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Autore: Obridis    13/07/2008    1 recensioni
Racconto ispirato ad una vecchia cronaca di Vampire: The Masquerade.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La pioggia mi aveva liberato le palpebre incrostate di fango e riportata alla coscienza dopo un buio gelido ed immobile che mi aveva sopraffatta all’improvviso, un buio senza nome calato su di me come una sciabolata. Nemmeno io avevo più un nome. Non so per quanto giacqui a terra con le braccia spalancate, le dita tese, il volto fradicio e dolorante, crocifissa dalla pioggia. So che non riuscivo, e non volevo, aprire gli occhi. I tuoni rombavano assordanti e vicinissimi, fulmini fulgidi brillavano rossastri dietro le mie palpebre serrate. Avevo paura. Sotto le dita sentivo la terra bagnata e radi fili d’erba. Sulle labbra e sulla lingua non avevo altro che terra. Un peso enorme mi gravava sul petto e non mi lasciava respirare. Eppure vivevo.

Provai a gridare e poi a tossire, liberandomi la gola dal terriccio. Solo allora aprii gli occhi, scoprendomi semisepolta nella terra smossa e bagnata che mi arrivava al petto. Il terrore e l’oppressione mi ottenebrarono gli ultimi brandelli di coscienza: lottai come una povera bestia, sola tra cielo e terra, spezzandomi le unghie, graffiandomi la pelle, strappandomi i capelli. Mi trascinai fuori dal mio sepolcro come una creatura dal ventre immondo della madre e barcollai verso il sentiero di ghiaia che avevo visto biancheggiare sotto i fulmini. Mi strinsi nelle braccia in cerca di conforto, calore, realtà. Non avevo idea di dove fossi finita, né come, e la notte non mi restituiva che immagini violente, fugaci e bidimensionali, illuminate dalla luce bianca dei lampi: ai miei occhi non si offrivano che pallide visioni di spettri. Cercai di concentrarmi sulla ghiaia, sui suoi sussurri sotto i miei passi dolenti, sulla sua friabile consistenza. Tesi le mani nel buio, le dita ridotte a tizzoni ardenti di dolore. La pioggia mi aveva inzuppato i vestiti sporchi di terra, appesantendoli e trasformandoli in una trappola, così inciampai nei miei stessi passi e caddi sulle ginocchia. Le mie mani colpirono una superficie ruvida e fredda, bagnata, e lì si aggrapparono. Fu un fulmine a svelarmi il nome di quella pietra, senza però offrirmi alcuna spiegazione.

Ero sulla lapide che copriva la tomba dove, appena diciassettenne, Leda era stata sepolta con un vestito da sposa. Era morta una notte d’estate spezzando il cuore a tutto il paese. Spezzando il cuore a noi ragazzini del condominio che l’avevamo vista quasi adulta e perfetta come le ragazze dei film, troppo bella per avere qualcosa in comune con noi. Leda. Erano passati undici anni, ma i ricordi della sua morte, gli unici che io possedessi in quel momento, mi riportarono indietro, alle prime grida della madre, al giorno afoso del suo funerale, alle infinite rose bianche sulla bara, all’assenza di Emanuele, il ragazzo che fino all’ultimo momento di vita non l’aveva lasciata. In quel momento mi accorsi di ricordare anche lui: Emanuele, il bel ragazzo apertamente ammirato come Leda, perfetto, educato, gentile. Quando lei morì, pallida bambola che nessuna medicina era riuscita a salvare, lui era accanto al suo letto a tenerle stretta la mano. Allora ci chiedemmo se il mondo sarebbe mai andato avanti per i protagonisti di quella storia; ci stringemmo e ci sforzammo di piangere perché ci sembrava la cosa più giusta da fare nonostante lo smarrimento avesse momentaneamente sostituito il nostro dolore.

Mi alzai. Avevo capito di essere nel cimitero del paese, poco oltre i cancelli di ferro battuto, sempre aperti, che da ragazzini ci divertivamo a superare di notte sfidandoci a vicenda. Era la stessa estate in cui Leda se n’era andata. Una civetta mandò il suo stridulo richiamo ed io mi coprii la testa con le mani, terrorizzata. Quella notte avevo dimenticato anche cosa fosse una civetta. Non riuscivo a chiedere aiuto: non ricordavo le parole e non capivo quello che la voce della pioggia continuava a sussurrarmi. Un nuovo lampo impresse nella mia retina l’immagine di mani sporche, graffiate e ritorte, tese verso il cielo. Vidi il bracciale di conchiglie che portavo al polso sinistro e che porto ancora. L’ultimo dono di Emanuele: non lo ricordai subito.

Ricordai però la mia piccola Dafne, che ne aveva uno uguale, ed il suo costumino da clown, la parrucca arancione, le bretelle colorate; ricordai che nel pomeriggio l’avevo accompagnata alla festa di carnevale dei suoi compagni d’asilo. Allora seppi di dover trovare un modo per tornare alla casa che sicuramente avevo e di dover andare a prendere la mia bambina perché non avesse paura. Ma, prima di tutto questo, avevo bisogno di nutrirmi. Era ciò di cui ero maggiormente cosciente, più della confusione, più della pioggia. Il primo fu un gatto. Uno di quei gatti nervosi, solitari e scaltri che vivono senza che nessuno si proclami il loro padrone. Stava scavando in un bidone dove marcivano i fiori che erano stati portati ai morti. Sarei tornata, pensai. Per portare un fiore a Leda, di cui non visitavo la tomba da anni nonostante fosse stata una ragazza che non aveva avuto il tempo di sbagliare e vivesse solo due piani sotto il mio. Nella fotografia incorniciata sulla lapide sorrideva, già provata dalla malattia, in un maglione azzurro che le aveva regalato mia madre. Nessuno seppe mai cosa le fosse accaduto all’improvviso, nel fiore di gioventù e bellezza: era diventata debole, pallida e taciturna, tormentata da incubi che l’avevano fatta sfiorire di giorno in giorno. Emanuele era arrivato proprio in quelle settimane a portarle gioia, restandole accanto ogni notte perché i genitori potessero riposare. Aveva dimostrato un enorme coraggio, eppure non era andato al suo funerale. Nessuno glielo aveva mai rimproverato, dopo tutto il dolore che doveva aver subito. Nessuno gli rimproverò nemmeno, ricordai, di aver iniziato ad uscire con Irene, la mia dirimpettaia, scappata di casa e sparita nel nulla la sera dei suoi diciotto anni, quando io non ne avevo ancora sedici.

Nessuno gli rimproverava neanche di essersi avvicinato a me appena un anno fa. C’era qualcosa di morboso nel suo continuare a corteggiare le ragazze del condominio in cui era morto il suo primo amore, ma nessuno gli aveva mai fatto una colpa nemmeno di questo: bastava parlare con lui e guardarlo negli occhi per comprendere la sua sensibilità e la sua forza, condividerne le opinioni. Tutti avevamo i nostri scheletri, dopotutto: il mio aveva delicati ricci castani. La mia bimba, nata d’inverno e non voluta da altri che da me.

Fu la pioggia a suggerirmi quei ricordi, a ricostruire gli ultimi a partire dalla fredda lapide su cui ero caduta? Seppi solo che qualcosa stava affiorando dall’oscurità, ma non il mio nome, non la mia voce, non tutto il resto. Solo Dafne ed Emanuele. Solo Dafne ed il terrore che fosse rimasta da sola con Emanuele. Mi feci strada verso i cancelli, il mormorio della pioggia che mi rimbombava nella testa e la mente ferita, vacillante, perduta. Dovevo tornare a casa. Dovevo salvarla. Dovevo...

“Amore.” La voce di Emanuele mi trafisse come una lama ed io mi voltai, temendo quel che avrei potuto vedere più di quanto già non temessi per me e la bambina. Era in piedi sotto la pioggia, gli occhi penetranti come schegge di cristallo nero, il volto composto in un sorriso compassionevole. Stringeva Dafne tra le braccia ed io pregai che fosse semplicemente addormentata, nonostante la pioggia, il freddo, la paura. Tentai di gridare, di farmela restituire, ma la voce era una cosa che già non mi apparteneva più, persa negli istanti bui del cambiamento. Allora corsi verso di lui, ma Emanuele fu abile a schivarmi, tranquillo come se non si fosse mosso affatto. La sua voce era una melodia rassicurante, il suo sguardo aveva il calore delle fiamme per una falena. Cercai di non farmi piegare dalla sua volontà.

“Dorme. Stai tranquilla. Dimostrami che non sei marcia” mi sussurrò sovrastando la voce della pioggia che mi gridava nella testa. “Dimostrami che non sei come le altre e ce ne andremo. Dimostrami che il mio sangue non ha avvelenato anche te.”

Mi fermai di fronte a lui. Non capivo davvero le sue parole, ma per una parte di me avevano un senso ed una ragione. Emanuele chinò il capo. Sembrò sofferente, implorante e vecchissimo sotto l’aspetto che non era mai cambiato dalla sera in cui lo avevo visto per la prima volta passare a prendere Leda. “Ti ho portato sulla sua tomba” disse. “Lei è stata la prima e non ce l’ha fatta. Non importa se non ti amo quanto amavo lei. Fammi solo capire che non sei impazzita e ce ne andremo. Saremo una famiglia. Io, te. Dafne.”

Se ero impazzita, di certo allora non lo sapevo. Ma sapevo benissimo quello che dovevo fare: proteggerla. Me lo diceva la ragione, me lo diceva l’istinto, me lo diceva la pioggia: era Emanuele ad essere del tutto folle, non io. Seppi allo stesso modo che le aveva uccise lui, che Irene non era mai scappata di casa. Avrebbe ucciso anche me. Sorrisi e tesi le braccia facendogli capire che desideravo soltanto essere stretta e rassicurata. Sorrise anche lui, assumendo un’espressione dolcissima e fragile. “Stavolta ha funzionato”, ha detto.

Ci stringemmo in un unico abbraccio. Poi seguii quello che stava urlando il mio istinto, ripetendo i gesti con i quali avevo trovato nutrimento prima dell’arrivo del mio assassino. Lo baciai. Lo baciai e lo strinsi tanto che divenne cenere tra le mie dita.

Dafne scoppiò a piangere tra le mie braccia, terrorizzata almeno quanto me ed infreddolita nel suo costume di carnevale. La cullai, rassicurandola, le baciai i capelli e la portai via dal cimitero pur non sapendo dove andare. Avrei trovato una strada, un rifugio, la forza per continuare a proteggerla. Dovevo. Speravo soltanto che prima o poi riuscisse a dimenticare quella notte. Lo spero ancora sebbene nel sonno si agiti preda di incubi che io non riesco a scacciare. Non ho mai più ricordato il mio nome, ma non è importante: da allora sono soltanto sua madre, in fuga con lei dal bacio del sole e dai miei simili. Prima o poi ci prenderanno, mi dico nel buio quando sbarro gli occhi e la stringo a me ascoltando i battiti furiosi del suo piccolo cuore, in attesa che se ne vadano, che ci lascino in pace. Prima o poi ci prenderanno. Ma, le notti di pioggia, siamo al sicuro. La pioggia sa sempre dirmi cosa dobbiamo fare.
  
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