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Autore: tyene_sand    18/04/2014    3 recensioni
Sono trascorsi duecentocinquanta anni dalla caduta di Galbatorix. Ad Ellesméra, Arya e Fìrnen si preparano per andare incontro al proprio destino.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Arya, Eragon, Fìrnen, Saphira | Coppie: Eragon/Arya
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Not a Queen, a Rider

 
    La sala del trono del Palazzo Tialdarì, affollata di nobili e notabili, risplendeva nella calda luce di un pomeriggio d’estate. Sul trono nodoso sedeva Arya, figlia di Islanzadi, Cavaliere del drago Fìrnen e regina degli elfi da ormai duecentocinquanta anni. Malgrado l’età avanzata, Arya aveva ancora l’aspetto e le energie di una ventenne. I capelli neri, lucidissimi e setosi, ricadevano liberi sulle spalle, tenuti indietro sulla fronte da un leggero cerchio d’oro delicatamente poggiato sul capo. Il suo abbigliamento, benché regale, era molto semplice: una tunica bianca dal tessuto quasi impalpabile, impreziosita da ricami verde smeraldo che rappresentavano foglie e piante presenti nella Du Weldenvarden. Il suo portamento era in tutto e per tutto quello di una regina, mentre sedeva ben eretta, con lo sguardo rivolto verso il fondo della sala. L’unico indizio della sua vetustà erano, ancora una volta, i suoi brillanti occhi verdi, profondi e saggi, ma al contempo vivaci ed espressivi.
    Al suo fianco sedeva suo figlio, il piccolo Evandar, di soli tre anni. La regina non aveva voluto rivelare nemmeno ai suoi più stretti collaboratori ed amici l’identità del padre del bambino, e questi non avevano potuto far altro che accettare la sua decisione e prendere atto della nascita del piccolo per poi coccolarlo e viziarlo come accadeva con tutti i bambini elfici. Bambino vivace, caparbio, intelligente, Evandar sembrava avere un’inclinazione naturale per l’uso della magia, anche se la cosa che gli piaceva più di tutte era volare sul dorso di Fìrnen e chiedergli di raccontargli storie dei tempi passati. Gli occhi verdi, identici a quelli di sua madre, erano spesso coperti dalla folta frangia di capelli castani, sicura eredità del padre; le sue orecchie erano appuntite come quelle di un elfo.
    Accovacciato dietro il trono nodoso stava il drago dalla squame color smeraldo.
    Arya era completamente immersa nei propri pensieri, in placida attesa degli ospiti che di lì a poco avrebbero fatto il loro ingresso nel palazzo.  In tutti questi anni, non ricordo di averti sentita più felice, piccola mia, neanche quando è nato il piccolo-due-gambe-orecchie-a-punta, la voce profonda di Fìrnen si intromise nelle sue riflessioni. Ah, Fìrnen! Domani, finalmente, il nostro destino si compirà. Non posso che esserne felice, dopo aver anteposto la felicità del mio popolo alla mia per tutti questi anni. Non che io me ne penta, ma è arrivato il momento di seguire il nostro cammino, rispose la regina. Non sei felice all’idea di rivedere Saphira?
Certo, Arya, ma non nel modo che pensi tu. Contrariamente a voi due-gambe, draghi non scelgono un compagno per la vita.
Menti, Fìrnen. Dimentichi che io posso sentire le tue emozioni, oltre che i tuoi pensieri, lo redarguì lei.
    Un messaggero attraversò con grazia la sala per poi rivolgersi ad Arya: “Maestà, Eragon Ammazzaspettri, Capo dell’Ordine dei Cavalieri dei Draghi, la dragonessa Saphira e dodici dei loro allievi chiedono di essere ammessi alla vostra presenza.”
“Che entrino”, fu la risposta. Pochi istanti dopo, Eragon Ammazzaspettri, Saphira e i loro allievi fecero il loro ingresso nella sala. Anche Eragon, così come Arya, manteneva lo stesso aspetto di quando, più di duecento anni prima, si erano conosciuti. I capelli castani erano più lunghi di quanto erano stati quando il giovane aveva solo diciassette anni, mentre gli occhi nocciola erano diventati più saggi, consapevoli. Indossava una tunica blu dello stesso colore delle squame di Saphira, il suo drago, e sulle spalle un mantello di un blu più scuro. Accanto a lui stava Saphira, alle sue spalle sei dei suoi allievi con i rispettivi draghi.
    Lui ed Arya si guardarono intensamente negli occhi per un breve istante, poi il Cavaliere fece per parlare. Ma prima che Eragon potesse aprir bocca per pronunciare la consueta formula di saluto, “Papà!” gridò il piccolo Evandar, precipitandoglisi incontro. “Evan!” la voce di Arya, allarmata,  risuonò tra i muri lignei del palazzo, mentre si alzava di scatto dal trono con un movimento fluido, cercando di afferrare il figlio. Questi però aveva già raggiunto Eragon, che si era chinato per accoglierlo tra le sue braccia e ora si ergeva fiero al centro della sala, tenendo in braccio il principe degli elfi.
    Fu come se una folata di vento glaciale si fosse insinuata nella sala. Tutti i presenti, elfi, draghi e Cavalieri, avevano osservato la scena con un’espressione attonita. Nulla del genere si era mai visto in precedenza alla corte di Ellesméra. Eragon e Arya erano immobili l’uno di fronte all’altra, fissandosi. Evan, in un gesto per lui ormai abituale, teneva il visetto poggiato contro il petto del padre. Gli elfi iniziarono a mormorare tra di loro. Fìrnen si mosse per essere più vicino al suo Cavaliere. Lord Däthedr, il più fidato collaboratore della regina, fece un passo avanti, rivolgendosi a lei con queste parole: “Arya Dröttning, credo di parlare a nome di tutto il Consiglio quando dico che è per noi una grande sorpresa ed un grande onore venire a sapere che Evandar Dröttningu è, in realtà, anche Evandar Eragonsson.” Ad Arya non sfuggì la domanda implicita nel breve discorso dell’elfo. Dopotutto, era risaputo che ciò che un elfo non diceva era molto più importante di quello che diceva. Malgrado la tensione fosse ancora nell’aria, e Däthedr attendesse una sua replica, la regina alzò una mano, intimandogli di tacere, per poi tornare a rivolgere il proprio sguardo verso il Cavaliere e loro figlio.
    “Atra esterní ono thelduin, Arya Dröttning” iniziò Eragon, pronunciando la formula di saluto che lei stessa gli aveva insegnato nei boschi della Du Weldenvarden secoli prima.
“Mon’rar lífa unin hjarta onr, Eragon Shur’tughal.”
“Un du evarínya ono varda” concluse l’uomo. Poi toccò a Saphira salutare la regina, e dopo ancora ai loro allievi, una volta che li ebbero presentati. “Vostra maestà, questi sono Énya e il suo drago, Yëlwir” disse il Capo dell’Ordine dei Cavalieri, indicando una ragazza umana sui vent’anni e il suo drago color nocciola. “Poi ci sono Gar’rhumr e la dragonessa Shjadr” indicò un giovane urgali e il drago giallo senape alle sue spalle. Poi fu il turno di un umano sui sedici anni e del suo drago acquamarina, due giovani elfi gemelli i cui rispettivi draghi erano viola e malva, infine un nano di pochi anni e la sua dragonessa arancione. Finiti i convenevoli, però, Arya non potè sfuggire alle implicite richieste di spiegazioni dei membri della sua corte.
 
    Quando Eragon era diventato il suo compagno, oltre un secolo prima, Arya non aveva neanche osato immaginare che un giorno avrebbero potuto concepire un figlio. Lui era per metà elfo, certo, ma rimaneva anche per metà umano.
    La loro relazione era progredita lentamente nel corso dei secoli ma, dal momento che i loro incontri non erano frequenti, entrambi erano restii a sprecare anche un solo minuto del tempo che avevano a disposizione per stare assieme. Quando, qualche mese dopo l’ultima riunione dei Cavalieri sull’isola di Nuova Vroengard da lui indetta, Arya lo aveva divinato per comunicargli che avevano creato una nuova vita, Eragon aveva improvvisato un viaggio diplomatico in Alagäesia, nel corso del quale aveva fatto visita ai re dei nani e degli umani, per poi fermarsi ad Ellesméra in coincidenza con l’ultimo mese di gravidanza di Arya. D’altronde, la profezia di Angela diceva che non avrebbe mai più vissuto in Alagäesia, ma non menzionava il fatto che lui andasse in visita da qualcuno.
    Eragon non aveva potuto tenere in braccio Evan appena nato. Nessuno era al corrente del suo rapporto con Arya, anche se nel corso degli anni erano inevitabilmente girate diverse voci riguardo a una possibile relazione tra la regina degli elfi e il Cavaliere. Entrambi erano consapevoli di ciò, così come del fatto che la loro relazione non sarebbe stata ben vista finchè Arya fosse stata regina: il fatto che loro fossero compagni comportava che vi fosse un’alleanza strettissima tra due delle personalità più influenti di Alagäesia, benché Eragon non vi risiedesse più stabilmente da più di duecento anni, e ciò avrebbe potuto influire sugli equilibri politici del continente. Dunque Eragon aveva dovuto limitarsi a congratularsi con la propria compagna, osservando da debita distanza il suo volto trasfigurato dalla gioia e dalla fatica, le sue braccia che stringevano teneramente il neonato, il suo sguardo pieno di adorazione, di amore. In quel momento, mentre altri membri della corte affollavano la stanza da letto della regina per rendere omaggio a lei e al bambino, Eragon aveva sentito una fitta di gelosia stringergli il cuore. Arya non avrebbe mai amato lui quanto amava il piccolo, questo era sicuro. Fortunatamente, Saphira aveva interrotto tali pensieri facendogli notare quanto fosse infantile e ridicolo sentirsi surclassati dal proprio ‘cucciolo’. Eragon aveva potuto stringere a sé il bambino per la prima volta alcuni giorni dopo, poco prima del loro ritorno a Nuova Vroengard. Arya lo aveva convocato nelle proprie stanze e, dopo aver pronunciato un incantesimo che li proteggesse da ascoltatori indesiderati, aveva mormorato: “Dovremmo scegliere un nome.” Delicatamente, come se stesse trasportando la cosa più preziosa al mondo, gli aveva messo il piccolo tra le braccia, insegnandogli come tenerlo. Gli occhi di Eragon si erano riempiti di lacrime. “Ѐ bellissimo, Arya. Ti somiglia tantissimo”, era riuscito a sussurrare, con la voce rotta dal pianto. Avrebbe voluto chiamarlo Brom, in onore di suo padre, ma dare al principe degli elfi un nome da umano sarebbe sembrato alquanto sospetto, dunque alla fine aveva acconsentito a dargli il nome del padre di Arya. Baciando la fronte di Evan aveva mormorato: “Questa volta partire sarà ancora più duro del solito.” Così era stato. Al momento di salutarsi, gli occhi di entrambi erano velati di lacrime, e l’immagine di Eragon piangente con Evan in braccio aveva tormentato Arya per molto, molto tempo.
 
    Ora, tre estati dopo la nascita di Evan, Arya e Fìrnen stavano finalmente per andare incontro al proprio destino. Il giorno successivo all’arrivo dei Cavalieri ad Ellesméra Arya, seguita da Fìrnen e dal figlio, si era presentata nella sala del trono indossando dei comodi abiti di pelle, la corona di regina sul capo. Nella sala l’attendevano già i membri della corte, i re Orik e Ajihad, Eragon e Saphira con i loro allievi e, infine, Lord Däthedr. Malgrado l’emozione, Arya manteneva l’espressione composta ed impassibile di sempre. La cerimonia sarebbe stata officiata da uno degli anziani di Ellesméra. Questi, un elfo di oltre mille anni di nome Naewren, vecchio quasi quanto Rhunon la fabbra, dopo diversi minuti di convenevoli si rivolse direttamente ad Arya: “Arya Dröttning, figlia di Islanzadi e di Evandar, sei dunque decisa a rinunciare al trono che fu di tuo padre?” “Sì”, fu la risposta. “E chi hai indicato come tuo successore?” “Lord Däthedr, Naewren-elda.” “La tua scelta è stata approvata dai membri delle nobili case qui presenti?” domandò dunque l’elfo, rivolgendosi alla folla in ascolto. Una volta ricevuta la risposta affermativa, tornò a rivolgersi ad Arya: “Cedi ora la corona, Arya figlia di Islanzadi, e sii libera di seguire il tuo cammino. Per molti anni hai servito con onore il nostro popolo, e di questo ti saremo eternamente grati.” Arya tolse quindi la corona dal proprio capo, poggiandola su di un cuscino che le veniva porto da un servitore. La corona venne dunque offerta a Däthedr, il quale dovette ribadire formalmente il proprio consenso a diventare re. Il resto della cerimonia di incoronazione trascorse per Arya in un’atmosfera quasi di sogno, tanto le pareva incredibile di essere finalmente libera dagli oneri che l’essere regina comportava. Sorridi, piccola mia. Ora siamo liberi!
     Una volta che la cerimonia di incoronazione si fu conclusa, e il nuovo re ebbe giurato di agire sempre nell’interesse del proprio popolo, questi si rivolse alla ex-regina: “Arya Svit-kona, finora hai servito il nostro popolo con grande coraggio e abnegazione. Te ne saremo eternamente grati. Le porte di questo palazzo, nel quale sei nata e cresciuta, saranno per te sempre aperte.”
“Le vostre parole mi lusingano, Maestà. Io e Fìrnen speriamo di riuscire a servire al meglio il nostro popolo e tutti gli altri, in qualità di drago e Cavaliere.”
    Mentre diceva ciò, Eragon le si avvicinò, portando con sé un mantello verde smeraldo. Ponendosi di fronte a lei, con un gesto tanto fluido quanto quelli di qualsiasi elfo glielo pose sulle spalle, per poi allacciarglielo sotto al collo. Allungò il braccio destro verso di lei, poggiò la mano sulla sua spalla sinistra e disse: “Arya, Cavaliere del drago Fìrnen, ora sei a pieno titolo un membro dell’Ordine, e per tutta la vita ne farai parte. A nome di tutto l’Ordine, ti do il benvenuto.” Uno scroscio di applausi accolse queste parole, assieme all’intenso bagliore di felicità negli occhi dell’elfa. Ora, Fìrnen. Ora finalmente siamo liberi. All’unisono, Fìrnen e Saphira emisero un ruggito di gioia.
 
    Lasciarono Ellesméra alcuni giorni dopo. Quando si accamparono per la notte, la Du Weldenvarden era già lontana. Arya, seduta su una collinetta, osservava rapita l’orizzonte, sul quale si stagliavano le figure dei draghi in volo, appena partiti per andare a caccia. Evan, dal canto suo, sembrava non sentire affatto la fatica del viaggio, e correva in tondo attorno alla madre. “Mamma, mamma! Domani posso viaggiare con papà e Saphira? Saphira ha detto che sarà un onore!” “Va bene, piccolo. Ma prima devi chiederlo a tuo padre.” Ancora più eccitato, Evandar era schizzato via come una saetta, correndo verso gli allievi di suo padre. Da quando gli era stato detto che da quel momento in poi avrebbe vissuto assieme ai Cavalieri, era impossibile farlo stare fermo. Sorridendo tra sé e sé, Arya si chiese se anche Eragon fosse stato così da bambino. Poco dopo, l’oggetto delle sue riflessioni si materializzò al suo fianco. Mettendole una mano sulla spalla destra, Eragon le domandò dolcemente: “Rimpiangi di aver fatto questa scelta?” Con delicatezza, la mano di Arya si posò su quella dell’uomo. “No. Rimpiango i luoghi della mia infanzia, così come so che rimpiangerò Alagäesia una volta che me la sarò lasciata alle spalle. Ora però la mia esistenza e quella di Fìrnen sono veramente complete.” Eragon era sul punto di sfiorare la sua fronte con le labbra, quando Evan si fiondò su di loro ridendo. “Papà, domani posso volare con te e Saphira? Lei ha già detto di sì!” “Certo che puoi, Evan. Se tua madre dice che va bene.” Arya non potè far a meno di ridere. “Papà… ma se tu e la mamma siete Cavalieri, allora da grande farò il Cavaliere anch’io?” Questa volta fu Eragon a scoppiare a ridere. “Forse, Evan… forse. Per adesso, è tutto perfetto così.”
 
 
 
 
 
Salve a tutti! È la prima volta che mi capita di pubblicare qualcosa in questo fandom, e spero di essere riuscita a mantenere IC i personaggi. Credo che la fiction si spieghi da sé, anche se vorrei fare un appunto sugli appellativi di Arya. Nel momento in cui non è più regina, Arya non è più ‘Arya Dröttning’, ma chiamarla ‘Arya Dröttningu’ secondo me avrebbe solo aumentato la confusione tra i due termini (‘Dröttning’ significa ‘regina’, mentre ‘Dröttningu’ vuol dire ‘figlio/a della regina’), dunque ho optato per ‘figlia di Islanzadi’, tenendo presente che ‘Islanzadisdaughter’ suonava fin troppo umano e non sarebbe stato possibile usarlo per il personaggio di Arya.
Mi auguro che questo mio parto mentale vi piaccia e vi diverta.
 
tyene_sand
  
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