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Autore: ki_ra    10/04/2014    3 recensioni
In un punto imprecisato del tempo, in un luogo qualunque del mondo, due anime lontane incrociano le proprie vite.
Sangue e nome, rispettabilità e disonore, tradimento e amore li spingeranno l’una verso l’altra.
Mentre un mondo vecchio e superficiale si dibatte per continuare ad esistere, un amore nuovo nasce e sconvolge anime e cose.
Genere: Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
Capitoli:
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Dal passato, nuovi fantasmi 

 

 

Nell’istante in cui l’aveva veduto, un gorgo vischioso, come un mulinello di acqua fetida, le aveva rimescolato i pensieri.
Ogni cosa di Eìos richiamava il suo defunto sposo: i tratti del viso, levigati come quelli di una statua bronzea; il colore degli occhi, fessure aperte su di un’amina inquieta; la fierezza delle spalle, l’atteggiamento padrone e quel sorriso insolente del peccatore che non cerca redenzione, ogni cosa, tutto era ritratto perfettamente, come da un pittore sapiente che coglie attraverso i tratti anche l’essenza del modello. Egli era la sua immagine duplicata, il suo fantasma tornato dal passato per torturarle l’anima.
Quando a sedici anni, appena compiuti, Leria, della nobile casa di Mavìm, era andata in sposa al ricco e possidente Esem di Mikra, l’aveva creduto il coronamento del romantico sogno di fanciulla, l’amore incondizionato del fulgido cavaliere delle epopee narrate dai cantori.
In realtà quello sposalizio di romantico aveva ben poco: esso non era stato altro che un buon accordo stipulato dalle famiglie per rimpinguare le proprie ricchezze e dare maggior lustro ai nomi delle rispettive casate. Leria ed Esem si erano conosciuti solo il giorno delle nozze ed avevano scoperto ben presto le distanze caratteriali che li avrebbero resi estranei per sempre.
L’istinto prevaricatore e distratto di lui, nonché l’altezzosa prosopopea di lei, avevano divaricato le loro esistenze, colmando la distanza tra le anime con uno strato spesso di disprezzo e noncuranza, un veleno stipato e purulento, che li aveva resi nemici costretti nella stessa dimora.
A nulla era servita la nascita di Miran, seppure attesa e desiderata da entrambi: dal padre come erede e vanto della propria stirpe, dalla madre come occasione salvifica per la propria esistenza corrotta.
Per tutti quegli anni, in cui avevano condiviso la medesima cella, Leria aveva patito frustranti umiliazioni, tradimenti e menzogne; i profumi di altre donne nella trama delle sue camicie. Ma ciò che più l’aveva ferita, come la punta di uno spillo che continua a sfregare la pelle sottile, era stato lo scherno con cui Esem si prendeva gioco del suo pudore, della sua difficoltà a concedersi ai tocchi di lui, alle sue necessità carnali.
L’aveva accusata di una frigida distanza, che lo costringeva a cercare altrove il calore di un corpo di donna, e lo aveva ripetuto così tante volte da imprimerle la stessa convinzione dolorosa, fino a renderla totalmente incapace di donarsi spontaneamente.
Aveva trascorso così, Leria, tutti quegli anni con la sola consolazione di un figlio che amava più di sé stessa.
Fino a quando anche quell’instabile quiete si era spenta, il giorno in cui Esem le aveva rivelato, senza alcun rispetto, né la mediazione di parole accorte, che Eìos era suo figlio.
- Non permetterò mai che il tuo bastardo viva sotto lo stesso tetto di mio figlio! – gli aveva urlato, con una rabbia animale e gli occhi spiritati, quando aveva appreso la sua intenzione di legittimarlo.
- Io sono tuo marito, signore e padrone … - le aveva intimato, -  … E tu non hai alcun diritto di opporti al mio volere! – le aveva ricordato, con la rabbia di lei riflessa nella propria voce. – Quando le pratiche burocratiche saranno espletate, Eìos porterà il mio nome, esattamente come Miran! – aveva terminato, per poi voltarle le spalle e lasciarla sola ed impotente.
- Che tu muoia maledetto … - erano state le sue parole mormorate, mordendosi le labbra e lasciando mescolare sangue e lacrime.
E maledetto era morto, Esem, mentre, al galoppo forsennato, recava all’ufficiale del registro civile, una dichiarazione firmata di suo pugno, per manifestare le proprie volontà.
Ma maledetta era stata anche Leria, maledetta ed impotente, tanto che dopo anni di buona vita, il fantasma di lui, dal passato, tornava per tormentarla ancora.
- Madre … - la riscosse Miran dai suoi attorcigliati pensieri.
- Figliolo, giungo ora dalle stanze della tua sposa. Nubia si è magnificamente ripresa. –
- L’ho veduta anch’io, ma per cautela ho mandato qualcuno in città per richiedere la presenza del dottor Emilsk.-
- Saggia decisione. –
- Madre … - insistette. – Vorrei mettervi a parte di un’altra mia decisione. Ho chiesto ad Eìos di compiacerci della sua presenza, per qualche tempo. – la informò, un poco titubante, conoscendo l’avversione di lei per il giovane.
- Qui? Ospite della mia casa? – chiese, con una smorfia di indignata incredulità.
- In verità, madre, non sarà nostro ospite … Gli ho proposto di sostenermi nella gestione della tenuta! – le rivelò, con un tono cauto che potesse mitigare la sicura reazione contrariata di Leria.
- Miran, hai forse perduto il lume della ragione? – ribatté apprensiva.
- Madre, vi prego … -
- Quell’uomo è un bandito, un ladro: vuoi che ti derubi? Che ti porti via tutto ciò che è tuo? –
- Voglio solo offrirgli un’opportunità di riscatto, come era desiderio di mio padre … - cercò di giustificarsi.
- Offrigli un lavoro come bracciante o nelle scuderie, dunque. – propose lei di rimando: tutto pur di non concedere a quel bastardo uno spazio che non gli apparteneva.
- Eìos è un uomo istruito, possiede le competenze necessarie per questo compito. La vostra offerta sarebbe umiliante! –
- Umiliante, dici? Più del contrabbando? Sai cosa si dice di lui, Miran? Che si accompagna alla peggiore feccia che … -
- Vi prego … è stato prima che il dottore lo prendesse a ben volere. – la interruppe, cercando di spiegarle.
- Rifletti, figlio mio: egli non è più il fanciullo che hai conosciuto anni fa … –
- Non lo è per vostra colpa: se non lo aveste scacciato, se aveste ceduto alle mie suppliche di dargli asilo, anche dopo la mia partenza per gli studi nella capitale … - l’accusò, esasperato dalla sua continua ingerenza nelle sue decisioni.
Miran amava sua madre; le riconosceva una forza interiore che in poche donne aveva ravvisato: ella, da sola, l’aveva allevato con amore, presenza e tenacia; per lui, si era occupata dell’amministrazione dei suoi averi con la solerzia e la perizia di un uomo; aveva, negli anni dei suoi studi lontano da casa, decuplicato i possedimenti e le ricchezze che da suo padre aveva ereditato. L’aveva sorretto e indirizzato e di ciò, Miran le sarebbe stato eternamente riconoscente. Ma ormai era un uomo, non più il ragazzino inesperto bisognoso di guida e consiglio. Avrebbe ascoltato ogni suo disinteressato suggerimento, ma avrebbe deciso per sé stesso, esattamente come un uomo.
- Incolpi me delle sue nefandezze? Poche ore della sua influenza malefica e già osi mancarmi di rispetto? –
- Perdonatemi, non era mia intenzione … - cercò di scusarsi, sinceramente pentito della propria veemenza.
- Anima mia, quell’uomo è mala erba, come la gramigna che infesta i campi. Mandalo via, te ne prego … - insistette con il tono dolce di una madre preoccupata delle sorti del suo figlio prediletto.
- Non posso, per tener fede al desiderio di mio padre, e non voglio poiché lo considero mio amico. –
- E sia: tu sei il signore di questa casa, tue sono le decisioni, tue le conseguenze … Ma ti avverto, io non accetterò la sua presenza qui. – ribatté, altezzosa e distaccata.
- Devo dedurre che ci priverete della vostra presenza alla cena di stasera. Me ne rammarico, madre, desideravo che vi incontraste e che foste voi a fare gli onori di casa, anche per rispetto nei confronti degli altri nostri ospiti.
Spero possiate cambiare idea … - si augurò, avvicinandosi e posandole un bacio riconciliatore sulla fronte.
- Maledetto, Esem, che tu sia maledetto, per l’eternità.  – ripeté il suo cuore disperato, come dieci anni prima, - E maledetta sia quella tua carne che ancora mi tormenta! –

 

*********

- Buonasera … - esordì il padrone di casa, entrando nella grande sala, dove una ricca tavola imbandita lo attendeva.
Eìos entrò subito dopo di lui, un’espressione imperturbabile negli occhi cupi.
- Vorrei presentarvi il mio ospite. – annunciò ai commensali, - Questi è Eìos, un mio vecchio amico di fanciullezza. Eìos … - continuò rivolgendosi a lui, che gli stava di fianco, - Costei è Nubia, la mia sposa. -  disse indicandogliela, con un gesto garbato della mano e la voce dolce dell’innamorato.
Ariela trattenne il fiato preoccupata che un gesto, uno sguardo potessero rivelare ai presenti il segreto inconfessabile che nascondevano. Eìos ossequiò Nubia, con un gesto distratto del capo, poi rivolse gli occhi ad Ariela, quasi in una rassicurazione muta del proprio silenzio, ed ella riprese a respirare, sollevata e grata.
- Costei invece, è Asmha, sua madre. – riprese, indicandole la donna che sedeva accanto a lei. – Questo gentiluomo è Caled, mio compagno di studi. -  terminò indicando il giovane che sedeva accanto ad Ariela.
Sedere a quella tavola gli procurava una sensazione sgradevole, come il vento di mare che appiccica i capelli rendendoli inestricabili.
Quella dimora non gli piaceva.
Lo opprimeva, come la vecchia, umida cella di un condannato, ed Eìos si chiese più volte se la brama di giungere al proprio intento valesse l’ennesimo sfregio alla propria dignità.
Né gli piaceva quel damerino biondo, i suoi modi affettati; la sua compostezza studiata; il colletto inamidato, tanto rigido da impedirgli l’afflusso di sangue al cervello; i sorrisi che destinava ad Ariela, segni di un ossequioso corteggiamento che lo stomacava.
Ma meno di tutto gli piaceva Nubia.
L’aveva osservata muoversi con delicata accortezza, una farfalla sul fiore; la sua era un’inequivocabile bellezza di forme e colori: la pelle era oro lucente alle fiamme tremule delle candele; la bocca sensuale e carnosa da mangiare di baci ed i capelli castani la cornice di un ovale perfetto.
Quando l’aveva incontrata per la prima volta, nello studio medico del dottor Elmisk, i suoi occhi acuti ed il sorriso disinvolto l’avevano catturato, stuzzicando il suo interesse. Poche donne del suo rango si erano mostrate così sicure della propria avvenenza e soprattutto nessuna di quelle, che poi in segreto avevano allietato il suo letto, gli si era concessa senza pudore alcuno e senza retaggi virginali.
Eppure l’incanto che lo aveva sedotto mesi prima gli appariva adesso custodia vacua di un’anima bugiarda.
Nubia era frivola, superficiale e traditrice.
Gli aveva giurato e spergiurato di non volere altri che lui; concedendosi, gli aveva dimostrato che egli sarebbe stato l’unico ed il solo. Non l’aveva indignata la sua illegittimità; il suo passato torbido ed ai confini dell’illegalità; né la certezza che non avrebbero mai neanche potuto sposarsi, poiché egli non aveva un nome da offrirle.
- Ti amo per ciò che sei … ed il mio amore non potrebbe essere più grande se tu fossi di sangue puro … - gli bisbigliava all’orecchio, mentre lui la riempiva.
Ed Eìos le aveva creduto, giacché era ciò a cui anelava da sempre: essere amato.
Eìos l’aveva amata per amore del suo amore, poiché spesso alcuni abbisognano più di essere amati che di amare.
Ma ora, lacerato dal suo tradimento e dalle menzogne, davanti a quella vera, che il suo anulare ostentava, come una regina la propria corona, il suo cuore sofferto sapeva che il proprio per lei non era mai stato amore.
Soltanto febbre emorragica che devasta le membra; solo fame e sete, come quelle del mendicante sul sagrato della chiesa.
- Non si può negare, amico mio, che il nostro paese stia mutando: continuare ad ignorare le necessità primarie del popolo, significherebbe nascondere la testa sotto la sabbia davanti ad un cambiamento ormai inesorabile. – lo riscossero le parole del dottor Elmisk, impegnato in fervente discussione sulle sorti del paese.
- E cosa vorreste che accadesse, dottore, che una massa informe, ignorante e lurida detenesse parte del potere che spetta per diritto di nascita solo alla nobiltà? – gli rispose prontamente e con una smorfia disgustata, il giovane biondo.
- Perché no? E’ accaduto in altri paesi prima del nostro … - ribatte l’altro.
- Siete un folle sognatore … - lo schernì, scuotendo la testa.
- Io direi piuttosto che sono un liberale! Ed il tempo mi darà ragione, caro Caled – sorrise di rimando il dottore, sicuro delle proprie convinzioni.
- E voi, qual è il vostro pensiero? – chiese poi, rivolgendo lo sguardo ad Eìos, che gli sedeva di fronte.
- Non credo che vogliate davvero conoscerlo … - rispose scostante, sbucciando il frutto che gli era stato servito. Le sue mani erano abili e forti, e le dita sottili e veloci, come quelle di un pianista esperto, nonostante le evidenti rugosità dovute al lavoro; erano eleganti anche in un gesto così comune.
Ariela si sorprese a guardarle, stranamente rapita: quell’uomo era un misurato equilibrio di rudezza e garbo, nei gesti, così come nelle parole. Sollevò gli occhi, quando il suono della sua voce sfumò, trovando quelli di lui adagiati su di sé, assorti nel suo medesimo esame.
- Ve ne prego … non abbiate timore di esprimere la vostra opinione! Anche se non appartenete alla nostra classe sociale … avete comunque diritto a dire ciò che pensate. – lo sfidò, un sorriso di beffa sul volto.
- Davvero? Mi onorate … - lo schernì Eìos, sarcastico, - Avevo inteso che un ignorante e lurido esponente del popolo non potesse ambire ad alcun diritto … - replicò, gli occhi ancora fissi in quelli di Ariela.
- Non vi ho offeso, spero. Ho solo affermato ciò che è inconfutabile: il sangue, il nome, il titolo ci rendono detentori di un potere al quale quelli come voi non potranno mai ambire. – terminò, con un guizzo sadico nello sguardo.
- Quelli come me? Insolenti, luridi e bastardi, intendete? – soffiò, con la rabbia di un animale ferito. – Non vi angustiate, signore, non sono offeso: ciascuno dei vostri insulti mi giunge come un complimento, poiché mi distingue da voi! – rispose con malagrazia.
- E’ inaudito! Miran, non comprendo come tu abbia potuto invitarlo alla nostra tavola … - rimproverò offeso l’amico, mentre Eìos si sollevava.
Egli si allontanò, senza accomiatarsi, la schiena dritta e perfetta; lo sguardo fugace, come un velo leggero a lambire la pelle di Ariela, che continuava a guardarlo. Appena fuori da quella stanza, opprimente come un antro senza aria, domò il respiro ancora concitato; puntellò la spalla al muro della stanza, incapace di allontanarsi oltre, come se la voce di Ariela, che aveva iniziato a parlare, fosse una forza magnetica che lo costringeva in quel preciso punto.
- Perdonatemi … - intervenne, - Non è stata, la sua, una presenza inadeguata: siete stato voi a parlargli senza riguardo, né rispetto … -
- Credete, dunque, anche voi, Ariela, che un uomo simile, scortese e villano, abbia i nostri stessi diritti? – chiese con una smorfia.
- Credo che talvolta il sangue od il buon nome non siano sufficienti a garantire nobiltà d’animo e buona creanza. – sentenziò, un respiro profondo per domare il sangue che le aveva acceso le guancie ed uno sguardo velato allo stipite della porta dalla quale Eìos era uscito pochi istanti prima.

  
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