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Autore: Kiki75    08/04/2014    3 recensioni
Stoick avrebbe scommesso il suo elmo che quello che Sdentato provava nei suoi confronti era identico a ciò che lui provava nei confronti della bestia: erano accomunati dall’affetto che li legava a Hiccup, entrambi in attesa del suo risveglio, ma questo non era sufficiente a renderli amici, e forse mai lo sarebbe stato. (seguito ideale di "Fragile" e "Fading Lights")
Genere: Drammatico, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hiccup Horrendous Haddock III, Sdentato, Stoick, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Picking up the pieces'
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Tears of Stone
Tears of Stone



Dopo avere arso il corpo di Hiccup per una settimana a una temperatura pericolosamente elevata, la febbre iniziò infine a scemare, per poi abbandonarlo nel giro di due giorni.

Il ragazzo però non dava alcun segno di ripresa. Al contrario, mentre nei giorni precedenti aveva spesso cambiato posizione e parlato nel delirio, sovente chiamando Sdentato o gracchiando frasi incoerenti, tre giorni dopo la scomparsa della febbre giaceva ancora immobile nel letto, pallido e fragile come non mai, il lieve alzarsi e abbassarsi del torace nella respirazione come unico segno di vita.

Granbestia, che visitava il nipote mattino e sera, era più meravigliato dal fatto che Hiccup fosse ancora vivo che dal suo stato attuale.

“Hic è tutt’altro che robusto, lo sai”, spiegava a Stoick. “Tutto quello che ha passato in questi giorni ha esaurito le sue riserve di energia, e il suo corpo sta cercando di recuperarle dormendo.”

Ma Stoick era preoccupato. Hiccup non sarebbe stato il primo che dal semplice sonno scivolava in un coma dal quale era poi impossibile riportarlo indietro.

“Credimi, le prove peggiori le ha già superate”, replicava Granbestia. “Per ora, dagli tempo.”

Ma quanto a lungo avrebbe potuto resistere Hiccup in quello stato?

Il suo grasso corporeo era ai minimi termini, ma il pericolo più grave, Stoick lo sapeva anche senza essere medico, era la disidratazione. Quando era stato in preda alla febbre, Hiccup era riuscito a bere qualche sorso di acqua, brodo o latte, ma adesso era impossibile somministrargli qualcosa di più che piccoli cucchiaini di liquido alla volta.

Stoick era diventato un provetto infermiere. Cambiava posizione al figlio per evitargli dolorose piaghe da decubito (il corpo del ragazzo era già devastato a sufficienza), gli somministrava i medicinali all’ora giusta e quanti più liquidi possibile, aspettando pazientemente che il ragazzo li deglutisse, gli cambiava i bendaggi medicando le ferite come il fratello gli aveva insegnato. E sedeva accanto a lui, in silenzio, tenendogli la mano sempre più scarna, che scompariva nelle proprie, o carezzandogli i capelli ora unticci e privi di vigore, impedendosi di pensare, perché abbandonarsi ai pensieri era troppo doloroso, e comunque Hiccup non era morto, era solo addormentato, e Granbestia diceva che per ora tutto era sotto controllo, quindi non c’era niente da temere, no?

Quando Stoick era fuori, impegnato nei propri doveri di Capo – ora aumentati, da quando Morte Verde aveva completamente incenerito la flotta navale, che andava ricostruita il prima possibile per non lasciare Berk guarnita soltanto di piccole imbarcazioni da pesca, nonché da quando i draghi avevano iniziato ad avvicinarsi cautamente al villaggio e si era reso necessario costruire delle tettoie e dei ripari anche per loro – c’era sempre qualcuno a sostituire il suo posto accanto al ragazzo: da molte delle donne del villaggio, che ben sapevano come prendersi cura di un ferito, ai coetanei di Hiccup, che gli parlavano e gli tenevano compagnia, per quanto possa essere possibile tenere compagnia a una persona addormentata: Astrid Hofferson era la più assidua, spesso da sola, al pari di Moccicoso; i gemelli Thorston sempre in coppia, e Gambedipesce Ingerman, che talvolta portava con sé un mazzo di fiori per l’amico, o un libro da leggergli a voce alta.



“Se la caverà, stai tranquilla”, asserisce Moccicoso, sicuro di sé come al solito. E’ appoggiato alla parete vicino alla finestra, e Stoick, di ritorno da una giornata impegnativa, può udire chiaramente le sue parole. “Hic è uno tosto.”

“Smettila di fare l’ipocrita”, la voce di Astrid è tagliente come una lama. “Fino all’altro giorno lo chiamavi Hiccup l’Inutile.”

“Senti chi parla. Tu nemmeno lo calcolavi, e d’improvviso è diventato Mister Eroe… giusto perché ha ammaestrato una Furia Buia invece di ammazzarla, come avremmo fatto tutti.”

Un fruscio di abiti, come qualcuno che si alza da una sedia. Poi di nuovo Astrid, in un sibilo: “Ti ho detto di piantarla, Facciadimoccio, altrimenti ti spacco quel grugno da maiale.”

“Calmati, Astrid”, la voce di Moccicoso è meno tronfia, ora, più condiscendente. “Sono successe troppe cose troppo in fretta… siamo tutti sottosopra, è normale che diciamo delle cose che non vogliamo dire davvero.”

Un sospiro. Poi Astrid, ferma: “Hiccup ha dimostrato di essere migliore di tutti noi messi insieme. E’ riuscito a fare amicizia con un drago, mentre noi pensavamo solo a sterminarli, e ha combattuto contro quell’orrore tutto da solo, mentre noi stavamo lì a guardare. Bei guerrieri siamo stati… e begli amici.”

Qualche secondo di silenzio, pesante e imbarazzato.

“Hai ragione”, conviene Moccicoso. “Credo… credo che gli dovremo delle scuse, se si risveglierà.”

Quando si risveglierà”, corregge Astrid.

Quando si risveglierà”, ripete Moccicoso.

“Per quello che potranno servire”, termina Astrid, mesta.



L’unico che non si allontanava mai dal proprio posto accanto al letto di Hiccup, che Stoick aveva spostato vicino al fuoco al piano terra, era Sdentato.

Stoick trovava la presenza della Furia Buia per certi versi inquietante. Per tutta una vita aveva combattuto i draghi, e ora si trovava a dividere l’abitazione con uno degli esemplari più temuti e pericolosi della specie.

Sdentato era guarito dalle ferite incredibilmente in fretta, e altrettanto incredibilmente, malgrado la mole, si era rivelato una presenza silenziosa, capace di scivolare in mezzo alla mobilia sfiorandola appena, senza fare alcun rumore. Trascorreva le sue giornate al capezzale di Hiccup, spesso appoggiandogli il grosso muso accanto al corpo e facendo le fusa, nutrendosi del pesce che gli portavano Astrid e gli altri ragazzi e dormendo acciambellato sul tappeto ai piedi del letto. Quanto a Stoick, si limitava ad osservarlo, con quei suoi grandi occhi verde erba e l’espressione interrogativa e intelligente, seguendo silenziosamente ogni sua mossa all’interno dell’abitazione senza però interagire con lui in nessun altro modo.

Stoick avrebbe scommesso il suo elmo che quello che Sdentato provava nei suoi confronti era identico a ciò che lui provava nei confronti della bestia: erano accomunati dall’affetto che li legava a Hiccup, entrambi in attesa del suo risveglio, ma questo non era sufficiente a renderli amici, e forse mai lo sarebbe stato. Il divario era troppo grande: per il momento, la loro era una strana, delicata tregua, che tutti e due stavano bene attenti a non rompere, e che si sarebbe tramutata in pace – forse – solo allorché Hiccup si fosse ripreso.



Hiccup è stato appena medicato e rivestito e giace, pallidissimo e incosciente, fra le braccia di Stoick, inginocchiato vicino al fuoco. Sdentato è sempre acciambellato accanto al ragazzo, lo sguardo vigile e preoccupato.

Granbestia si toglie il mantello di pelliccia e vi avvolge il nipote con gesti pratici ma delicati, muovendolo il meno possibile. “Ora, bisogna trovare un modo per portarlo a casa”, dichiara.

“Le navi sono tutte andate”, azzarda Grankartone, voltandosi verso la spiaggia, dove quel poco della flotta che non è già affondata è in preda alle fiamme.

“Stoick”, fa Granbestia, tetro. “Hiccup non può restare qui. Ha bisogno di un letto caldo e di cure adeguate.”

Stoick stringe a sé il figlio, come per proteggerlo da quelle parole che suonano come una sentenza di morte. Sa benissimo che quanto più Hiccup rimane lì, su un letto di sassi, in quell’isola fredda e inospitale, dall’aria malsana e polverosa, senza assumere le dovute medicine, tanto più la sua sorte sarà segnata e l’amputazione a cui è stato sottoposto sarà stata inutile.

Ma come fare?

Le navi sono distrutte, non è rimasta legna a sufficienza neppure per una zattera. E su quell’isola non c’è l’ombra di un albero.

Stoick si volta verso i suoi guerrieri, che ora sono silenziosi, in attesa delle sue parole. Ma il Capo non guarda i suoi uomini. Guarda i quattro draghi che hanno accompagnato lì Hiccup e i suoi amici: un grosso Gronkio marrone che sta facendo le fusa a Gambedipesce Ingerman, che lo gratta sotto al collo; un multicolore Uncinato Mortale seduto dietro un’affranta Astrid Hofferson, intenta ad asciugarsi le lacrime, consolata dai gemelli Thorston; un Bizippo, le cui due teste stanno osservando tutto dall’alto dei lunghi colli, e un imponente Incubo Orrendo rosso fiamma, il più grande del gruppo, che non si sa come non abbia già incenerito Moccicoso, intento a dargli pacche sulla schiena.

I ragazzi hanno raggiunto l’isola in groppa a quei draghi.

Quindi, in teoria, i draghi potrebbero essere utilizzati anche per tornare a Berk.

L’Incubo Orrendo avrebbe abbastanza spazio sulla schiena per ospitare Moccicoso alla guida, con Stoick e Hiccup dietro. Gli altri ragazzi potrebbero caricare una o due persone alla volta – prima di tutto Granbestia, necessario per curare adeguatamente Hiccup. Skaracchio sarebbe rimasto sull’isola come coordinatore. E una volta a Berk, oltre ai draghi, avrebbero potuto servirsi delle imbarcazioni da pesca per tornare a prendere i guerrieri rimanenti.

In teoria.

Ma Stoick è diffidente. Sarebbe mai stato possibile fidarsi dei draghi? Sarebbero rimasti docili e obbedienti, o si sarebbero ribellati, buttando a mare gli umani che, dopo anni di guerra, avevano osato pensare di averli domati?

E come separare Sdentato da Hiccup? Il drago, incredibilmente, sembra capire quello che gli si dice, ma accetterebbe di separarsi dal suo umano?

Ci deve pur essere un altro modo.

Ma altri modi non sembrano esserci. E più a lungo Hiccup resta lì…

Come se gli avesse letto nel pensiero, Sdentato si alza faticosamente su quattro zampe e, zoppicando, raggiunge l’Incubo Orrendo, almeno tre volte più grande di lui. L’Incubo lo guarda, e i due per un attimo si fissano. Moccicoso si fa da parte, intimorito, e Stoick teme che i due draghi possano litigare, lo hanno già fatto nell’arena durante l’esame finale, e una zuffa fra draghi è l’ultima cosa di cui c’è bisogno in questo momento.

Invece Sdentato inizia ad emettere dei versi, grugniti e latrati, uggiolii e schiocchi e botti e fischi, in una sequenza precisa.

Come se stesse parlando.

Tutto questo è…

Gli altri tre draghi si riuniscono intorno all’Incubo, e ascoltano attentamente Sdentato.

Poi l’Incubo si china davanti alla Furia Buia, seguito dagli altri, come in segno di rispetto. Sdentato, malgrado le dimensioni notevolmente ridotte e le ferite riportate, siede fiero e composto e li guarda. Nei suoi occhi verdi, Stoick può leggere la più umana delle soddisfazioni.

La Furia Buia si volta verso Stoick, e accenna all’Incubo con la testa.

Volare non è certo il sogno di Stoick l’Immenso del Clan Haddock. Tantomeno, volare in groppa a un drago. Ma se l’unica soluzione per salvare la vita di suo figlio è montare su un Incubo Orrendo...

“Moccicoso”, chiama Stoick. “Ho bisogno del tuo aiuto.”

Il nipote lo guarda e sorride con quel suo sorriso contorto, che questa volta non ha nulla di strafottente, anzi sembra venato di dolcezza. Moccicoso Facciadimoccio Haddock non è particolarmente sveglio ma, dopo avere assistito all’incredibile scena di pochi secondi prima, deve aver capito che genere di aiuto è chiamato a dare. “Certamente, zio.”



Era trascorsa una lenta settimana da quando Hiccup si era addormentato.

Ora, anche Granbestia iniziava a essere preoccupato. Seguito com’era con ogni premura possibile, il ragazzo non aveva l’aspetto tanto più emaciato e sofferente della settimana prima, ma la situazione sembrava volgere al peggio.

Stoick era stanco di aspettare. Ma che altro poteva fare, se non curare amorevolmente il suo unico figlio e pregare gli dei affinché non lo chiamassero nel Valhalla con sua madre?

“Ce la farà”, asserì Skaracchio, chino sulla gamba sinistra di Hiccup, intento a misurare la protesi a cui stava lavorando per il suo apprendista. Stoick non se l’era ancora sentita di guardare l’opera del fabbro: un po’ per scaramanzia, dal momento che Hiccup non si era ancora ripreso, e un po’ perché lo stomaco gli si stringeva, al pensiero che suo figlio, carne della sua carne, in futuro avrebbe dovuto utilizzare una protesi per camminare. “Te lo dico io, è solo un maledetto fortunato, ecco cosa. Quando si sveglierà, la ferita sarà bell’e che guarita. Dormendoci sopra, si sta risparmiando un sacco di grane.”

“Si soffre molto?” domandò Stoick, che non aveva mai osato chiedere una cosa simile al suo migliore amico.

“Ci siamo quasi”, Skaracchio si alzò, sorridendo e stirandosi la schiena. “Devo solo stringere l’innesto sulla gamba. Tuo figlio è davvero una lisca di pesce parlante.”

Una volta arrivati a Berk, era stato Skaracchio, con l’aiuto di Astrid, a liberare Sdentato dai finimenti che Hiccup gli aveva costruito: una sella e un’ingegnosa membrana caudale di tela, comandata da un meccanismo nella staffa sinistra, ormai malridotti e bruciacchiati.

Skaracchio non era solito entrare nello sgabuzzino attiguo all’officina, che fungeva da studio di Hiccup ma, incuriosito dal marchingegno costruito dal ragazzo, non aveva potuto fare a meno di dare un’occhiata.



“Se solo avessi saputo che cos’aveva in mente”, sospira Skaracchio, lasciando la frase in sospeso.

Nessuno ha mai sospettato nulla”, conviene Stoick. “Nemmeno io che sono suo padre.”

Skaracchio l’ha condotto, quasi a forza, nello studio di Hiccup. Le pareti e la scrivania sono invase da decine e decine di fogli di carta, schizzati, disegnati, fittamente scritti: progetti di macchine, studi di figure umane e draghi in varie posizioni… ma soprattutto, Sdentato. La Furia Buia è ritratta in qualsiasi atteggiamento possibile e immaginabile: seduto, sdraiato, addormentato, in volo, in corsa, ad ali spiegate e ripiegate, con la coda attorcigliata su se stessa o completamente distesa o ritta sulla schiena come quella di un gatto. E sul lato destro della scrivania, una pila disordinata di fogli: gli schizzi e i progetti per la membrana caudale del drago e il meccanismo per azionarla, nonché diversi modelli di sella.

Stoick è allibito. La sua abilità nel disegno è quella elementare di un uomo che si serve del carboncino solamente per scrivere e per tracciare le rotte delle mappe marine o di guerra: la sua cultura è elevata, ma non sa disegnare che in maniera estremamente stilizzata, perlopiù infischiandosene delle giuste proporzioni. Ma questo non significa che non sappia riconoscere dei disegni di qualità, quali sono quelli di Hiccup: eleganti, precisi e minuziosi, dotati di un certo stile malgrado la giovane età dell’autore.

Hiccup è mancino. Usa la mano sinistra per la maggior parte delle sue azioni unilaterali, per tenere le posate, per scrivere e disegnare. Impugna il carboncino in quello strano modo, fra pollice e medio, con l’indice a sostenere l’asticella invece del contrario.

Stoick si rende conto di non sapere un sacco di cose su suo figlio: a malapena ricordava che fosse mancino, e dove accidenti ha imparato a disegnare così bene? Dove ha imparato a progettare attrezzi e macchine e congegni come quelli che Stoick ha ora sotto gli occhi?

La verità è che non sa quasi nulla di suo figlio, se non le solite banalità, come se russa di notte – no, certo, ha solo il respiro un po’ pesante, a meno che non sia raffreddato, allora sembra che un branco di balene sia entrato in casa – o il suo colore preferito, che è l’indaco – almeno, lo era quando aveva cinque anni, quando usava il pastello di quella scura sfumatura di blu per disegnare qualsiasi cosa.

Evidentemente, non basta essere un padre per conoscere il proprio figlio, tantomeno per sospettare che si sia fatto un drago come amico, e con lui voli nei cieli dell'isola, dopo avergli costruito un'ingegnosa protesi meccanica in sostituzione della coda mozzata.

Forse, un padre un poco più attento di quanto io sia mai stato l'avrebbe capito subito.

Forse, se sua madre fosse stata viva…

“Forse è stato meglio così”, sentenzia Skaracchio, e Stoick tace. Il senso di colpa lo pervade, e non se la sente di obiettare.



“Soffrirà molto?” ripeté Stoick.

“Chi lo sa”, rispose Skaracchio, rassegnato. “Io con il braccio sono andato bene, mi dà noia solo quando cambia il tempo. La gamba invece mi ha sempre fatto vedere i sorci verdi… dipende dalla ferita, e da persona a persona. Io sono pesante, ma Hic è leggero, non avrà molto peso da caricare sulla gamba… magari non avrà quasi alcun problema.”

Stoick sospirò. Era quel quasi che non lo convinceva. A Berk c’erano molti amputati, e Stoick fin da giovane aveva accettato l’idea che una cosa simile potesse accadere anche a se stesso, ma non avrebbe mai immaginato che sarebbe potuta capitare al suo gracile figlio.

E questo stravolgeva tutto.

“Gli insegnerò io come prendersi cura del moncherino”, fece Skaracchio. “Che creme usare, come fasciarlo prima di innestare la protesi… Quando ti abitui diventa una routine, come lavarsi i denti.”

“E’ così giovane”, commentò Stoick.

“E più adattabile”, completò Skaracchio. Poi indicò la protesi sul letto, accanto al moncherino bendato. “Vuoi vederla?”

Stoick annuì. Alla malora la scaramanzia, insieme a qualsiasi altro patema: ormai il danno era fatto, niente avrebbe potuto riparare l’handicap di cui Hiccup avrebbe sofferto fino alla fine dei suoi giorni, tanto valeva abituarsi.

“Con questa”, Skaracchio mostrò soddisfatto a Stoick la protesi, un manufatto con l’innesto di legno e uno strano, complicato meccanismo di ferro al posto di caviglia e piede, “Hic potrà volare di nuovo, fin da subito. Magari all’inizio per camminare avrà bisogno di un paio di stampelle, o di un bastone… ma per volare, non avrà problemi.”

Stoick guardò la protesi, interrogativo.

“Il meccanismo della staffa era praticamente intatto”, spiegò Skaracchio. “E studiando i disegni di tuo figlio, ho progettato e costruito una protesi adatta ad azionarlo, adattandolo un poco.” Il fabbro mosse l’articolazione a molla della protesi, che cigolò allegramente. “Che ne dici?”

“Non lo so”, ammise Stoick. “Visto quello che è successo, non so se mi fa molto piacere che mio figlio ritorni sulla groppa di un drago.”

“Ma è così che va adesso su quest’isola, per merito di tuo figlio”, ribatté Skaracchio. “E per fortuna.”

Di nuovo, Stoick non poté dargli torto.


Un’altra settimana trascorse, e le condizioni di Hiccup rimasero invariate. Come il ragazzo appariva sempre più macilento, mentre le sue ferite rimarginavano, così Granbestia era sempre più evasivo. Non osava ancora parlare di coma, ma Stoick sapeva che era solo questione di giorni prima che il fratello pronunciasse quella parola oscura e minacciosa.

D’altro canto, non c’era altro da fare se non attendere.

Nel frattempo, Berk si era trasformata. L’autunno stava lentamente arrivando, con i suoi venti freddi, le piogge intermittenti e le nebbie mattutine, ma il cuore dei Bifolki Pelosi era leggero come durante la più mite delle primavere: da quando Morte Verde era stata uccisa non c’erano più state razzie, e i draghi convivevano amichevolmente con gli umani. Diverse famiglie, specialmente quelle più giovani, ne avevano adottato uno, ospitandolo nel granaio o sotto una tettoia o, nel caso dei piccoli Terrori, addirittura in casa, e non si erano mai verificati incidenti.

Ed era tutto merito di Hiccup.

Che forse non avrebbe mai visto il risultato dei propri sforzi, e dei rischi che si era assunto.

Se qualcuno avesse anche solo sospettato che aveva avvicinato un drago, e gli stava costruendo una coda artificiale per farlo tornare a volare, la punizione sarebbe stata l’esilio: la legge era chiara al riguardo. Certo la situazione attuale non era rosea per il ragazzo, ma altrettanto poco promettente sarebbe stato essere bandito dalla Tribù e dover lasciare Berk, per affrontare un mondo ostile nel quale un ragazzino come lui non avrebbe potuto fare altro che soccombere.

O forse no, se Sdentato l’avesse accompagnato.

Ma in quel caso, comunque, la guerra fra Vichinghi e draghi sarebbe continuata ad oltranza. Mentre ora, grazie al sacrificio di Hiccup, Berk stava finalmente sperimentando un insolito periodo di pace.

Stoick si chiese se ne era valsa la pena. La ragione ben sapeva cosa rispondere, mentre il suo cuore aveva parecchi dubbi in proposito.


L’ottava sera, quando rincasò, Stoick trovò Sdentato che faceva le fusa, con il muso appoggiato accanto al fianco sinistro di Hiccup, sdraiato sulla schiena, con una mano appoggiata mollemente sopra la testa della bestia.

Stoick era sicuro di avere lasciato Hiccup due ore prima coricato sul fianco destro, con le gambe distese e le braccia piegate. Si avvicinò al capezzale del figlio, e Sdentato lo guardò con aria indagatrice.

Hiccup dormiva, come al solito.

“Si è mosso?” domandò Stoick alla bestia. “Dimmi, si è mosso?”

Sdentato rivolse lo sguardo al ragazzo e continuò a fare le fusa. Per quanto intelligente, ancora non aveva imparato a parlare norvegese.

“Si è mosso, vero?” ripeté Stoick.

Sdentato non rispose e non si mosse, ma era chiaro che Hiccup si fosse rigirato da solo, e avesse posato la mano sulla testa del drago per accarezzarlo.

Non illuderti. La stanchezza e la speranza giocano brutti scherzi. Quando poi sono insieme...

Stoick avrebbe avuto voglia di correre a chiamare qualcuno, Granbestia magari, ma se Hiccup si fosse svegliato, o anche solo mosso di nuovo, mentre lui era fuori?

Fu in quel momento che Hiccup gemette, aggrottando lievemente le sopracciglia.

“Hiccup?” domandò Stoick, chinandosi su di lui. Il ragazzo aprì gli occhi, lentamente, laboriosamente. Poi sembrò riconoscere suo padre e tentò un sorriso: “Ciao”, sussurrò.

Stoick sentì come se un mucchio di pietre gli venisse sollevato dal cuore. Avrebbe voluto prendere Hiccup fra le braccia e stringerlo e baciarlo come non aveva più fatto da almeno una decina d’anni, invece non riuscì che a balbettare: “Ciao. Bentornato, Hic.”

“Dove… sono?” Hiccup gli tese la mano che Stoick subito strinse fra le proprie.

“Sei a casa. Siamo a casa.”

Il ragazzo girò piano la testa, verso il suo drago, sul cui capo teneva ancora la mano. “Ciao, bello. Come stai?”

Sdentato gorgogliò allegro in risposta, aumentando il volume delle fusa.

“Padre… che è successo?” domandò Hiccup, incerto. La sua voce era debolissima. “Tu e Sdentato, sotto lo stesso tetto… non sono morto, vero?”

“No, non sei morto”, Stoick sorrise. “Hai combattuto contro quel mostro enorme. Ti ricordi? Skaracchio l’ha chiamato Morte Verde.”

“Morte… Verde”, ripeté Hiccup, come per imprimerselo nella mente. “Io… ricordo che la coda di Sdentato aveva preso fuoco… e ho pensato… che non ce l’avremmo fatta a…”

“Ce l’hai fatta, invece”, lo prevenne Stoick. “Hai ammazzato quel bestione. Sono molto orgoglioso di te, sai? Siamo tutti orgogliosi di te.”

Hiccup l’ignorò: aveva ben altre preoccupazioni: “Ti prego, dimmi che state tutti bene.”

“Non preoccuparti”, disse Stoick. “Nessuno si è fatto male. Piuttosto, tu come stai?”

“La mia gamba”, mormorò Hiccup. “La sento strana. E’… rotta?”

Stoick non sapeva cosa rispondere. Era stato talmente preso dalla preoccupazione per le condizioni di Hiccup, che non aveva mai pensato a come affrontare l’argomento. E dire che avrebbe avuto tutto il tempo per rifletterci. “Si sistemerà, vedrai”, disse, evitando di incrociare lo sguardo del figlio. “Ti fa molto male?”

“Un po’… non tanto.” Hiccup si portò la mano al collo. “Piuttosto… ho la gola secca. Mi porteresti qualcosa da bere?”

“Certo”, Stoick non se lo fece dire due volte e corse a versare una tazza del latte che aveva munto quel pomeriggio. Quando tornò, dopo pochi secondi, scoprì che l’inevitabile era accaduto: Hiccup era seduto, aveva tirato indietro le coperte e raggomitolato la camicia da notte in grembo, e si osservava il moncherino ormai privo di bende, per lasciare la pelle libera di respirare e completare la cicatrizzazione.

Sdentato gli dava piccoli colpetti sulla spalla con il muso, ma Hiccup non smetteva di fissarsi le gambe, immobile, come in trance, gli occhi sgranati e la bocca spalancata.

Il moncherino stava guarendo velocemente, ma anche a Stoick faceva un certo effetto vedere, accanto alla gamba destra del figlio, secca e bianca e lentigginosa come al solito, una gamba sinistra che terminava bruscamente a metà polpaccio, con la pelle arrossata e violacea e in certi punti livida, e le cicatrici – i segni degli artigli di Sdentato – ben evidenti fin sopra al ginocchio.

Lentamente, Hiccup alzò il viso verso suo padre. La sua espressione era piena d’orrore, incredula e disgustata e dolorante, un’espressione che Stoick non gli aveva mai visto prima.

Stoick appoggiò la tazza su una mensola, raggiunse il figlio e si sedette accanto a lui, abbracciandolo. “Per tutti gli dei, Hiccup…”

Hiccup si lasciò abbracciare, ma s’irrigidì ancora di più. Sembrava un blocco di pietra.

“Coraggio”, mormorò Stoick. “Andrà tutto bene, piccolo. Andrà tutto a posto.”

Il ragazzo allora si aggrappò alle trecce della sua barba, come faceva quando era bambino, e vi nascose la faccia iniziando a gemere, un lamento flebile e strozzato, intervallato da singhiozzi isterici, senza lacrime.

Stoick si trovò impreparato: mai, in quattordici anni e mezzo, aveva visto il figlio in quelle condizioni. Così si limitò a tenerlo stretto, carezzandogli le spalle tremanti, ripetendo: “Sst. Sst, piccolo. Andrà tutto bene, vedrai. Andrà tutto bene. Si sistemerà tutto.”

Dopo quella che sembrò un’eternità, Hiccup smise di lamentarsi e cessò a poco a poco di tremare. Per qualche minuto, il suo corpo venne scosso da singhiozzi estemporanei, come capita ai bambini quando il pianto è terminato ma ancora fa sentire la sua eco. Poi, il suo respiro tornò regolare e il suo corpo si rilassò.

Si era di nuovo addormentato.

Stoick allora lo stese con delicatezza, sostenendogli la schiena e il collo come si fa con i neonati, lo coprì rimboccandogli le coperte e fece quello che non aveva mai fatto, che non si era mai permesso di fare, da quando aveva trovato Hiccup avvolto nelle ali e nelle zampe di Sdentato come in un bozzolo: si sedette sulla sedia accanto al letto, prese la faccia fra le mani e pianse.


Il mattino successivo, Hiccup era ancora privo di conoscenza quando Granbestia si presentò per la consueta visita. Stoick lo informò delle novità, e il fratello giudicò positivo il fatto che il ragazzo avesse avvertito subito che qualcosa non andava nella gamba sinistra.

“Di certo sente dolore”, spiegò. “Parecchio, forse. Ma è un buon segno, significa che non ha perso la sensibilità, e i nervi non hanno subito danni permanenti.”

“Quanto pensi che ci metterà a riprendersi?”

“Chi può dirlo”, Granbestia bevve un sorso di tè. “Hiccup ha preso una bella batosta, è stato un miracolo che non ci abbia rimesso la pelle. Potrebbe andare avanti per giorni, o settimane, a svegliarsi soltanto pochi minuti per volta, poche volte al giorno, e la sua memoria potrebbe continuare ad avere delle grosse lacune per un sacco di tempo.”

Stoick sospirò, avvilito. Si era aspettato una risposta del genere, ma averne la conferma non era affatto piacevole.

“Però si è svegliato”, aggiunse Granbestia, dandogli una pacca sulla spalla. “Era cosciente e ti ha riconosciuto. E con l’andare del tempo, resterà sveglio sempre più a lungo e recupererà la memoria perduta, e intanto si rafforzerà e le sue ferite avranno modo di guarire. Non so quanto ci vorrà, ma credimi, d’ora in poi la strada è tutta in discesa.”


I cinque giorni successivi trascorsero veloci. Hiccup usciva dal sonno una decina di volte al giorno per poi rientrarvi entro pochi minuti, esausto e spossato come dopo una gara di sollevamento pesi. Riconosceva le persone che lo circondavano, ricordava i momenti salienti della battaglia ma non l’incidente che aveva causato il suo ferimento, e la sua memoria funzionava in modo intermittente: durante il sonno, era come se qualche elfo dispettoso entrasse nella sua mente e cancellasse il ricordo di ciò che era avvenuto durante i brevi periodi di veglia.

Con grande apprensione di Stoick, di nuovo e di nuovo e di nuovo Hiccup, confuso e debole, dopo ogni ripresa di conoscenza ripeteva le stesse domande: dove si trovavano, come mai Sdentato era in casa con loro, qual era stato l’esito della battaglia, se tutti stavano bene, come avevano fatto a tornare a Berk, cos’era successo ai draghi.

Ricordava il nome Morte Verde, ma non ricordava che fosse stato Skaracchio ad affibbiare quell’appellativo al gigantesco drago che aveva affrontato.

Ricordava di aver messo in salvo i suoi coetanei prima di attirare Morte Verde fra le nuvole, ma chiedeva costantemente loro notizie, e allorché questi gli facevano visita e poteva parlare loro di persona, al risveglio successivo aveva già dimenticato di averli incontrati.

Un giorno Gambedipesce gli portò un enorme mazzo di fiori, margherite e mughetti e ranuncoli, inframmezzati con grazia da foglie verdi, che Hiccup mostrò di apprezzare, ironizzando sul fatto che avrebbe potuto portarli a una ragazza riscuotendo un discreto successo. Al risveglio successivo, dopo avere osservato con curiosità il mazzo ben disposto in un vaso sulla credenza, aveva domandato a Stoick chi mai lo avesse portato.

“Te l’ha portato Gambedipesce questa mattina”, aveva risposto Stoick, paziente. “Non ricordi?”

“Gambedipesce?” aveva riflettuto Hiccup. “Davvero? Quindi, Gambedipesce sta bene… grazie a Odino. Se l’avesse portato a una ragazza, avrebbe di certo fatto successo. Padre, ma come stanno gli altri? Voglio dire… Astrid e Moccio e i gemelli erano in salvo, ma…”

Un’altra volta, si era svegliato proprio mentre Sdentato era uscito per le sue necessità fisiologiche. Non trovandolo accanto a sé come di solito, Hiccup, con gli occhi lucidi di lacrime e il labbro inferiore che tremava, aveva domandato a Stoick se il suo drago fosse morto durante la battaglia. Stoick l’aveva rassicurato, ma il ragazzo si era tranquillizzato solo allorché la Furia Buia era tornata in casa.

A Stoick sembrava di avere a che fare con un serpente che si mordesse la coda senza sosta, ma era disposto a rispondere a qualsiasi domanda del figlio, finché questi non avesse del tutto recuperato la memoria.

Della gamba, Hiccup non aveva più parlato. In un'occasione, Stoick l’aveva trovato rannicchiato su se stesso, pallido e sofferente, a digrignare i denti tenendosi il moncherino con entrambe le mani.

"Ti fa molto male?" aveva domandato Stoick, carezzandogli la schiena, e Hiccup aveva annuito, senza aprire gli occhi né cambiare posizione.

“Non è poi così terribile”, aveva aggiunto. “M-ma…”

Stoick gli aveva somministrato uno dei calmanti di Granbestia e Hiccup l’aveva ringraziato, per poi raggomitolarsi nuovamente sotto le coperte.

“Hiccup, senti”, aveva tentato Stoick. “Gli antidolorifici esistono apposta per il dolore. Ti prego di chiamarmi, se stai male.”

“Non preoccuparti, padre”, aveva bisbigliato il ragazzo.

Dal canto suo, Stoick sospettava che Hiccup avesse bisogno di inghiottire e metabolizzare quel boccone oltremodo amaro per conto proprio, e rispettava la sua scelta. Al suo posto, si sarebbe comportato allo stesso modo.


Il quinto giorno, Stoick lo trovò sdraiato sulla schiena, un avambraccio sugli occhi, la testa di Sdentato sul suo stomaco.

“Hic… sei sveglio?”

Come risposta, un singhiozzo soffocato.

“Hiccup.”

“Mi dispiace”, mormorò Hiccup. “Dovrei essere contento… tutto è andato bene, t-tutti stanno bene… i draghi vivono con noi… f-f-finalmente siamo in p-pace… m-ma… ma…”

Così, finalmente iniziava a ricordare. Era la decima volta – o l'undicesima? – che Stoick gli spiegava com’era la vita a Berk, adesso. Ma c’era ancora qualcosa che non andava, e Stoick temeva di sapere di cosa si trattasse.

“Che c’è, piccolo?”

“Dovrei essere felice… invece… io… i-io…”

“Hiccup”, Stoick si sedette accanto a lui, gli posò una mano sul braccio che il ragazzo teneva sugli occhi. “Vuoi parlarne?”

"Non riesco nemmeno a g-g-guardarla", singhiozzò il ragazzo con voce affranta, disgustata. "M-mi fa un tale orrore c-che..."

“Non dire così”, tentò Stoick. “Ti sembra… brutta… solo perché è in via di guarigione. Quando sarà del tutto a posto, vedrai che…”

“Per favore, padre, l-lasciami solo”, sussurrò Hiccup. "Mi passerà."

“Hiccup…”

“Per favore.”

Stoick si alzò e lo lasciò solo.


Skaracchio ascoltò il racconto sconsolato di Stoick. Dopo pochi secondi di riflessione, suggerì di attaccare a Hiccup la protesi nuova di zecca, anche se il ragazzo dormiva per la maggior parte della giornata.

“Non so se sia un bene”, obiettò Stoick. “La ferita è rimarginata, ma la pelle è ancora così arrossata e sottile… non vorrei che ci mettesse più tempo del dovuto a guarire.”

“Tanto, non ci deve camminare sopra”, ribatté Skaracchio. “Non subito, almeno. E’ solo per rendergli l’impatto meno traumatico. So cosa significa, ci sono passato prima di lui per ben due volte. Gli benderò il moncherino per bene, e gli fisserò la protesi abbastanza lenta. Solo per poche ore al giorno… giusto per farlo abituare all’idea. Quando si sveglierà e se la guarderà, almeno vedrà qualcosa di diverso, invece del nulla. Se qualcuno avesse fatto lo stesso per me, gli sarei stato grato per l’eternità.”

“Proviamo, allora.”


Erano trascorsi dieci giorni da quando Hiccup aveva ripreso conoscenza per la prima volta. Stoick avrebbe voluto restare al suo capezzale giorno e notte, per essere presente a ogni suo risveglio, ma non poteva trascurare i suoi doveri di Capotribù. Quel giorno, era ormai pomeriggio inoltrato quando si avviò verso casa, dopo aver controllato la ricostruzione della flotta navale, ormai giunta al termine.

Il sole stava tramontando, lanciando ombre gialle e rosse sull’isola, sul mare che la circondava e sui draghi che volavano sopra di essi. Era stata una bella giornata serena e anche piuttosto calda per quel periodo: uno degli ultimi strascichi dell’estate che, quell’anno, sembrava particolarmente restia a voler cedere il posto all’autunno.

Stoick era sovrappensiero. Aveva lasciato Hiccup addormentato, con un’espressione serena sul viso, alle fusa di Sdentato e alle cure di Phlegma, la moglie di Granbestia, che gli aveva assicurato sarebbe rimasta fino al tardo pomeriggio. Ora si sentiva troppo stanco per cucinare e sperava ardentemente che Phlegma gli avesse lasciato qualcosa per cena.

In quei giorni, Hiccup aveva sbocconcellato qualcosa ogni tanto, nutrendosi più che altro di brodo o latte, o tutt’al più qualche cucchiaiata di zuppa, ma non aveva mai consumato un pasto vero e proprio ed era ancora così debole da riuscire a stare seduto solo per pochi minuti, con la schiena sostenuta da cuscini.

Malgrado cercasse stoicamente di non lamentarsi, era chiaro che la gamba gli dolesse parecchio, in alcune occasioni tanto da fargli chiedere timidamente, quasi vergognandosi, una dose supplementare di antidolorifico.

Non meno importante, la sua memoria sembrava voler continuare a fare i capricci, nonostante i suoi risvegli, lentamente, diventassero più prolungati e meno penosi. Hiccup continuava a svegliarsi confuso e turbato, con ricordi frammentari, incompleti e ingarbugliati, che solo raramente sembravano tornare abbastanza completi, nitidi e precisi, come quando Stoick l'aveva trovato a piangere sull'amputazione.

Fin dal principio Granbestia non si era sbilanciato sui tempi della sua ripresa, né osava farlo ora, ma Stoick temeva che ci sarebbe voluto ancora parecchio tempo prima che suo figlio tornasse quello di prima.

Sempre che ci fosse tornato.

Smettila con queste sciocchezze.

Arrivato alla base della collina sulla cui sommità si trovava la sua casa, Stoick alzò la testa e credette di sognare.

Hiccup si appoggiava incerto e barcollante allo stipite della porta chiusa, nella veste da notte troppo grande per lui, da cui spuntavano a destra un piede nudo, a sinistra la protesi di Skaracchio. Teneva il peso completamente sulla gamba sana, e guardava con occhi stupefatti il villaggio, abitato pacificamente da umani e draghi, mentre l’ombra di un sorriso stranito gli incurvava le labbra screpolate.

“Lo sapevo, sono morto”, asserì.

“No, ma ci sei andato molto vicino”, ribatté Stoick, raggiungendolo e posandogli con garbo una mano sulla spalla esile.

Hiccup alzò gli occhi su di lui e il suo sorriso si allargò. I suoi occhi erano cerchiati, il viso pallido e scavato, e i capelli scompigliati avevano bisogno di una lavata e di una regolata, ma il suo sorriso era quello solito, storto e dolce, con gli incisivi superiori grandi e distanziati, e Stoick non poté fare a meno di abbracciarlo, stringendo piano quel corpicino ora più che mai fragile.

Hiccup ricambiò l’abbraccio, nascondendo la faccia contro lo stomaco del padre e appoggiandosi a lui. “Sono a casa”, mormorò.

“Sì”, confermò Stoick, godendosi quel breve momento di pura gioia prima che i Bifolki presenti si accorgessero della scena e si radunassero festanti intorno a loro.




Credits: "Tears of stone" è un brano dei Chieftains.

Disclaimer: i personaggi di Hiccup Horrendous Haddock Terzo, Stoick l’Immenso, Sdentato, Skaracchio Ruttans, Granbestia Trippadibirra, Astrid Hofferson, Moccicoso Facciadimoccio, Gambedipesce Ingerman e i gemelli Thorston, nonché tutti i draghi, appartengono a Mrs. Cressida Cowell e DreamWorks.

Se qualcuno riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua proprietà, mi creda se gli dico che non l'ho fatto apposta, e spero non si offenda.

Infine, preciso che questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

Nota dell'autrice: Questa storia è un seguito diretto alle mie precedenti “Fragile” e “Fading lights”. Prima dell’uscita di HTTYD 2 (che sto aspettando con più impazienza di mio figlio e mio marito messi insieme; peccato che in Italia esca solo a metà agosto, quando io mi sarò già spoilerata su internet qualsiasi minimo particolare) e dopo aver letto diverse fic, in italiano e inglese, sul post-battaglia, volevo:
1) provare a scrivere la mia versione sull’accaduto; nonché
2) esplorare ulteriormente il personaggio di Stoick nell’universo alternativo che ho creato crossoverando il film HTTYD della DreamWorks, i primi quattro romanzi della serie omonima di Mrs. Cowell, il film “The Brave” della Pixar, con la mia immaginazione deviata da ex fumettara.
E’ risultata una storia alquanto melodrammatica (per forza), ma io mi sono divertita (!) a scriverla, e tanto mi basta.
   
 
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