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Autore: Kanchou    15/07/2008    6 recensioni
Se il Maestro Delphine (come al solito) fa sbroccare Alex, sulla Silvana c’è un ottimo calmante: Sophia. E si capisce perché è impossibile giocare una partita a scacchi normale con lei (almeno per il comandante). Si svolge qualche tempo prima della serie. Faccio una piccola pausa da "Luce dalle crepe" con questa storia avventurosa, "cappa e spada" e leggera.
Genere: Avventura, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alex Rowe, Cicada, Maestro Delphine, Sophia Forrester, Vincent
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Regina Nera, Regina Bianca


Feuilleton steampunk


di Kanchou


1.

Lo sgorbio aveva la pelle bianchissima e le orecchie a punta di quelli della Gilda e forse un tempo anche i lineamenti perfetti, quasi astratti, frutto della selezione genetica. Adesso uno sfregio spaventoso gli attraversava la faccia e coi bordi slabbrati stampava sul taglio della bocca un ghigno da morto. Di mezzo naso si era persa ogni traccia, essendo stato strappato dalla stessa sciabolata che aveva devastato il resto dell’anatomia.

Per fortuna Mantide ignorava che Vincent Alzey era – o era stato – amico dell’uomo con il quale aveva appuntamento, altrimenti non l’avrebbe presa molto bene. “Quel figlio di puttana, rutto di un verme nelle viscere di un cane morto, possa qualcuno infilargli un coltello a lama doppia nel culo” - cioè Vincent - era l’autore della sciabolata di cui portava il ricordino tra la tempia sinistra e l’orecchio destro. Non era stato quello che si può definire un regolare duello, anche perché un baro non può permettersi di sfidare un ufficiale di Sua Maestà Imperiale. Oltretutto Mantide non era esattamente solo, contro l’avversario. Inoltre era stato già sbattuto fuori dalla Gilda per furto, e quindi aveva poco da fare l’offeso, quando Vincent l’aveva accusato di aver truccato la partita.

Il Falero era sempre molto affollato, soprattutto di notte, e da gente mediamente poco raccomandabile. A passeggiare sotto i muri di pietra dipinti di rosso e oro, le finestre di legno laccato, i lampioni pacchiani, per le strade ingarbugliate di quello che da quartiere della capitale era diventato una vera e propria città nella città, con proprie regole e leggi e un confine tra delitto e giustizia molto più labile che nel resto del regno, insomma a passeggiare per il Falero non era il caso di fare troppo gli schizzinosi. Non che la gente fosse miserabile o derelitta. Anzi, le puttane del Falero portavano addosso gioielli d’oro e abiti di seta e non c’era ladro, scommettitore, contrabbandiere, che non si mostrasse in giro ben vestito, spesso persino in marsina e spadino appeso al fianco, come i damerini del palazzo. Tanto che la nobiltà e gli ufficiali della flotta imperiale erano fedeli frequentatori di quei vicoli che non dormivano mai, delle bische, dei combattimenti clandestini, dei locali dove si faceva musica a tutte le ore e le cantanti passavano al mestiere di puttana con la stessa facilità con cui i tenenti si sfilavano i guanti bianchi e se li mettevano in tasca. Perciò si poteva stare sicuri che dietro alle maschere che si aggiravano per il quartiere c’era il volto di un ufficiale d’alto rango, della nobildonna di corte, del conte e del maresciallo tale. E ci andavano, perché nel Falero tutto era permesso e perdonato. Ammesso che avesse un prezzo misurabile in claudie.

Mantide aspettava sul retro di un locale che faceva da cabaret e da bisca e dal quale veniva un’eco di musica e di voci ubriache. Con la schiena appoggiata al muro, fumava un sigaro. Proprio quello era uno dei vantaggi di essere stato radiato dalla Gilda, perché Maestro Delphine aveva proibito a tutti di fumare. Nell’oscurità turbata solo da una timida lanterna, la macchia rossa del sigaro acceso appariva e spariva come una lucciola incerta.

A un tratto dalla gola di Mantide esplose una scarica di colpi di tosse, perché il fumo gli era andato di traverso.

Dalla notte, silenziosamente come uno spettro, era emersa una sagoma all’improvviso torreggiante su di lui. Mantide si era preso uno spavento.

“Maledizione, ci casco sempre” sbraitò tossendo. “Cerca di farti sentire quando arrivi, comandante!”

Faceva il gradasso, ma ogni volta che lo incontrava, proprio lui che ne aveva passate di tutti i colori, si sentiva tremare le gambe in presenza di quell’uomo, anzi di quell’ombra alta, salda e nera e di quelle cose sulla faccia che in ogni altro essere umano si chiamavano occhi, ma che nel suo caso si potevano definire soltanto con qualche metafora presa da un racconto del terrore. E pensare che quello là passava pure per un gran bel tipo tra le disinvolte abitanti del Falero, che si divertivano a scommettere su quale di loro se lo sarebbe portato a letto per prima. Forse perché la scossa elettrica che percorreva la spina dorsale quando ti guardava con quegli occhi da felino metteva in tensione gli uomini, ma faceva eccitare le donne. Comunque c’era poco da scherzare, Mantide temeva peggio della morte quelli come lui (ammesso che ce ne fossero altri) perché non avevano paura di niente.

“Ti ho già detto di non chiamarmi in questo modo” disse il comandante con la solita voce flemmatica.

“Aaah, tanto qui da noi è impossibile mantenere l’anonimato. Che il comandante della corazzata Silvana stanotte abbia passato i cancelli del Falero è cosa nota, anche se io non ho spifferato niente. Le voci girano, tutti sanno tutto di tutti. Qua pure le pareti ti leggono nel pensiero. ”

Pacatamente, come un gatto che si stira le zampe, Alex Row allungò un braccio, prese il sigaro dalle labbra sformate di Mantide, lo fece cadere per terra e lo schiacciò con lo stivale.

“Lo so. E’ per questo che mi è venuta voglia di venire a trovarti. Mantide.”

Per prendere il sigaro, Alex aveva aperto il lembo destro del mantello e l’aveva gettato dietro la spalla. Sotto non portava la divisa, ma un farsetto di velluto nero decorato con minuscoli alamari di seta, che per motivi misteriosi s’intonava perfettamente con la carnagione bruna, sebbene per niente abbronzata, e i capelli corvini. Ma s’intonava molto meno bene, almeno per i gusti di Mantide, con la pistola appesa al fianco.

“Bene, comandante, si dà il caso che questa volta non abbia niente da raccontarti, sulla Gilda e sul Maestro.”

Mentiva e non si preoccupava di nasconderlo, anche se teneva d’occhio la pistola a portata della mano destra di Alex. Dall’altro lato, però, la mano sinistra del comandante sfiorò una borsa facendola gemere nell’inconfondibile tintinnio delle monete d’oro. Per un attimo, sentendo quel suono, Mantide si lasciò scappare la stessa espressione estatica di quando una certa sua amica gli faceva una certa cosa fingendo di divertirsi un mondo, anche se l’unico motivo per cui non scappava disgustata era il denaro abbondante con cui Mantide la pagava. Ma subito, sospirando perché questa volta il tintinnio sarebbe rimasto attaccato alla cintura di Alex invece di passare alla sua, disse: “Niente da fare. E’ una cosa troppo sporca. Io non voglio andarci di mezzo e…”

Si ritrovò sollevato per il collo e spinto contro il muro e con i piedi che ballavano in aria. La cosa che lo strozzava tenendolo a mezzo metro da terra era la mano guantata che il comandante gli stringeva intorno alla gola. E dire che Alex non si era mosso di un millimetro, a parte lo scatto della zampata, e anche ora che Mantide scalciava e offriva uno spettacolo terrificante con la sua faccia che diventando rossa cominciava ad assumere l’aspetto di un ventre squartato, non lo guardava nemmeno, come se la faccenda non lo interessasse. Al punto in cui dalla gola di Mantide cominciarono ad uscire gorgoglii preoccupanti, Alex disse: “Parlerai?”

Quell’altro, con uno degli ultimi rigurgiti di vita, riuscì ad annuire e Alex sciolse la presa e, dopo averlo lasciato a contorcersi per terra, a bestemmiare e grugnire cose innominabili contro di lui e parecchie generazioni della sua famiglia, lo rimise in piedi.

“Non mi piace fare viaggi inutili” disse tranquillamente Alex.

E così Mantide, tra un colpo di tosse e l’altro, parlò. Un suo informatore attendibile gli aveva rivelato che quella stessa notte sua signoria la gran puttana della Gilda, il Maestro, era nel Falero in incognito. Che la sgualdrina aveva voglia di divertirsi con le bassezze barbariche della terraferma. E cosa poteva attirare una come lei se non il combattimento con le spade all’Antro di Fafner? Quello nel quale chi perdeva moriva davanti a tutti nel modo più spettacolare, col sangue che sprizzava a fiotti dalle vene aperte, davanti agli scommettitori che si spartivano le vincite e alle signore urlanti di orrore e di eccitazione che per assistere avevano pagato quanto un operaio delle miniere di claudia guadagnava in un anno.

Mentre parlava e aggiungeva altri dettagli, in realtà non molto importanti, Mantide provò la soddisfazione di osservare, per la prima volta da quando aveva avuto il piacere di conoscerlo, che Alex Row perdeva la maledetta flemma di sempre e visibilmente s’innervosiva.

Perché nella furia del suo silenzio Alex stava imprecando contro se stesso per essersi fatto scortare soltanto da due fucilieri, quelli che erano rimasti a sorvegliare l’ingresso del vicolo. Ma non si aspettava una cosa del genere – avere Delphine, il suo odiato nemico, a portata di mano - era davvero troppo, troppo assurda, persino per lui che prevedeva e calcolava sempre tutto. Fino in fondo, davvero, quella donna infernale doveva farlo impazzire.

Senza perdere altro tempo Alex si girò di scatto per andarsene e nello stesso istante la borsa piena d’oro fece un volo nitido e preciso come una stoccata di fioretto dalla sua mano alla faccia allibita dell’informatore.

“Sei un bastardo traditore, Mantide. Ma ti guadagni sempre bene il mio denaro” disse sparendo nell’oscurità.

Mantide stava già sciogliendo il nastro di cuoio che chiudeva il sacchetto. “Sai che ti dico, comandante?” rispose aprendo la bocca nel ghigno storto che era il suo miglior sorriso. “Chi è più contento di me? Non sono cattivo, sono un verme. E i vermi non vanno all’inferno, contrariamente ai pirati come te.”


Segue Capitolo 2…

  
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