago ronzava e nel frattempo, sotto le sue dita, l’intreccio di rovi e rose cresceva e si arrampicava lungo il braccio. Questa volta non solo nella sua immaginazione, ma per davvero.
«Allora lo faccio arrivare a metà avambraccio, giusto?».
«Sì. Deve arrampicarsi a poco a poco. Ad ogni nuovo traguardo raggiunto».
«Se scegliere il corso di studi è stato il primo, allora per quando avrai ottenuto la laurea, sarai diventata un cespuglio di rovi vivente».
Honey ammiccò, maliziosa.
«Un cespuglio di rovi molto attraente».
Con la mano libera gli accarezzò il serpente sull’avambraccio, come se stesse accarezzando qualcos’altro. Il brivido rovente sulla schiena rischiò di fargli scappare la macchinetta e di deturpare per sempre quel miracolo anatomico che aveva sotto le dita.
«Fai la brava, non voglio farti un buco sulla pelle».
«Perché ho una pelle bellissima, vero? Che ti fa impazzire».
I suoi occhi da gatta puntavano il ragno sul collo, come se avesse intenzione di baciarlo proprio lì, tra una zampa e l’altra. E poi scendere giù, far scorrere la lampo della felpa, scostare il tessuto e…
JD spense l’ago, coi nervi a fior di pelle.
«Cazzo, Honey! Ci tieni o no a questo tatuaggio?».
«Sì, scusa».
L’ago tornò a ronzare. Era divertente vederla seduta impettita, mentre si mordeva la lingua per non parlare. Proprio come la prima volta che l’aveva tatuata.
«Perché solo il polso destro?», chiese JD per farla parlare e per dimostrare che non era arrabbiato con lei.
Honey colse l’occasione al volo.
«Perché è il tatuaggio destro che tocco sempre, quando mi serve il coraggio di mio padre. Forse vederlo crescere a poco a poco insieme a me mi aiuterà a sentirmi più sicura e più forte. Sai, credo funzioni come un innesto».
JD inarcò un sopracciglio.
«Cioè?».
Lei esitò un istante. Se avesse avuto il polso libero, se lo sarebbe sicuramente massaggiato.
«Me l’ha spiegato mia madre, ma all’inizio non avevo capito. Prendi la parte di una pianta, la applichi su un’altra e… be’, è un po’ un terno al lotto, non puoi prevedere cosa ne verrà fuori. L’unica certezza è che il risultato sarà qualcosa di completamente nuovo, simile ma diverso alle piante originarie. Ecco, la fascia rossa sul mio polso è l’innesto, rappresenta quello che ho assorbito da mio padre. L’intreccio di rovi e rose, invece, è la pianta nuova. Nessuno può dire in anticipo come diventerà, crescendo, perché anche se ha accettato l’innesto e di certo non lo rigetta, non è mica detto che debba seguirlo alla lettera».
JD spense di nuovo l’ago.
«Nessuno tranne me. Dimentichi il mio super potere. Io l’ho già visto, come diventerà».
Honey si morse il labbro.
«Vuoi farmi uno spoiler?».
JD le portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«Sarà un intreccio di rovi di quelli pericolosi, che se ci caschi dentro è la fine. Perché più cerchi di liberartene, più ti graffia e ti tiene impigliato alle sue spine. Sarà coriaceo, tenace e impossibile da estirpare».
Lo champagne negli occhi di Honey frizzava.
«Se provo a baciarti mi sgridi di nuovo?».
JD sorrise.
«Assolutamente no».



«JD, non sono sicura che sia una buona idea».
«Cazzate. Avanti, entriamo».
Venerdì sera. JD aveva chiesto a Darla se le andava di fargli compagnia al Coyote Club. Lei gli aveva risposto se per caso non si era tatuato anche il cervello, oltre che il corpo. Lui l’aveva spinta in auto ridendo.
Non c’è l’esibizione della tua baby-fidanzata, stasera?
Tra un’ora. C’è giusto il tempo per il solito goccetto in onore di Wile.

Il Coyote Club era moderatamente vuoto, probabilmente la banda non si era ancora ripresa dalle recenti perdite al cantiere e dagli arresti. Darla si strinse al fianco di JD, guardandosi intorno con aria terrorizzata. Non c’era traccia di Halona. Quando si rese conto che si stavano dirigendo verso il bancone, cercò di trattenere JD per un braccio. Con scarsi risultati, purtroppo.
«No, JD. Lì no. Prendiamo un tavolo in fondo. Uno dei più nascosti e imboscati, possibilmente».
Ovviamente lui non le diede retta e si sedette al solito posto, accanto allo sgabello preferito di Wile. A Darla non rimase altro da fare che imitarlo, bestemmiando sottovoce.
«Finirò ammazzata per colpa tua».
Shiriki sul palco stava cercando di alleggerire l’atmosfera luttuosa costringendo una ragazza castana a cantare Summertime. La poveretta aveva le guance rosse di vergogna e sembrava sull’orlo delle lacrime.
«Cristo, non gli è ancora passata la fissa per il karaoke?».
«E mai gli passerà».
«Chi è la sfortunata?».
«La nuova barista».
«Se l’è già scopata?».
«No». Darla sussultò. Non era stato JD a rispondere all’ultima domanda. Ma Halona. Una Halona incazzata nera, per la precisione. «Pago profumatamente una gallina per servire ai tavoli e alla fine sono sempre io quella che sgobba. Come cazzo è possibile?».
JD sorrise.
«Un bicchiere di Grey Goose, un boccale di birra scura doppio malto e… Darla, tu cosa prendi?».
Darla gli lanciò un’occhiata, cercando di comunicargli col pensiero che doveva essere pazzo se pensava che Halona l’avrebbe servita. Era un miracolo che non l’avesse ancora cacciata a calci in culo dal club, a dire il vero. Ma i secondi passavano e Halona non aveva ancora detto nulla. Se ne stava con le mani appoggiate al bancone e la fissava con un’espressione seccata.
«Allora? Ti muovi? Ho altre ordinazioni da prendere», abbaiò infatti.
«Ehm, un bicchiere di tequila».
«Alla buon’ora».
Quando Halona si fu allontanata, la faccia di Darla doveva essere molto eloquente, perché JD prese a spiegarsi senza che lei gli avesse chiesto ancora niente.
«L’altra sera mi ha detto, testuale, “Di’ a quella puttanella della tua commessa che il suo allontanamento forzato dal Coyote Club è stato revocato”».
«E basta?».
«E basta».
«Nessuna spiegazione?».
«Nessuna spiegazione. Sarà stato qualcosa che le hai detto…».
Halona portò le loro ordinazioni, senza spiccicare parola. Nel frattempo la barista castana strillava sul palco come una gallina a cui stanno tirando il collo.
«Ma poi come cazzo ha fatto a cavarsela con la polizia?».
JD bevve un sorso del suo Grey Goose, posò il bicchiere e fece spallucce.
«Come vuoi che abbia fatto? Alla Halona!».
«Cioè?».
«L’hanno interrogata e lei ha raccontato che i Polacchi le chiedevano il pizzo, che la polizia non faceva il suo dovere, che non si sentiva tutelata e che quindi era stata costretta ad andare al cantiere per pagare. Nessuno ha potuto contraddire la sua versione, perché nessuno l’ha vista sparare. È finita che a momenti il Capitano della polizia chiedeva scusa a lei. Halona è astuta come un coyote, cade sempre in piedi».
Darla scoppiò a ridere.
«Simpatica come la merda, certo. Però profonda stima per lei. Finalmente comincio a capire perché Shiriki non l’ha mai scaricata!».



Per tutta la sera si era impedita di avvicinarsi a lui.
Non era stata una missione particolarmente difficile da portare a termine, dato che lui era rimasto seduto sempre al bancone. Le era bastato rimanere fuori dal perimetro di tiro e fingere di non averlo visto. Peccato che con tutto quel bere prima o dopo una visita al cesso era d’obbligo. Lui c’era stato due volte. Sì, lo sapeva perché aveva solo finto di non averlo visto, in realtà lo aveva tenuto d’occhio. Sì, lo aveva tenuto d’occhio molto bene, perché si era accorta di come Kimberly lo puntava. Sì, aveva intercettato Kimberly prima che riuscisse a seguirlo nel cesso, poteva benissimo trovarsi qualcun altro da spennare come un pollo, grazie tante.
La terza visita al cesso avvenne poco prima della chiusura. Lo stava ancora tenendo d’occhio: aveva lasciato delle banconote a Thresh sul bancone, prima di alzarsi. Bene, voleva dire che era salva, una pisciata e si sarebbe tolto dai coglioni, finalmente. Sarebbe potuta tornare a casa senza fare cazzate.
«Qual è la tua scusa, stasera?».
Oppure no.
Martìnez sollevò lo sguardo dalle mani insaponate e sorrise.
«Questo è il bagno degli uomini».
«Sì, ma io sono il capo della sicurezza. A me tutto è concesso. Perciò rispondi alla mia domanda».
Lui si sciacquò le mani, se le asciugò sulla giacca e poi le infilò nelle tasche dei pantaloni. Portava il solito completo trasandato. Possibile che un poliziotto non potesse permettersi abiti nuovi?
«In effetti non ho una scusa, stasera».
«Così non va. Potrei pensare che stai mettendo in atto quel tuo progettino… ricordi? Quello del poliziotto infiltrato e della telecamera nascosta».
Lui si fece serio.
«Vuoi perquisirmi?».
Gli andò sotto a muso duro e lo spintonò contro il lavandino.
«Non provocarmi, sono ancora incazzata con te».
«Stavo facendo il mio lavoro».
Benedetta sbuffò.
«Lo so».
Cristo, c’era qualcosa di sbagliato in lei. Più Martìnez si comportava da sbirro irreprensibile, più a lei veniva voglia di sbatterlo contro la parete e strappargli quell’orribile completo di dosso. Dovette serrare i pugni per impedirselo. Martìnez se ne stava così tranquillo e sereno, schiacciato tra lei e il lavandino, con le mani in tasca. Ci mancava solo che si mettesse a fischiettare.
«E ti ho parato il culo, mi pare».
«So anche questo».
«La cosa non ti piace».
«Non mi piace essere in debito con uno sbirro».
Non le piaceva, ma la mandava su di giri.
«Tu non mi devi niente, Benedetta».
Gli occhi di Martìnez erano castani. No, non di cioccolato e quelle puttanate da romanzo rosa. Erano castani, un po’ annacquati dal whisky, leali e sinceri. Occhi che non sapevano mentire, nei quali persino una come lei, che non si fidava mai di nessuno, avrebbe potuto riporre la sua fiducia.
Lo acciuffò per il colletto della giacca e lo baciò. Con violenza, e possessione. Sapeva di whisky e dopobarba. Quando lo lasciò andare, Martìnez aveva il fiatone e le mani ancora in tasca. Benedetta non riuscì a trattenere un mezzo sorriso.
«Hai imparato a tenere le mani a posto, dall’ultima volta. Mi piacciono gli uomini che apprendono in fretta».
«Non è stato facile, credimi».
Benedetta stava già sfilando la cintura di Martìnez dalla fibbia.
«Allora meriti un premio».



«La rossa al bancone ti punta da più di un’ora».
Connor ripose la chitarra nella custodia e sollevò lo sguardo. L’esibizione si era conclusa da un pezzo, l’ora di chiusura era vicina. Per via di qualche tizio collassato sul pavimento e di due o tre ubriaconi ai tavoli, il Goldfinger sembrava a stento sopravvissuto a un rave party. Non c’era da sbagliarsi, quindi. Honey stava sicuramente parlando della tipa che sorseggiava un cocktail colorato al bancone, che aveva i capelli rossi e uno stacco di coscia vertiginoso. Connor scosse la testa.
«Seee, certo, come no».
«Ti dico di sì, non fa che guardare da questa parte. Chi dovrebbe puntare? Me?».
«Be’, può essere. Magari è lesbica».
Honey staccò i cavi delle casse, sbuffando.
«Non te ne va mai bene una. Si può sapere come deve essere la tua donna ideale?». Connor si morse la lingua a sangue, mentre Honey sbarrava gli occhi come folgorata da un'improvvisa illuminazione. «Oppure…».
Una gocciolina di sudore freddo gli scese lungo la tempia.
«Oppure cosa?».
«Oppure c’è già qualcuno».
Ricominciare a respirare fu un sollievo, peccato che non si fosse minimamente reso conto di aver trattenuto il respiro.
«No, non c’è nessuno».
«Andiamo, a me puoi dirlo!».
Connor sospirò, sconfitto.
«E va bene. Ci sarebbe, ma è fuori dalla mia portata. Contenta?».
«Be’, potresti…».
«No, non potrei. Discorso chiuso. Non parliamone più».
Connor era già pronto. Honey avrebbe sicuramente insistito e insistito e insistito, cercando di vincerlo per sfinimento. Ma lui non avrebbe ceduto per nessuna ragione al mondo, così avrebbero finito col litigare e non parlarsi per qualche giorno. Questa volta, però, lei lo colse di sorpresa, riprese a occuparsi delle casse senza aggiungere nulla.
«Scusa, Connor».
O quasi.
«Non ti devi scusare».
«No, non mi riferivo alla rossa ma… a quella storia del cinema, quando ti ho dato buca».
Ah, ecco. Connor si grattò la nuca, a disagio. In realtà non ci aveva pensato più. E adesso che lei tirava fuori l'argomento, scopriva che lo lasciava... indifferente.
«Non preoccuparti, è acqua passata».
Honey si stava massaggiando il polso, mordendosi il labbro.
«Sì, ma non ti ho mai chiesto scusa».
«Be’, tu non lo fai mai in generale, quindi…».
«Lo so, infatti sto provando a cambiare il mio carattere da stronza».
«Uh, che bella novità!».
Honey si imbronciò e lo colpì sulla faccia con uno spartito. Risero entrambi. Poi Ben li sgridò, perché non avevano ancora finito di mettere a posto la loro roba. Così tornarono a lavoro, sghignazzando sotto i baffi per via di Jonathan, che faceva il verso a Ben alle sue spalle.
«Hai bisogno di un passaggio per tornare a casa?», chiese Connor, quando anche l'ultimo amplificatore venne riposto nel furgoncino volkswagen.
«No, ho la moto. E poi non torno subito a casa».
Gli occhi di Honey si posarono su JD, che la stava aspettando fumando una sigaretta, accanto alla moto.
Domanda scema, Connor. Domanda davvero scema.
«Ah, capito».
«Però potresti offrilo a lei, il passaggio...».
Honey ammiccò e Connor inarcò un sopracciglio. La rossa li aveva seguiti fino al parcheggio e bighellonava accanto al furgoncino.
«Dai, piantata!».
«Uff, quante prove ti servono?».
«Ho detto di piantarla».
«Come vuoi». Gli diede un bacio sulla guancia. «Ci vediamo dopodomani, al garage di Ben».
«D’accordo».
La guardò correre verso JD, poi decise che era meglio non affondare il coltello nella piaga e voltare le spalle alla scenetta romantica che si sarebbe sicuramente consumata di lì a poco. Intanto la rossa era ancora là, studiava il furgoncino con l’occhio critico dell’esperta. E porca puttana se erano lunghe quelle gambe!
Tentar non nuoce, si dice. E tentiamo, allora!
«Ehi, stavi cercando di fregarmi il furgoncino o ti serviva un passaggio?».
Aveva un sorriso rosso fuoco, come i suoi capelli.
«Entrambe le cose, in realtà. Questo furgoncino è una figata!».
Connor sorrise di rimando.



Vedendosela arrivare incontro, JD diede un ultimo tiro alla cicca e poi la lasciò cadere per terra, schiacciandola con la punta degli anfibi.
«Possiamo andare?».
«Sì, certo». Honey fece per prendere le chiavi dalla… dove cazzo era finita la borsa? «Merda, ho dimenticato la borsa al Goldfinger. Aspetta qui, faccio in un attimo».
JD sorrise.
«Tranquilla, non mi muovo».
Attraversò di corsa il parcheggio, deviò nel vicolo, spalancò la porta sul retro e per poco non cadde addosso a Marie Louise.
«Honey, stai attenta!».
«Oh, cacchio, scusa! Vado di fretta».
Marie Louise rise.
«Sì, l’avevo notato».
Honey ne approfittò per riprendere fiato.
«Stai tornando a casa?».
«Già».
«È tardi, perché non ti fai accompagnare da qualcuno, almeno fino alla fermata della metro? Te lo darei io, il passaggio, ma sono con la moto e ho dietro JD. Aspetta, forse facciamo in tempo a fermare Connor, lui ha il furgoncino e…».
Marie Louise la trattenne per un braccio.
«Non è necessario, tesoro. Ma grazie per il pensiero».
«Be’, nel parcheggio ho visto la Mercedes di mio zio. Perché non…».
«Perché no».
Honey serrò le labbra. Che teste quadrate che avete tu e mio zio! «Va bene». L’abbracciò di slancio, cogliendola di sorpresa. «Buona notte, Marie Louise».
«Buona notte, tesoro».
Pochi minuti dopo era di ritorno nel parcheggio.
«Recuperata la borsa? A chi stai mandando il messaggio?», chiese JD.
Concentrata sulla tastiera del cellulare, Honey scosse la testa.
«Dopo ti spiego».



La babysitter era stata pagata e congedata, Alex dormiva profondamente avvolto nel suo bozzolo di coperte. Marie Louise portò il borsone con gli abiti da lavoro in bagno e lo svuotò nella lavatrice: l’avrebbe azionata l’indomani, non voleva svegliare Alex.
Il getto bollente dell’acqua sulla pelle la fece tornare come nuova in pochi minuti. Si avvolse in un grosso asciugamano e con i capelli che ancora gocciolavano, andò in camera da letto lasciandosi dietro una scia di orme bagnate.
Indossò il pigiama di flanella, un paio di pantofole e si diresse in cucina, dove riempì il bollitore con dell’acqua e lo mise sul fornello. Si sarebbe concessa una camomilla, poi a nanna. Nell’attesa prese a tamponarsi i capelli con un asciugamano.
Il campanello di casa suonò all’improvviso. Subito seguito da una scarica di colpi sulla porta. Marie Louise sussultò. Chi poteva essere a quell’ora? La scarica di colpi continuava, qualcuno sembrava deciso a buttare giù la porta.
«Marie Louise, sono io, apri!».
Spalancata la porta, Marie Louise non ebbe il tempo di fare o dire alcunché. Il Cardinale la spinse di lato ed entrò, guardandosi intorno con sguardo spiritato. Evidentemente non aveva trovato quello che stava cercando, perché si voltò in direzione di Marie Louise con espressione perplessa.
«Cosa è successo?», le chiese.
«Primo, abbassa la voce, Alex sta dormendo. Secondo, come sarebbe a dire “Cosa è successo?”. Caso mai dovrei essere io a chiederlo a te, non credi?».
«Mi hai mandato un messaggio».
«Che?».
«In cui dicevi di avere bisogno di aiuto».
Marie Louise scosse la testa.
«Deve esserci uno sbaglio, Cardinale. Non ho mandato nessun messaggio».
In tutta risposta lui estrasse il cellulare dalla tasca interna del cappotto e glielo porse. Sul display l’sms recava come mittente il numero di Marie Louise.
«Non è possibile, il mio cellulare è nella borsa. Non l’ho toccato da quando sono tornata a casa. Aspetta qui un secondo». Andò in camera da letto, frugò nella borsa e… Tornò in dietro, scuotendo la testa e sorridendo tra sé e sé. «Non trovo il cellulare. È sparito».
Il Cardinale inarcò un sopracciglio.
«E perché sorridi?».
«Perché so chi l’ha preso. E chi ha mandato il messaggio al posto mio».
«Chi?».
«Honey».
L’informazione impiegò qualche istante prima di raggiungere le sinapsi del Cardinale. Non appena i suoi occhi si illuminarono di consapevolezza, si lasciò cadere sul divano e si massaggiò l’attaccatura del naso, sospirando pesantemente.
«Ti farò riavere il cellulare al più presto».
«Non ti preoccupare, sono sicura che domani sera riapparirà nella borsa da solo, come per magia».
«Mi spiace, Marie Louise. Non so cosa le sia saltato in mente». Il Cardinale la guardò negli occhi e all’improvviso scattò in piedi, come un bambolotto a molla. «Perdonami, mi sono seduto senza nemmeno…».
«Non ti preoccupare, non è niente».
«È meglio che tolga il disturbo. È tardi e tu sarai stanchissima».
Proprio in quel momento, il bollitore prese a fischiare.
Marie Louise aveva smesso di credere nei segnali del destino da tanto tempo, ormai. Quindi di certo non fu il tempismo del bollitore a convincerla a trattenere il Cardinale per un braccio. E nemmeno il gesto da principe azzurro che corre in soccorso della fanciulla indifesa. Il romanticismo era per le ragazzine e le casalinghe. Lei invece era una donna adulta e molto vaccinata.
«Veramente… stavo preparando una camomilla. Ti va di farmi compagnia?».
Il Cardinale esitò un istante.
«D’accordo».



Mentre Carlisle si sedeva al tavolo della cucina, Marie Louise prendeva due tazze dallo stipetto sopra il lavello, le riempiva con l’acqua e vi intingeva due o tre volte una bustina di camomilla ciascuna. Quando le poggiò sul tavolo, le tazze fumavano e l’acqua era diventata di un bel colore dorato.
«Lasciala raffreddare un paio di minuti, è bollente».
«Okay, grazie».
Bevvero in silenzio. O meglio, Marie Louise bevve. Carlisle si limitò a stringere la tazza con entrambe le mani e a fissarla con sguardo grave.
«Cosa c’è che non va?».
«No, niente».
Azzardò un sorso, per farla contenta, ma non riuscì a trattenere una smorfia. Marie Louise ridacchiò.
«Sembri mio figlio quando lo costringo a mangiare gli spinaci. Se non ti piaceva, perché non l’hai detto subito? Ti avrei offerto qualcos’altro».
«Non volevo essere scortese».
E sfidare la sorte. É già un miracolo che tu mi abbia chiesto di restare.
Intanto Marie Louise si era alzata senza dire niente. Aprì lo stipetto sopra al frigorifero, quello più in alto, probabilmente quello che Alex non poteva raggiungere nemmeno salendo su una sedia, e tornò al tavolo con un bicchiere e una bottiglia di whisky.
Carlisle sorrise.
«Mi conosci bene».
«Tutti al Goldfinger sanno che il whisky è il tuo preferito».
La studiò di nascosto, mentre gli versava il liquore nel bicchiere. Sembrava serena. Lo era sempre, in realtà, perché non era quel tipo di donna che si lasciava andare all'autocommiserazione. Ma era sempre stata una serenità rassegnata, la sua. Come quella di chi si è abituato a vivere al buio. Adesso, invece, una piccola fiammella rischiarava la notte, un passo alla volta.
«Come va con il corso?», le chiese.
«Ho appena iniziato, è ancora presto per dirlo». Fece spallucce, mentre tornava a sedersi. «Però mi piace, sono entusiasta».
«Quindi… qual è il tuo progetto? Aprire un salone tutto tuo?».
«No, non sono così ambiziosa. Mi accontento di essere assunta da qualcuno, così finalmente potrò guadagnarmi da vivere onestamente».
Carlisle fece roteare il liquido ambrato nel bicchiere, sovrappensiero. Marie Louise bevve un lungo sorso di camomilla, come per concedergli tutto il tempo di cui aveva bisogno.
«Stavo pensando…», disse finalmente. «Mia sorella frequenta spesso un salone di bellezza piuttosto grande e avviato. Potrei chiederle di…».
«Cardinale, no. Grazie, ma no».
«Prima di rifiutare potresti almeno ascoltare la mia proposta, no?».
Marie Louise poggiò la tazza sul tavolo. Come il martelletto del giudice appena prima della sentenza.
«Te l’ho già detto, non voglio essere in debito con te».
«Non saresti in debito con me, ma con mia sorella. Tu hai bisogno di fare pratica e di entrare nel giro. E se la sorella di un amico può darti una mano, che male c’è ad accettare? Pensa che lo stai facendo per tuo figlio, no?».
«Cardinale, noi non siamo amici. Ne abbiamo già parlato».
«Lo so, Marie Louise. E tu devi dare la precedenza ad Alex. Quando ti ho detto che capivo, non mi riferivo a quello che stava succedendo con Honey. Non solo. Stavo pensando a mia madre, che ha sacrificato tutta la sua vita per darne una dignitosa a me e a mia sorella». Carlisle mandò giù il whisky tutto in una volta, aveva bisogno di farsi coraggio. Poi prese un respiro profondo e la guardò dritto negli occhi. «In un’altra situazione, se fossimo state persone diverse, ti avrei corteggiata, ti avrei regalato dei fiori e ti avrei invitata a cena. Questa però non è un’altra situazione e noi non siamo persone diverse. So che non accetteresti mai di venire a cena con me. Quindi permettermi almeno di aiutarti e di esserti vicino come amico».
Marie Louise cercò di nascondersi dietro la tazza, ma era vuota ormai. La ripoggiò sul tavolo, a disagio.
«Non so che dire».
«Di’ di sì. E se proprio vorrai sdebitarti con mia sorella, le acconcerai i capelli gratis».
Se solo non fosse così orgogliosa e cocciuta... No, invece. Non sarebbe più lei.
Marie Louise prese la bottiglia di whisky, ne versò due dita nella sua tazza e altre due nel bicchiere di Carlisle. Poi sollevò la tazza, a mo’ di brindisi.
«Gratis e a vita».
Lui fece altrettanto col bicchiere.
«Gratis e per tutto il tempo che riterrai opportuno».
Bevvero alla goccia per ratificare l’accordo.



Il mazzo di chiavi tintinnava allegramente, mentre clock clock JD faceva scattare la serratura della porta del suo appartamento. Gli veniva difficile chiamarlo semplicemente casa. Ci stava così poco, lì dentro, giusto per dormire e ingurgitare una colazione veloce. Casa era il suo negozio di tatuaggi. Casa sono le persone a cui tengo, diceva Wile.
Eppure si stava instaurando una piacevole routine, la sera, quando rientrava. Spalancata la porta, Honey si fiondava come un petardo impazzito in cucina con le sporte da asporto del Los Pollos Hermanos. Nel frattempo lui appendeva chiavi e giubbotto all’attaccapanni, si legava i capelli con l’elastico che teneva in tasca, si toglieva le scarpe e a piedi nudi raggiungeva Honey, che lo rimbeccava sempre perché era troppo lento.
«Avanti, sbrigati che ho fame!».
Per l’appunto.
Lei stava già apparecchiando, dove per apparecchiare si intendeva aprire le sportine e inspirare a pieni polmoni l’odore fragrante e unto del pollo fritto con sguardo da lupo famelico. JD prese le posate dal cassetto e le mise a tavola.
«Oggi al negozio non abbiamo avuto tempo di parlarne… è andata bene con tuo padre?».
Honey distolse l’attenzione dal pollo e prese posto sulla sedia.
«Sì. E non tanto per dire, l’ho trovato davvero sereno. Non è una cosa strana?».
JD fece spallucce, sedendosi davanti a lei e prendendo la sua porzione di pollo.
«Non lo so, Honey. Non lo dico per lavarmi la coscienza, la mia coscienza non sarà mai a posto, ma… forse tuo padre aveva solo bisogno di sentirsi in pace con se stesso, e adesso a quanto pare lo è».
«Sì, hai ragione. Credo che più o meno intendesse questo, oggi. Ha solo usato parole diverse».
Mangiarono il pollo in silenzio. A JD non era mai dispiaciuto il silenzio. Prima di conoscere Honey, ci aveva passato ore intere, in silenzio, senza mai trovarsi male. Adesso, chissà perché, provava una specie di disagio, come stare seduto sui carboni ardenti. In compagnia di Honey il silenzio diventava un’entità artificiosa.
«Abbiamo dimenticato il dolce», disse quasi meccanicamente.
«Be’, a quello si può rimediare, no?». Honey ammiccò, maliziosa, facendolo ridere. «Ma prima devo darti una cosa».
«Intendi, oltre al dolce?».
Divenne immediatamente rossa.
«Scemo. Chiudi gli occhi, arrivo subito».
JD inarcò un sopracciglio, ma obbedì. Sentì i suoi passi allontanarsi velocemente e poi, dopo qualche istante di silenzio, tornare indietro di gran carriera. Qualcosa di pesante venne posato sul tavolo.
«Adesso puoi aprirli».
JD non si limitò ad aprili, lì sbarrò completamente.
«Ma questa è… Pensavo di averla persa, dove l’hai trovata?».
Honey, in piedi accanto al tavolo, sorrideva raggiante.
«L’ha recuperata mio padre e me l’ha affidata prima di… be’, lo sai. Solo che gli mancava tutta la parte superiore, così l’ho fatta riparare».
Ancora incredulo, JD impugnò Gina per guardarla da più vicino. Il frassino di cui era fatta era tornato liscio e immacolato, profumava di cera. Si intravedeva solo una sottilissima linea di congiunzione tra la parte nuova e quella vecchia.
«Il tizio che l’ha sistemata ha usato lo stesso tipo di legno», spiegò Honey. «Ha detto però che non sarebbe tornata mai più come prima. Magari potresti appenderla al negozio, sopra al bancone. Se l’è merita, in fondo, la pensione, non credi anche tu?».
Altroché se se l’è meritata.
Honey non prese a massaggiarsi il polso solo perché il tatuaggio era ancora fresco. In compenso si morse il labbro.
«Ho fatto male? Forse preferivi…».
«Scherzi? È un pensiero bellissimo. Lo sai quanto ci sono affezionato. Non so come ringraziarti!».
«È il minimo, dopo quello che hai passato a causa mia».
JD poggiò nuovamente Gina sul tavolo, afferrò Honey per un braccio e la fece sedere sulle sue ginocchia.
«Honey, ascolta…».
«Sì, lo so lo so, non devo sentirmi in colpa, me lo ripeti continuamente, ma non ho potuto fare a meno di pensare a quella volta davanti a quel diner, quando hai detto che sapevi che te ne saresti pentito...».
«Mi sbagliavo».
«…e poi c’era questa bellissima analogia con Narsil, la spada di Aragorn…».
«Nar… che?».
«Narsil. È stata spezzata in tre pezzi ed è stata rifoggiata a Gran Burrone. Non mi dire che non hai mai letto…».
«Honey…».
«Sì, hai ragione, sto cianciando come al solito».
JD le pizzicò il fianco.
«Mi piace quando cianci, mi hai fatto un bellissimo regalo, domani appenderò Gina sopra il bancone, a Wile piacerà un sacco, e non sono affatto pentito, quella volta davanti a quel diner mi sbagliavo. Adesso posso avere il mio dolce?».
Honey divenne di nuovo rossa e sbuffò.
«Te l’ho già detto che sei scemo?».
Anche dopo il dolce si era instaurata una specie di routine. Rimanevano sdraiati fianco a fianco, sotto le coperte. Se le palpebre non cedevano, JD si metteva a lavorare alle sue bozze e Honey cercava con scarsi risultati di tenere la bocca chiusa per non disturbarlo.
Il silenzio non si addiceva a Honey, JD era abbastanza taciturno per entrambi. Quando Honey non c’era, sentiva la mancanza delle sue chiacchiere. E poi, in tutta onestà, si era stancato del silenzio della sua vita da un pezzo ormai. Forse per questo motivo, prima, aveva provato quella strana sensazione di disagio.
«Ti è rimasta una cicatrice, proprio qui», disse lei, picchiettandogli il mento con l’indice. «Potresti coprirla con un tatuaggio».
Lui scosse la testa.
«No, la faccia è l’unica parte del corpo in cui non ho intenzione di farmi tatuare. Però stavo pensando di farmi crescere il pizzetto, che ne pensi?».
«Penso che non sarò certo io fermarti. Invece, a proposito di tatuaggi… che ne dici di mettere via quell’album da disegno?».
«Perché?».
«Perché ti sto immaginando col pizzetto e la cosa mi piace da matti».
La voglia di saltarle addosso ora e subito era tanta, ma cercò di controllarsi, perché la voglia di provocarla era maggiore.
«Ancora un minuto».
L’indice di Honey fece no no davanti al suo naso.
«Spiacente, qui siamo a casa e a casa non si parla di lavoro».
«Casa mia è il negozio di tatuaggi, Honey. Questo è solo il posto in cui dormo».
«Be’, di tanto in tanto ci porti me. Ci scopi, con me. E ci mangi, anche, con me. Mi hai dato perfino una copia delle chiavi! Se non è casa questa…». Honey aggrottò la fronte. «Che c’è, che ho detto?».
Casa sono le persone a cui tengo.
JD sorrise. L’album da disegno finì per terra, insieme alla matita.
«Niente, hai ragione. A casa non si parla di lavoro».
Si era proprio sbagliato quel giorno davanti a quel diner.



Zachariasz aveva fatto amicizia col suo compagno di cella la seconda sera. Aveva appeso la foto di Honey alla parete sopra la sua brandina e Chad, nel vederla, aveva fischiato con sguardo ammirato.
«Che cazzo, amico! Una sventola da paura, quella lì. Dove bazzica? Quando esco di qui mi piacerebbe farle una visitina».
Zachariasz si era voltato verso di lui lentamente, molto lentamente. Chad non era stupido, ed era indietreggiato di un passo.
«Quella è. MIA figlia. Coglione».
Poi Chad si era fatto un sonnellino sul pavimento, con lo zigomo sinistro un po’ più rosso e gonfio di quello destro. Quando era rinvenuto, aveva chiesto scusa a Zachariasz, e da allora erano diventati ottimi amici.
Gli altri detenuti non erano un problema. Honey aveva ragione, i suoi tatuaggi erano davvero magici. Non appena li metteva in mostra, la gente evaporava come neve al sole. Ogni tanto si imbatteva in qualcuno della vecchia squadra di persuasione, ma quando capitava, si limitavano a salutarsi con un cenno del capo, come vecchi amici che sanno di non avere più niente da dirsi se non “Ciao, come va?”.
Tutto sommato Chad era un buon compagno di cella, anche se chiacchierava a ruota libera, pure mentre dormiva. Chissà come, riusciva a fargli avere tutto quello di cui aveva bisogno. Come la piccola torcia a batterie, ad esempio. Le luci nella cella venivano spente molto presto, la sera. Zachariasz non riusciva a prendere sonno prima delle undici, così la torcia gli era molto utile per ammazzare il tempo a suon di libri. La biblioteca della prigione era molto fornita.
Quella notte, però, era un’altra la lettura alla quale aveva deciso di dedicarsi.


Quesito n° 10: Come e dove ti vedi tra dieci anni?

La prima volta che ho letto questo quesito, d’istinto avrei risposto “Che cazzo di domanda!” “Ed io che cazzo ne so?” “Ed io come faccio a saperlo?”. Dieci anni sono un tempo infinito, soprattutto per una come me, che non sa nemmeno cosa mangerà a cena.
Questa domanda mi ha veramente messa in crisi, nelle ultime settimane. Non si tratta di mancanza di immaginazione, non sarebbe un problema per me inventare quattro puttanate frasette ad effetto per ingraziarmi la vostra simpatia. Il punto è che si sta parlando del mio futuro e ancora purtroppo non riesco a vederlo in maniera nitida, ‘sto cazzo di questo futuro.
Fin da piccola ho vissuto in una teca di vetro, sono stati gli altri a prendere le decisioni difficili per me. Forse perché a ragione non mi ritenevano abbastanza matura per farlo. Oppure, più probabilmente, perché mi volevano bene e quando si vuole bene a una persona si cerca di proteggerla, sempre e comunque. In ogni caso, quasi certamente è per questo motivo che oggi sono una bambina viziata ho difficoltà a decidere da sola a cuor leggero e a immaginare un futuro diverso da quello che gli altri avevano previsto per me.
So che adesso vi aspettate la svolta brillante, che mi farà apparire ai vostri occhi come la studentessa più promettente che abbiate mai avuto la fortuna di incontrare. E non potete capire quanto io per prima vorrei che fosse così. La verità invece è che una risposta a questo cazzo di quesito non l’ho ancora trovata.
Però ci sto lavorando.
Non so se qualcuno di voi abbia mai visto come lavora un tatuatore. Prima di poter posare l’ago sulla pelle, è essenziale scegliere il soggetto. Dopo di che, si passa a disegnare la bozza del tatuaggio. Qualunque tatuatore, anche il più incapace meno bravo, vi dirà che raramente il tatuaggio finale, quello che ti ritrovi sulla pelle, ha qualcosa a che fare con la primissima bozza. Soprattutto se al tatuatore capita un cliente rompiballe indeciso. Ecco, io sono la classica cliente stronza indecisa, il mio futuro tra dieci anni è la bozza del suo tatuaggio.
Intanto ho scelto il soggetto, che non è cosa da poco.
Ho deciso di studiare legge. Mi piacerebbe diventare un avvocato penalista, perché se c’è una cosa che ho imparato dalla mia famiglia, soprattutto da mio padre, è che giusto o sbagliato sono solo concetti relativi. È giusto che un uomo si prenda la colpa di un crimine che non ha commesso per salvarne un altro? È sbagliato voler bene a un padre anche se in passato ha fatto cose di cui non va fiero? Il mondo non è bianco e nero, e in questo particolare momento della mia vita sento che mi piacerebbe aiutare chi vive nel grigio.
Come ho già detto, si tratta solo di una bozza.
Non è detto che non apporti delle modifiche durante la fase di progettazione. Che piacciano o no al E non importa cosa ne penserà il tatuatore, perché artista o no il tatuaggio sulla pelle me lo devo tenere io, non lui.
Come e dove mi vedo tra dieci anni ancora non lo so, dunque.
Posso assicurarvi, però, che sarò esattamente come e nel posto in cui io, e soltanto io, vorrò ho deciso di essere.



Zachariasz si passò il dorso della mano sugli occhi, poi ripose il foglio nella cartelletta di Honey, insieme a tutti gli altri. Col sorriso sulle labbra, spense la torcia.
«‘Notte, Chad».
«Buonanotte, Zachariasz».
Sì, quella era proprio una buona notte.







_____________







Note autore:
Questo era l'ultimo capitolo.
Prima dei saluti…
Se siete curiosi di scoprire come è proseguita la serata di Connor, potete dare uno sguardo a questa one-shot: Misunderstanding.
Se invece non ne avete ancora abbastanza di JD e Darla, Pavoni & Giarrettiere è un prequel che racconta di come questi due personaggi si sono conosciuti.
Infine vi consiglio lo spin off Pornoromantico di Dragana, che parla del primo appuntamento di Big D e Tiffany. Risate e pornoromanticismo garantiti.
EDIT del 18/04/2014 - Dragana ha scritto un altro simpaticissimo spin-off, con protagonista Darla: Gatte Randagie.
E adesso…
Non sono brava con i saluti e i ringraziamenti. JD mi ricorda che secondo Wile era meglio rimanere in silenzio quando non si aveva niente di originale da dire. Ma Wile e JD sono due orsi di poche parole da non prendere come esempio, perciò cercherò di fare del mio meglio cominciando dalla parola più scontata.
GRAZIE.
A Dragana, a OttoNoveTre, a Jakefan e a tutto il gruppo NaNoWriMo for Dummies: sfida di scrittura!, perché senza il loro aiuto questa storia non esisterebbe.
A tutti voi, che vi siete lasciati intrattenere da questo racconto di poche pretese. La funzione di una storia è principalmente questa: intrattenere. Spero, nel mio piccolo, di esserci riuscita.
Intanto sono contenta di aver condiviso con voi il mondo di JD, Honey, Darla e compagnia. Una mia compagna di scrittura una volta ha detto che condividere le proprie storie su EFP è come mettere i propri giochi in un cesto e lasciare agli altri bambini la possibilità di giocarci. Ho sempre pensato che la metafora fosse azzeccatissima: oltre alla gioia della condivisione, infatti, devi mettere in conto la possibilità che il giochino non piaccia a tutti o che un bambino lo rompa. E un piccolo rischio che secondo me vale sempre la pena correre. Se non avessi condiviso il mio giochino con voi, non avrei mai letto le vostre bellissime recensioni. Se non avessi cominciato a mettere i miei giochini nella cesta, non avrei conosciuto tante belle persone.
Grazie di cuore.
Alla prossima.
   
 
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