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Autore: Jo_March_95    17/04/2014    3 recensioni
Non sono mai realmente spoglia, sento le mani di Terry aprirmi le labbra e passarmi le dita tra i denti, come si fa con le bestie al rodeo; sento lo sguardo pesante di un cliente del bar che avrà scavato un buco tra le mie mutande, con quella prepotenza a raggi X; sento la voce di Lip entrarmi in gola e chiedermi un figlio pazzo e demente come me; sento addosso l’orgasmo di Karen che mi soffia polvere di troia sugli occhi; sento l’alito pesante di chiunque abbia mai provato a farmi rilassare; sento i capezzoli induriti dal terrore mentre la maniglia di casa scricchiola e mio padre è pronto a rendermi donna.
Non sono mai del tutto libera, riesco a stento ad ossigenarmi, non potrei mai permettermi il lusso di respirare.
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Don't come closer it's dark inside.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mandy Milkovich, Mickey Milkovich
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sono sempre le solite cazzate a tracciare il profilo della vita banale di quelli come noi.
Semplicistica lotta alla sopravvivenza, un’esistenza spoglia di qualsiasi consolazione, resta esposta solo l’ossatura marcia dell’accettazione.
Quelli della periferia girano attorno al centro senza mai integrarsi, portano addosso l’eredità somatica di chi è fottuto a vita a priori.

La mattina ti svegli, eppure non hai mai realmente dormito; il giorno esci di casa ma non ti scrolli ma di dosso la condanna di una dimora nel Southside.
Bella merda.
E’ tutto piuttosto normale, visto dal basso. Non ci sentiamo formiche, non ci sentiamo granelli.
Semplicemente riconosci da subito di essere solo marmaglia, appiccicaticcia e ingombrante.
Se tocchi qualcuno è solo per marchiarlo,se tocchi qualcuno non ci speri fino in fondo di poter essere risucchiato e non dover mai più sopportare l’azione ustionante del sole.

Abbiamo visi grigi come il fumo che producono i nostri polmoni, abbiamo dita frenetiche che odorano di sostanze organiche e cemento.
Un bel cliché vederci scappare per strada con una pallottola tra le scapole, un bel cliché sapere di dover ritornare a casa come iene affamate in attesa di una punizione dall’alto.

C’è chi prova a spingersi oltre i confini, si affaccia tra le sbarre di freddo ferro immaginario e crede di respirare nel fetore da discarica che i borghesotti riversano fino a noi.
Sono loro a farmi pena, chi si affida alle illusioni credendo sia una via sicura di evasione, è la prova del fallimento che siamo.

Una volta sono caduta anche io su un ostacolo del genere, provando ad ingoiare la natura malata della legge che ci intrappola, sono riuscita solo a restare in apnea con la gola dilatata. E’ come vivere sospesi, è come voler dimenticare mentre i ricordi cantano litania mortali attorno al tuo orecchio.

Mandy Milkovich, quella troia di strada, piccola delinquente dai capelli corvini e gli occhi affilati, ecco cosa si dice di me.
Nel bar all’angolo gira la voce che sia disposta a baciare il cazzo di chi mi strappa un pompino dai denti, sono reticente ma posso essere addestrata, graffio ma lascio solo segni di libido sulla pelle.
Sono troppi i fortunati con le dita pesanti ad avermi spalancato le cosce, nessuno ha mai trovato la pentola d’oro.
Una volta messi di fronte all’evidenza è sempre troppo tardi, vengono risucchiati dall’entropico marciume e diventano parte del sistema.

La sera, andare a letto è sempre più difficile.
E via a passare il cotone sui lividi che non si cancellano, e passi sfilarsi la maglia un po’ sfilacciata a furia di tirare, e va bene far scivolare i pantaloni senza toccare la zip, così, per istinto … è ciò che resta a farmi paura, è ritrovarmi nuda di fronte a me stessa, con le dita che scavano in cerca di strati di merda da esfoliare, ma è solo pelle quella che mi ricopre.
Passo il palmo tra i fianchi, che sono stretti e sono sporgenti ma nessuno ha mai provato rimorso nell’addentarli con l’appetito famelico della perversione; lascio strofinare le caviglie tese e forse un po’ gonfie perché stare inginocchiata sui tacchi per tutto il giorno non aiuta la circolazione; unisco le braccia al petto e le clavicole premono ad ogni respiro.

Non sono mai realmente spoglia, sento le mani di Terry aprirmi le labbra e passarmi le dita tra i denti, come si fa con le bestie al rodeo; sento lo sguardo pesante di un cliente del bar che avrà scavato un buco tra le mie mutande, con quella prepotenza a raggi X; sento la voce di Lip entrarmi in gola e chiedermi un figlio pazzo e demente come me; sento addosso l’orgasmo di Karen che mi soffia polvere di troia sugli occhi; sento l’alito pesante di chiunque abbia mai provato a farmi rilassare; sento i capezzoli induriti dal terrore mentre la maniglia di casa scricchiola e mio padre è pronto a rendermi donna.

Non sono mai del tutto libera, riesco a stento ad ossigenarmi, non potrei mai permettermi il lusso di respirare.

Non è il genere di storia che suscita compassione, nessuno vuole condividere il dolore di un rottame che si ostina a funzionare.
Non è il genere di storia che racconteresti in giro, si sa che la gente non vuole sapere.
E’ più facile bendarsi gli occhi di ottusa morale e vedermi attraverso la lente distorta dell’ingiustificabile virtuosismo borghese.
Il corvo nero, la sirena degli inferi.
Cammino con gonne corte e biancheria pulita così da essere sicura di “essermelo meritato” quando l’ubriaco di turno si avvicinerà con il cazzo in mano, pronto a sbattermi sul primo bidone; indosso anelli sul viso e borchie sul petto in modo da risultare senza speranze, troppo persa per sprecare del tempo a cercare di salvarmi; aspiro sostanze illegali e ostento un falsa dignità con le pupille dilatate, sicuramente risulterò avvezza a qualsiasi uso si voglia fare di me.

Io non esisto, io non esisto, io non esisto.

Non esisto mentre applico mascara rubato sulle ciglia umide, non esisto mentre passo inosservata sotto gli occhi di chiunque abbia il potere di salvarmi, non esisto mentre la gente mi fischia dietro e non esisto quando inspiegabilmente mi fischia dentro, con la faccia tra il seno acerbo.
Sono invisibile agli occhi del consulente scolastico, sono impalpabile mentre Terry riporta in vita la mamma, con la lingua tra le mie gambe.
Afferra i capelli e ne strappa a manciate,mi accusa di averlo abbandonato di nuovo, mi sussurra all’orecchio che “Mandy chiede sempre di me”, si augura non diventi una cagna come sua madre.
Ho le sue impronte digitali ovunque, l’odore del suo tabacco scadente risale fino all’esofago.
 Lo sterno è infiammato di terrore mentre respiro il suo alito, ho i polsi intorpiditi dal suo peso morto che schiaccia ma non riesce a rompere nessuno dei frammenti del mio essere.

Sono una bambola ma non mi va di giocare, sono una bambola ma non riesco a smettere di sentire, sono una bambola ma anche da rotta non mi danno tregua.

Il viso spigoloso contornato di schiaffi, le cosce snelle decorate da capillari esplosi, le mani frenetiche legate da frasi paralizzanti.
Da piccola,nei libri di favole, provavo disgusto per la principessa e la sua pelle rosea.
Cercavo invece, con le pupille lucide, la storia nella storia.
La vita dell’orco, che prima di varcare la soglia e andare a morire per mano del principe, aveva baciato la fronte della figlia, pallida e ossuta, promettendo di strapparle i vestiti di dosso con le mani purificate dal sangue blu dell’ennesima vittima. Lei, scrollando la testa scura, aveva accennato un sorriso, perché in fondo era normale, perché forse quella volta non avrebbe fatto così male.
Se non soffri non urli, se non urli non lo fai agitare. Non ne esci a pezzi. Solo consumata.

Da piccola non giocavo di fantasia, mi nutrivo di realtà e la presentavo agli altri come menzogna.
Che lo sapevano tutti di Terry e delle sue tendenze, ma nessuna prova era sufficiente.
Lo sbattevano in galera e lui tornava, lo mettevano agli arresti e lui tornava, finiva al pronto soccorso ma poi tornava.
Sempre.
Ero io ad aprire la porta, ogni volta.
I primi tempi devo aver persino sviluppato una specie di comportamento sintomatico, bastava sentire il suo peso sui gradini e mi ritrovavo con le mutande fradice prima ancora che bussasse sulla porta con le nocche consumate.
Mickey correva d indossare la maschera da bravo figliuolo, sorrideva con la faccia livida e qualche grammo di roba sul fondo della tasca dei pantaloni.


Durante le cene non può esserci troppo silenzio, il silenzio lo irrita. E non si può parlare perché le parole sono troppo veloci per chi le insegue con un fardello di alcool nelle vene.
Iggy è scemo perché quando aveva tre anni non voleva mangiare e faceva troppe storie e i capricci mandano Terry in bestia.
E’ finito in ospedale con 200 ml di sapone per i piatti nello stomaco, ha urlato talmente tanto durante la lavanda gastrica che papà l’ha dovuto picchiare di nuovo.
Non si è mai ripreso. Non usa neppure le posate quando mangia, succhia direttamente dal piatto. Terry ora semplicemente lo ignora.



A scuola non si poteva dire nulla, tutti ci vedevano tremare e lo spostamento d’aria delle molecole di terrore faceva più paura a loro che a noi.
Aprire la bocca equivaleva a stordirli con il fetore della nostra esistenza, dar voce al passato avrebbe causato un’emorragia incontenibile.


Tra le braccia di Lip mi sentivo al sicuro, tra le braccia di Lip potevo dissolvermi.
Scivolargli giù lungo la gola, leccare le ferite ai suoi neuroni stakanovisti, inumidirgli i polpastrelli con dichiarazioni improvvise.
“Nessuno è mai stato così buono con me”, lo ripetevo a voce alta mentre mi sbatteva la porta di casa alla spalle, lo urlavo tra i denti quando mi prestavo ai suoi giochetti dopo una serata “da Terry”, era la litania delle notti passate a guardarlo mentre provava a spersonalizzare la mia presenza e sostituirla con quella di Karen.

E’ bastata un’unica azione da Milkovich per farlo scappare come un cucciolo ferito, è bastata un’auto sporca di sangue e un danno celebrale per restare segregata a vita nella casa degli orrori.
Di nuovo.
Dimmi tu cos’è peggio, se dover usare un pannolino o invocare l’incoscienza pure di non sentire il caldo seme incestuoso di tuo padre giù le la trachea.
Dimmi tu cos’è peggio, le urla di Lip e il suo sguardo di disprezzo o la cieca gelosia di Kenyatta e la sua stretta che mi blocca il respiro.

Credo di meritarlo.

La schiena indolenzita e le braccia pesanti al mattino, la gola secca e aloni scuri sparsi sul torace, la pesantezza opprimente di questo eterno presente.
Mickey lancia sguardi taglienti pur di non dovermi vedere, ingoia i neuroni sperando di dimenticare le urla della notte precedente all’ennesimo arresto di Terry e le unghie spezzate nel tentativo di sopravvivere a Kenyatta.
Lui me li legge negli occhi gli sputi mortificanti di Lip che mi dipinge come il frutto marcio che sono, invidia invece la fiducia di Ian nel vedermi correre via, un giorno.

Mickey è come me, mai stato intero, non perde tempo a contare i pezzi.
Mickey è come me, si vede riflesso nella mia timidezza cronica da stupro, nelle smorfie di rassegnazione, nella passiva accettazione di ciò che accade.

Tutto mi colpisce, tutto mi scalfisce, nulla mi distrugge.

Io non esisto, io non esisto, io non esisto.


                                                                                                 Aspetto il giorno in cui sarà finalmente vero.
  
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