I pensieri di prima mattina possono risultare
piuttosto pesanti.
Cascano
grevi piombando con un tonfo sordo,
depositandosi
per terra, smarriti e confusi.
Non
bisognerebbe mai pensare di prima mattina.
Lo
sapeva bene.
Eppure
commetteva sempre lo stesso errore.
Uno sbiadito sole si fa strada sgomitando fra le nuvole dense e grigie
che troneggiano nel cielo plumbeo di fine novembre e riscaldando debolmente le
panchine, inumidite dalla rugiada mattutina, del terrazzo del Pincio.
Entrambi, in religioso silenzio, fissiamo lo spiegarsi solenne e
maestoso della città ai nostri piedi, stretti nei pesanti cappotti.
La mia mano, coraggiosa sfidante del freddo pungente, scivola fuori dal
caldo accogliente della tasca del mio cappotto in flanella, posandosi sulla
marmorea superficie semi ghiacciata della panchina dove siamo seduti.
I tuoi occhi saettano dalla vista di questo squarcio di Roma alla mia
mano. Sulle tue labbra, sbavate di rossetto rosso, prende forma un sorriso
stanco. Anche sul mio volto compare un sorriso.
La mia mano non è più sola; la tua mano, più goffa ed umidiccia, la
riscalda.
“Saukerl, ma vuoi parlare?” la tua voce
squillante rompe il silenzio assonnato.
Sbatto le ciglia più volte quasi a volermi convincere che qualcuno ha
parlato. Arriccio le labbra che si deformano poi in una smorfia triste.
“Non parto più” affermo deciso puntando lo sguardo su uno dei mille
campanili che campeggiano nel cielo dormiente di Roma.
Tu socchiudi le labbra e scuoti la testa contrariata. “No, devi andare”
ribadisci risoluta.
Ti alzi in piedi e posi entrambe le mani sulle mie spalle ricurve,
schiacciate dal senso di colpa, che sono convinto di dover provare.
Abbasso lo sguardo che viene attratto da un volantino che volteggia
sospinto dal vento.
“Saukerl, ti sei rincoglionito in una notte?”
la tua domanda mi strappa un sorriso.
Come sempre.
Lei
aveva quella straordinaria capacità di cambiargli l’umore.
Con
una semplice affermazione o gesto.
Ne
era perfettamente cosciente dalla prima volta che gli aveva sorriso.
Tuttavia,
ogni volta che accadeva rimaneva puntualmente sorpreso.
In questo momento un ricordo riaffiora vivo e nitido nella mia mente.
Lo conservo intatto nei cassettini della mia memoria come una reliquia.
Il nostro primo bacio. Tu lo ricordi ancora? Sì, ne sono sicuro che lo
ricordi.
Era una domenica soleggiata di Maggio, il sei Maggio per la precisione.
L’orologio segnava le tre meno un quarto del pomeriggio, il caffè era appena
salito e l’aroma si diffondeva profusamente per tutta la cucina. Tu guardavi
distrattamente fuori dalla finestra da cui penetravano diversi fasci di luce.
Uno in particolare risaltava il rosso ciliegio delle tue labbra piccole
e piene. Ricordo che in quegli istanti pensai che eri perfetta.
Fu necessario raccogliere tutto il mio coraggio per risolvermi a fare
quella fatidica mossa. Mi avvicinai a te lentamente mentre inghiottivo la mia
saliva senza far rumore. Ero assurdamente nervoso.
Il tuo sguardo fu catturato nel mio e nel nocciola dei tuoi occhi lessi
la tua approvazione. Scuotesti persino impercettibilmente la testa per rendermi
ancora più sicuro. Avevi capito che ero agitato?
Credo di sì. Tu mi capisci meglio di chiunque altro.
Ora, a distanza di poco più di due anni, eccomi che ancora inghiotto la
mia saliva. Stavolta rumorosamente, non mi nascondo più dietro le apparenze di
una sicurezza che in realtà non possiedo.
“Ammettilo! Non vedi l’ora di liberarti di me, vero?” il mio tono vuole
essere beffardo, tuttavia non riesco a nascondere una punta di tristezza.
Tu ridi e ti siedi sulle mie gambe circondandomi il collo con il
braccio destro. Con le labbra appoggiate al mio orecchio sussurri scherzosa:
“Sì, non vedo l’ora di liberarmi di te”.
Afferri il mento e lo giri verso di te sfiorando con i polpastrelli le
guance, su cui è appena accentuato un filo di barba. “Sono due anni che ti
sopporto, credimi, non aspetterei la tua partenza per lasciarti” mi rassicuri.
“E poi magari tu mi lasci!” mentre lo dici, scoppi a ridere quasi a
voler rimarcare l’assurdità di quell’affermazione.
Sì, hai ragione. È semplicemente assurda.
Non
lo avrebbe mai ammesso ad alta voce,
tuttavia
ormai non riusciva nemmeno ad immaginare un’alba senza lei.
Rideva
al pensiero che era stata lei ad inseguirlo,
e più
volte si era dato dell’idiota da solo.
Ma
soprattutto ringraziava che la pazienza fosse un altro dei suoi pregi.
Ritorni seria e posi dolcemente un bacio sulla mia fronte intanto che
scosti i capelli che mi ricadano sul viso. In tutti i tuoi gesti mostri una
parte di te. In alcuni, sveli la tua parte determinata e cocciuta, come quando
sbuffi ai miei rimproveri, ignorandoli, nonostante tu sappia che ho ragione; in
altri, come in questo, mostri la tua dolcezza un po’ infantile, di cui ancora
sei capace.
A volte ho paura che tu cresca e che ti renda conto che non devi
aspettare la primavera per veder le margherite sbocciare sui prati.
Anche io mi concedo un gesto di tenerezza e strofino la guancia contro
la tua.
Nell’aria l’odore forte della resina che si mescola a quello
inconfondibile alla vaniglia nera della tua pelle.
Velocemente sfioro le tue labbra con le mie mentre Roma si sveglia,
animandosi con i suoi primi rumori mattutini.
Alzo lo sguardo verso il cielo che inizia a schiarirsi e scorgo un
aereo arrancare bucando le nuvole, anche tu mi imiti.
“Tra qualche giorno anche tu sarai su uno di quelli” affermi
indicandolo.
Io annuisco e rabbrividisco al solo pensiero. Ho sempre avuto paura
degli aerei.
“Fammi capire, oltre ad essere un paranoico, sei anche un cagasotto?” mi fissi perplessa e scuoti la testa sospirando
dalle narici.
“Sei proprio uno stupido saukerl” mi
rimbecchi sorridendo divertita.
Già, hai ragione, sono proprio uno
stupido saukerl.