Operazione
Piccola Watson
Nota dell'autrice
NON
MI PIACE MARY. PER FAVORE, PER FAVORE, PER FAVORE NON LEGGETE
QUESTA STORIA SE NON ODIATE MARY. Non vi piacerebbe, vi rattristerebbe
e quindi
rattristerebbe anche me.
Nota della traduttrice
Se
invece, come me, detestate la Mary post-HLV, credo che questa
piccola perla vi garberà assai. È una stupenda
one-shot post-series3 di earlgreytea68,
pubblicata su AO3 (x).
Buona
lettura!
Il
suo cellulare squillò alle 3:12. Non stava dormendo,
naturalmente. Era sdraiato
supino sul divano, lo sguardo fisso rivolto al soffitto; senza
guardare,
allungò una mano e trasse a sé il cellulare.
John.
Rispose
con un Pronto?
"Sono
padre da cinque minuti," disse John. Dal tono, pareva tanto esausto
quanto
contento.
Sherlock
disse: "Congratulazioni," e riattaccò.
Quindi
mandò un messaggio a Mycroft.
"Piccola
Watson" è confermata.
Quindi
rotolò via dal divano.
***
L'ospedale
alle 4:00 del mattino era più tranquillo di quanto non lo
fosse a mezzogiorno,
ma più animato di molti altri posti a quell'ora. Sherlock
scivolò attraverso i
corridoi a passo sicuro, sapendo esattamente dove andare
poiché tutto era stato
pianificato con precisione millimetrica. Non si era mai troppo
prudenti, in fin
dei conti.
John
stava misurando a passi frettolosi la stanzetta quando Sherlock
finalmente vi
giunse. Aveva un aspetto orribile, agitato e teso, i capelli ridotti a
un
groviglio per le infinite volte in cui vi aveva passato le mani. I
vestiti gli
pendevano flosci e spiegazzati addosso, gli occhi erano cerchiati di
rosso e le
palpebre erano pesanti per la stanchezza, ma sembrava pieno d'energia.
"Dov'è
Mycroft?" chiese John non appena Sherlock entrò. "L'hai
visto?"
"Non
ancora," disse Sherlock, in tono sorprendentemente tranquillo per uno
che
aveva appena finito di fumarsi due sigarette in rapida successione per
calmarsi. "Non preoccuparti, sta supervisionando tutto. È
questo che fa,
no?"
John
riprese a camminare in tondo e disse: "Hanno detto a Mary che
è stato un
parto difficile e dovevano fornire più ossigeno alla
piccola, come da programma,
pertanto la bimba è esattamente dove dovrebbe essere adesso.
Ma non credevo che
Mycroft ci avrebbe messo tanto per-"
"John,"
lo interruppe Sherlock, deciso. "Fammi vedere tua figlia."
"Va
bene," disse John, traendo un lungo sospiro. "Va bene."
Sherlock
seguì l'altro lungo il corridoio, guardandosi alle spalle
mentre procedevano e
assicurandosi che fosse tutto a posto, tutto come doveva essere, come
era stato
loro detto. Come da programma, dovevano tirare dritto e oltrepassare la
camera
di Mary. Come da programma, un'infermiera stava in piedi proprio
lì davanti e
montava la guardia.
John
sembrava non accorgersi dei tanti dettagli del piano che tutt'intorno a
lui si
verificavano secondo le aspettative; Sherlock odiava dover essere grato
a
Mycroft, nondimeno lo era, poiché chiaramente John sarebbe
stato di scarso
aiuto.
John
entrò direttamente nel reparto maternità,
muovendosi a passo sicuro tra le
incubatrici per raggiungere quella giusta, la cui etichetta diceva WATSON,
FEMMINA. John scostò la soffice coperta rosa
perché potessero vedere
all'interno.
"Eccola,"
disse John, con un tono di voce così orgoglioso che Sherlock
quasi si sentì
tenuto a mostrare l'umiltà che si conveniva all'incontro con
una creatura qual
era quella bambina.
Quindi
Sherlock si preparò e fece mente locale per assicurarsi di
avere la risposta
adatta da dare a un neo-papà che era chiaramente
già entusiasta, orgoglioso e
pieno di meraviglia. "È…" esordì
Sherlock, in cerca dell'aggettivo
più adatto. Era completamente avvolta in coperte rosa e
Sherlock faticava a
vedere altro su cui commentare se non, francamente, "rosa". Poi quel
frugoletto rosa si mosse, come se si fosse accorta di avere un
pubblico, e
fuori dalle coperte uscì un braccino con una manina con
cinque piccolissimi
ditini. Sherlock avvicinò la testa all'incubatrice e disse,
sbalordito:
"È una persona in formato mignon!",
stupito
dall'improvvisa verità di quella visione. E poi si
domandò se quella non fosse
stata in assoluto la cosa più fuori luogo da dire.
La
risposta di John, quantomeno, pareva divertita. "Che cosa pensavi che
sarebbe stata?"
Sherlock
si rialzò e si allontanò dall'incubatrice, mentre
la figlia di John smetteva di
dimenarsi e si calmava, ritornando a dormire. Sherlock sentì
la propria voce
dire: "Come facciamo a sopravvivere in quello stato, così
piccoli?"
"Non
lo facciamo da soli," replicò John.
"Dott.
Watson," disse Mycroft in tono maestoso dalla porta del reparto
maternità.
Sherlock
distolse lo sguardo dalla figlia di John quel tanto che bastava per
constatare
il compiacimento sul viso del fratello, un buon segno.
Mycroft
fece un piccolo gesto con la mano, indicando una delle infermiere, e
disse a
John: "Congratulazioni."
"È-"
esordì John, ma una delle infermiere andò
all'incubatrice, sollevò la bimba con
cautela e John, automaticamente, allungò le braccia per
prenderla, come se
l'avesse già fatto milioni di volte. Tenne la figlia in
braccio, guardandola
con un'adorazione che sfiorava la venerazione, e Sherlock
pensò che sarebbe
stato disposto a morire un'altra volta solo per poter vivere di nuovo
questo
particolare momento.
"Prenda
sua figlia, dott. Watson," disse Mycroft in tono professionale,
chiaramente impassibile davanti al quadretto padre-e-figlia, "e segua
Anthea alla macchina."
John
distolse lo sguardo dalla bambina appena il tempo necessario per
guardare
Mycroft e chiedere: "È sicuro?"
"Perfettamente
sicuro. Io e Sherlock la raggiungeremo nel giro di un'ora."
John
esitò, guardando Sherlock.
Sherlock
disse: "Ha ragione. Andrà tutto bene. Ci rivedremo tutti
molto
presto."
John
annuì, strinse più forte la bambina a
sé e si voltò verso Anthea, che,
avanzando verso di lui con il consueto ticchettio di tacchi, disse con
un
rapido sorriso: "Congratulazioni, dott. Watson."
"Grazie,"
disse John in tono quasi assente, la mente chiaramente concentrata su
altro.
Sherlock
li seguì fuori dal reparto maternità e rimase
accanto a Mycroft, guardando
Anthea, John e la bambina camminare lungo il corridoio
finché non svoltarono
l'angolo. Quindi, guardò il fratello.
"Posso
occuparmene io," disse Mycroft.
"No,
invece," ringhiò Sherlock. "Lei ha cercato di uccidermi. Me
ne occupo
io."
"Se
solo tu riuscissi a mantenerla su un piano professionale-" disse
Mycroft,
anche se il suo tono tradiva la consapevolezza che qualunque cosa
avrebbe
potuto dire sarebbe stata inutile.
"Tu
ti occupi di mettere al sicuro John e sua figlia, io me la sbrigo con
Mary," disse Sherlock, e s'incamminò lungo il corridoio a
passo di marcia.
Né Mycroft né la sua agente-infermiera fecero un
passo per fermarlo quando
entrò nella stanza di Mary.
Se
anche Mary stava dormendo quando era entrato, per il momento in cui
arrivò al
letto era del tutto sveglia. Le abitudini da assassina di livello
internazionale erano dure a morire, suppose Sherlock. Sedette sulla
sedia
accanto al suo letto, allungò le gambe e le sorrise. Lei
ricambiò lo sguardo,
guardinga.
"Questo
non ti ricorda di bei momenti?" chiese Sherlock. "Io e te insieme in
una stanza d'ospedale?"
"Dov'è
John?" chiese Mary, già insospettita.
Sherlock
non la biasimava per questo, naturalmente. Se l'era aspettato. Mary,
così
intelligente, che li aveva quasi abbindolati tutti a un prezzo
terribile.
"Sei molto più vigile di quanto lo fossi io l'ultima volta
che siamo stati
insieme in una camera d'ospedale. Te lo ricordi, vero? Hai fatto del
tuo meglio
per uccidermi e poi mi hai minacciato quando ero ancora praticamente
del tutto
privo di sensi."
Mary
lo guardò con freddezza, lo sguardo duro. Sherlock
cercò di ricordare che
sguardo gli avesse rivolto quando gli aveva sparato, ma non ci
riuscì. C'erano
dei buchi nei suoi ricordi circa quello sparo. John diceva che era
normale.
"Dov'è mia figlia?" disse Mary.
"Ah,"
disse Sherlock. "Probabilmente credi di aver partorito qui oggi, ma sui
documenti ufficiali leggerai che non è così. In
effetti, tu non hai una
figlia."
Mary
strinse i pugni. Sherlock li osservò. Quando lei
parlò, il suo tono non era che
un sibilo: "Che cosa credi di fare?"
"È
meglio che ti calmi," disse Sherlock in tono languido. "Questa stanza
è ora sorvegliata da agenti altamente addestrati. Persone
che, immagino,
potrebbero tenere testa persino a te, per quanto indebolita al momento.
Una
volta tanto, mio fratello ha assunto gente valida. Pertanto non credo
che te la
caveresti, stavolta, se cercassi di uccidermi."
"Dov'è
John?" chiese Mary. "Che cosa gli hai detto?"
"Niente.
Tu gli hai detto tutto quel che gli serviva di sapere. Quando hai
premuto quel
grilletto contro di me."
"Gli
avevi detto che ti avevo salvato la vita-"
"John
non è mai stato un idiota, Mary, per quanto tu possa pensare
il contrario. È un
medico. Mi ha trovato immediatamente dopo che mi hai
sparato, era
nell'ambulanza con me ed è rimasto in ospedale
finché non sono stato fuori
pericolo. Sapeva esattamente quanto grave fosse quella ferita. Quando
ho detto
che tu mi hai salvato la vita, non lo dicevo per il suo bene. Lo dicevo
per il tuo.
Per assicurarmi che tu abbassassi la guardia abbastanza da restare. Per
assicurarmi che tu potessi effettivamente credere di riuscire
a
cavartela. Perché, all'epoca, possedevi l'unica cosa che
potesse proteggerti
dall'ira funesta che ti avrebbe colpito per il quasi-omicidio di
Sherlock
Holmes: avevi dentro di te il figlio di John Watson. E, fortunatamente
per te,
voglio bene a John abbastanza da non rischiare di portargli via
qualcuno che
ama."
"Lui
ama me," disse Mary, il respiro che andava
accelerando. I suoi
occhi erano spalancati e a Sherlock pareva quasi di potervi vedere
attraverso,
un frenetico affastellarsi di pensieri. Cominciava ad andare nel
panico, pensò.
"Lui
ama la sua bambina. E per essere sicuro di averla, doveva riuscire a
tenerti
vicina, almeno per un pochino. Quindi ti ha perdonato tutto. E tu hai
pensato:
'Oh, che uomo sciocco e ingenuo che ho scelto, con un cuore troppo
grande e uno
spirito troppo generoso.' Hai ragione anche tu su questo. Ma quello
è, appunto,
il motivo per cui ha me."
"Che
cos'è che vuoi?" domandò Mary a voce bassa,
furiosa.
"Non
voglio nulla," disse Sherlock in tono leggero, alzandosi in piedi e
infilandosi i guanti con aria teatrale. "John e la bambina che oggi non
hai partorito sono stati portati in un luogo sicuro e protetto, via da
qui e
via da te. E quel che tu farai, quando sarai
dimessa da quest'ospedale,
sarà andare lontano da qui e lontano da loro.
Non cercherai mai di
contattarli né di vederli, o anche solo di avvicinarti a
loro. Sarebbe
preferibile che nemmeno pensassi a loro. Sapremo dove sarai, che cosa
starai
facendo e, se fossi in te, non ritornerei mai più su questo
continente. Non sei
l'unica persona disposta a uccidere per John Watson. Non lo sei mai
stata. È
stato questo il tuo errore fatale."
"E
sarebbe tutto qui? Pensi forse che ti lascerò portare via la
mia bambina-"
"So
che lo farai. Perché, in caso non facessi come ti dico,
userò tutte le prove che
ho per mandarti in prigione per il resto della tua vita. Le vere
prove.
Non la robaccia che hai messo su quella chiave USB per provare a
fregare John.
Tua figlia saprà esattamente chi sei. Un'opzione che non
sceglierai mai, perché
alla fine il tuo egoismo prevarrà e preferirai la
libertà a tua figlia."
Mary
rimase immobile a fissarlo, gli occhi pieni di gelido odio, ma non lo
contraddisse.
"Su
con la vita, Mary," disse Sherlock. "Non è forse proprio
quello che
volevi? Un nuovo inizio in un posto dove nessuno ti conoscesse."
Sherlock
si voltò per dirigersi verso la porta.
"E
riuscirai a vivere in pace con te stesso, vero?" gli gridò
dietro Mary.
"Dopo aver sottratto una bambina innocente a sua madre?"
Sherlock
si fermò e le lanciò un'occhiata da sopra la
spalla. "I file su di me ti
diranno che sono un sociopatico. Te ne sei accorta solo adesso?"
***
John
si trovava in una confortevole biblioteca, con il fuoco che
scoppiettava
allegro nel caminetto; sedeva in una poltrona e ammirava la neonata che
teneva
in braccio. Alzò lo sguardo subito quando Sherlock
entrò nella stanza e il suo
viso s'illuminò di affetto, di gioia, di euforia. Sherlock
chiuse la porta
dietro di sé e pensò a tutte le cose che avrebbe
fatto per far apparire
un'espressione come quella sul volto di John Watson.
"Dorme,"
disse John a voce bassa.
Sherlock
gli si avvicinò e disse: "La vita l'ha già
stancata tanto?"
John
gli sorrise, e aveva un'aria così felice che a Sherlock
quasi faceva male
guardarlo dritto in faccia; era un po' come guardare direttamente il
sole.
"Siete due spiriti affini tu e lei, Sherlock: ha già
giudicato tutti i
piccoli essere umani di questo mondo troppo noiosi per essere degni
d'attenzione."
Sherlock
incassò la battuta con qualcosa che pareva a metà
tra uno spasmo e un sorrisetto,
e fissò lo sguardo tra John e sua figlia.
John
alzò gli occhi con aria seria e disse: "È fatta?"
Sherlock
annuì una volta. "Sì."
John
inspirò profondamente e posò di nuovo lo sguardo
sulla figlia addormentata.
"È un bel posto, questo. Dimora di campagna?"
"L'abbiamo
presa in prestito per un po'."
"E
i proprietari sanno che siamo qui?"
"I
proprietari sono all'estero, per sfuggire a delle accuse di evasione
fiscale."
"Ma
pensa."
Ci
fu un rapido bussare alla porta ed entrambi alzarono lo sguardo su
Mycroft, che
aveva fatto il suo ingresso nella stanza.
"Scusate
per l'interruzione," disse Mycroft, il quale, strano ma vero, esibiva
un'espressione sinceramente contrita. "John, ci sono molte scartoffie
da
compilare. Si potrebbe aspettare, ma-"
"Sarebbe
meglio per la bambina se lo facessi ora?"
Mycroft
annuì rapidamente. "Prima è, meglio è."
John
si alzò in piedi, si voltò verso Sherlock e
disse: "Fuori le
braccia."
Sherlock
quasi inciampò all'indietro da tanto era allarmato. "Io non-"
"Dovrai
farlo, prima o poi."
"Davvero?"
chiese Sherlock, dubbioso.
"Non
fare il vigliacco," disse Mycroft, la voce intrisa di divertimento.
"Come
se tu avessi esperienza con i bambini!" Sherlock
gli lanciò uno
sguardo torvo, poi guardò John.
John,
che gli aveva chiesto di aiutarlo a salvare questa bambina. John, che
gli aveva
domandato se avrebbe voluto procedere con la vendetta, aiutarlo con un
piano
per tenere Mary accanto a sé finché non avessero
messo al sicuro la bambina,
poiché era preoccupato che una donna spaventata con le
abilità di Mary avrebbe
potuto benissimo scappare e sparire per sempre, con la figlia e tutto
il resto.
E Sherlock aveva acconsentito, ovviamente, e aveva detto a Mycroft di
non fare
niente che potesse mettere in pericolo la figlia di John Watson.
Pertanto, loro
tre avevano ordito un piano che aveva portato a questo momento, il
tutto per
dare questa figlia a questo padre.
John,
per il quale quella bambina era già senz'ombra di dubbio la
cosa più preziosa
al mondo. E John aveva in un qualche modo, fin quasi dal primo momento,
deciso
di fidarsi di Sherlock per il compito di
proteggerla. E ancora si fidava
di lui.
Sherlock
deglutì e obbedì all'ordine di John. Questi
spostò la bimba con cautela finché
non fu del tutto in braccio a Sherlock. Era così leggera che
Sherlock non era
sicuro se la maggior parte del suo peso fosse costituita da coperte o
meno.
"Non
farla cadere," disse Mycroft, secco.
"Andrà
benissimo," disse John. "Torno subito."
E
quindi lasciò Sherlock da solo nella stanza con la neonata.
Sherlock
la sorreggeva con attenzione, senza neanche osare muoversi, e
guardò fuori
dalla finestra, perché guardare lei lo rendeva nervoso.
L'alba si avvicinava,
avanzando lentamente attraverso la foschia. Sherlock cominciava a
distinguere
le sagome degli alberi sui prati.
La
bimba cominciò a contorcerglisi in braccio e a fare sommessi
versetti. Sherlock
la guardò spaventato.
"Non
muoverti," sibilò. "Non so bene come tenerti in braccio."
La
bimba cominciò a piangere, con acuti guaiti che mandarono
Sherlock nel panico.
John avrebbe sentito sua figlia piangere e avrebbe saputo che la colpa
era di
Sherlock.
"Shh,"
disse, disperato. "Non volevo dire questo. Certo che so come tenerti in
braccio. Non ti farò cadere. Non piangere,
non c'è niente da piangere."
Miracolosamente,
la piccola perse interesse per il pianto e si mise invece a guardarlo,
affascinata, come se si fosse appena accorta che lui poteva essere un
qualcosa
d'interessante. Era la prima volta che Sherlock vedeva aperti i suoi
occhi, la
prima volta che davvero la guardava. Era
impossibile, pensò, definire
che aspetto avesse: le fattezze del suo viso erano assurdamente
piccole. Ma
quegli occhi puntati su di lui erano, a suo giudizio, quelli di John.
Sherlock
li conosceva tanto bene da sognarseli, ed eccoli
lì, in una miniatura
priva d'imperfezioni che lo osservava con totale, completa e
incrollabile
fiducia.
Sherlock
quasi non riusciva a credere che correva il serio rischio di mettersi a
piangere proprio dopo aver implorato la figlia di John di non farlo. Ma
eccolo
lì, in piedi con in braccio un tiepido e solido miracolo che
John Watson aveva
creato, e non importava da dove venisse l'altra metà di lei,
perché lei era di John,
in un modo così pieno e totalizzante che il solo pensiero lo
faceva vacillare.
I raggi del sole s'insinuarono nella stanza, dorati viticci che
entravano
disegnando riccioli sul pavimento e facendo brillare la chiara peluria
sulla
testa della piccola. Sherlock Holmes se ne stava in piedi con una
neonata in
braccio e sentì l'amore nascere in lui per la seconda volta
nella sua vita.
Quando
la porta s'aprì, Sherlock cedette quasi all'impulso di
girarsi dall'altra
parte; era un riflesso automatico, poiché certamente la sua
improvvisa ed
estrema fragilità emotiva sarebbe risultata lampante. Ma,
invece di girarsi,
per una qualche folle ragione alzò lo sguardo e, per
fortuna, nella stanza vide
solo John, che chiuse la porta, gli sorrise e non commentò
sul fatto che
Sherlock, al momento, si fosse letteralmente sciolto per sua figlia.
"Non
l'hai fatta cadere," osservò.
"John,"
disse Sherlock in tono grave, serio. "È la cosa
più bella che abbia mai
visto."
John
continuò a sorridere mentre si avvicinava a loro e abbassava
lo sguardo sulla
piccola, i cui occhi spalancati erano perennemente puntati sul viso di
Sherlock.
Dopo
qualche istante, disse: "Allora, cosa ne pensi?"
"Di
che cosa?" chiese Sherlock, confuso.
"Pensi
che noi saremo in grado di crescere una bambina?"
Sherlock
sentì il proprio cuore mancare un battito, sebbene,
curiosamente, la sensazione
fosse alquanto diversa dal ricevere una pallottola in pieno petto.
"Noi?"
"Certo,
'noi'. È sempre 'noi', no? Sherlock Holmes e il dott.
Watson."
Sherlock
deglutì, mandando giù le precedenti emozioni, che
gli si erano impigliate in
gola, e si domandò che cosa gli avesse preso.
Guardò la bambina, ancora tra le
sue braccia ma, ora, con gli occhi chiusi, sentì la presenza
di John al suo
fianco e, cautamente, aprì una porta verso il suo futuro
sulla cui soglia aveva
sempre indugiato, temendo che non ne avrebbe mai avuta la chiave. "E la
bambina," aggiunse. Era soddisfatto che il suo tono suonasse
perfettamente
normale e non come se dovesse uscire dalla stanza e, magari, piangere
per un
imminente e imbarazzante crollo emotivo.
"Dovremo
darle un nome," disse John. "Qualche suggerimento al riguardo?
'Sherlock' non vale."
La
bimba sbadigliò e continuò a dormire come se non
riuscisse a concepire un luogo
più sicuro nel mondo di quello in cui ora si trovava.
Sherlock, sempre
tenendola in braccio, la guardò e disse: "Mi è
sempre piaciuto
Olivia."
Note
Per chi segue anche la mia
traduzione
di Nature
and Nurture,
avrete forse notato che Mycroft, in questa
versione, dà del lei a John, mentre, in N&N, si danno del tu. Ho
adottato qui il "lei" di cortesia perché l'intero contesto
mi
sembrava più formale, con una conoscenza tra i due non
così approfondita come
dall'altra parte.