Regina Nera, Regina
Bianca
Feuilleton
steampunk
di Kanchou
1.
Lo sgorbio aveva la pelle
bianchissima e le orecchie a punta di quelli della Gilda e forse un tempo anche
i lineamenti perfetti, quasi astratti, frutto della selezione genetica. Adesso
uno sfregio spaventoso gli attraversava la faccia e coi bordi slabbrati stampava
sul taglio della bocca un ghigno da morto. Di mezzo naso si era persa ogni
traccia, essendo stato strappato dalla stessa sciabolata che aveva devastato il
resto dell’anatomia.
Per fortuna Mantide ignorava che
Vincent Alzey era – o era stato – amico dell’uomo con il quale aveva
appuntamento, altrimenti non l’avrebbe presa molto bene. “Quel figlio di
puttana, rutto di un verme nelle viscere di un cane morto, possa qualcuno
infilargli un coltello a lama doppia nel culo” - cioè Vincent - era l’autore
della sciabolata di cui portava il ricordino tra la tempia sinistra e l’orecchio
destro. Non era stato quello che si può definire un regolare duello, anche
perché un baro non può permettersi di sfidare un ufficiale di Sua Maestà
Imperiale. Oltretutto Mantide non era esattamente solo, contro l’avversario.
Inoltre era stato già sbattuto fuori dalla Gilda per furto, e quindi aveva poco
da fare l’offeso, quando Vincent l’aveva
accusato di aver truccato la partita.
Il Falero era sempre molto affollato,
soprattutto di notte, e da gente mediamente poco raccomandabile. A passeggiare
sotto i muri di pietra dipinti di rosso e oro, le finestre di legno laccato, i
lampioni pacchiani, per le strade ingarbugliate di quello che da quartiere della
capitale era diventato una vera e propria città nella città, con proprie regole
e leggi e un confine tra delitto e giustizia molto più labile che nel resto del
regno, insomma a passeggiare per il Falero non era il caso di fare troppo gli
schizzinosi. Non che la gente fosse miserabile o derelitta. Anzi, le puttane del
Falero portavano addosso gioielli d’oro e abiti di seta e non c’era ladro,
scommettitore, contrabbandiere, che non si mostrasse in giro ben vestito, spesso
persino in marsina e spadino appeso al fianco, come i damerini del palazzo.
Tanto che la nobiltà e gli ufficiali della flotta imperiale erano fedeli
frequentatori di quei vicoli che non dormivano mai, delle bische, dei
combattimenti clandestini, dei locali dove si faceva musica a tutte le ore e le
cantanti passavano al mestiere di puttana con la stessa facilità con cui i
tenenti si sfilavano i guanti bianchi e se li mettevano in tasca. Perciò si poteva stare sicuri che
dietro alle maschere che si aggiravano per il quartiere c’era il volto di un
ufficiale d’alto rango, della nobildonna di corte, del conte e del maresciallo
tale. E ci andavano, perché nel Falero tutto era permesso e perdonato. Ammesso
che avesse un prezzo misurabile in claudie.
Mantide aspettava sul retro di un
locale che faceva da cabaret e da bisca e dal quale veniva un’eco di musica e di
voci ubriache. Con la schiena appoggiata al muro, fumava un sigaro. Proprio
quello era uno dei vantaggi di essere stato radiato dalla Gilda, perché Maestro
Delphine aveva proibito a tutti di fumare. Nell’oscurità turbata solo da una
timida lanterna, la macchia rossa del sigaro acceso appariva e spariva come una
lucciola incerta.
A un tratto dalla gola di Mantide
esplose una scarica di colpi di tosse, perché il fumo gli era andato di
traverso.
Dalla notte, silenziosamente come uno
spettro, era emersa una sagoma all’improvviso torreggiante su di lui. Mantide si
era preso uno spavento.
“Maledizione, ci casco sempre”
sbraitò tossendo. “Cerca di farti sentire quando arrivi,
comandante!”
Faceva il gradasso, ma ogni volta che
lo incontrava, proprio lui che ne aveva passate di tutti i colori, si sentiva
tremare le gambe in presenza di quell’uomo, anzi di quell’ombra alta, salda e
nera e di quelle cose sulla faccia che in ogni altro essere umano si chiamavano
occhi, ma che nel suo caso si potevano definire soltanto con qualche metafora
presa da un racconto del terrore. E pensare che quello là passava pure per un
gran bel tipo tra le disinvolte abitanti del Falero, che si divertivano a
scommettere su quale di loro se lo sarebbe portato a letto per prima. Forse
perché la scossa elettrica che percorreva la spina dorsale quando ti guardava
con quegli occhi da felino metteva in tensione gli uomini, ma faceva eccitare le
donne. Comunque c’era poco da scherzare, Mantide temeva peggio della morte
quelli come lui (ammesso che ce ne fossero altri) perché non avevano paura di
niente.
“Ti ho già detto di non chiamarmi in
questo modo” disse il comandante con la solita voce
flemmatica.
“Aaah, tanto qui da noi è impossibile
mantenere l’anonimato. Che il comandante della corazzata Silvana stanotte abbia
passato i cancelli del Falero è cosa nota, anche se io non ho spifferato niente.
Le voci girano, tutti sanno tutto di tutti. Qua pure le pareti ti leggono nel
pensiero. ”
Pacatamente, come un gatto che si
stira le zampe, Alex Row allungò un braccio, prese il sigaro dalle labbra
sformate di Mantide, lo fece cadere per terra e lo schiacciò con lo
stivale.
“Lo so. E’ per questo che mi è venuta
voglia di venire a trovarti. Mantide.”
Per prendere il sigaro, Alex aveva
aperto il lembo destro del mantello e l’aveva gettato dietro la spalla. Sotto
non portava la divisa, ma un farsetto di velluto nero decorato con minuscoli
alamari di seta, che per motivi misteriosi s’intonava perfettamente con la
carnagione bruna, sebbene per niente abbronzata, e i capelli corvini. Ma
s’intonava molto meno bene, almeno per i gusti di Mantide, con la pistola appesa
al fianco.
“Bene, comandante, si dà il caso che
questa volta non abbia niente da raccontarti, sulla Gilda e sul
Maestro.”
Mentiva e non si preoccupava di
nasconderlo, anche se teneva d’occhio la pistola a portata della mano destra di
Alex. Dall’altro lato, però, la mano sinistra del comandante sfiorò una borsa
facendola gemere nell’inconfondibile tintinnio delle monete d’oro. Per un
attimo, sentendo quel suono, Mantide si lasciò scappare la stessa espressione
estatica di quando una certa sua amica gli faceva una certa cosa fingendo di
divertirsi un mondo, anche se l’unico motivo per cui non scappava disgustata era
il denaro abbondante con cui Mantide la pagava. Ma subito, sospirando perché
questa volta il tintinnio sarebbe rimasto attaccato alla cintura di Alex invece
di passare alla sua, disse: “Niente da fare. E’ una cosa troppo sporca. Io non
voglio andarci di mezzo e…”
Si ritrovò sollevato per il collo e
spinto contro il muro e con i piedi che ballavano in aria. La cosa che lo
strozzava tenendolo a mezzo metro da terra era la mano guantata che il
comandante gli stringeva intorno alla gola. E dire che Alex non si era mosso di
un millimetro, a parte lo scatto della zampata, e anche ora che Mantide
scalciava e offriva uno spettacolo terrificante con la sua faccia che diventando
rossa cominciava ad assumere l’aspetto di un ventre squartato, non lo guardava
nemmeno, come se la faccenda non lo interessasse. Al punto in cui dalla gola di
Mantide cominciarono ad uscire gorgoglii preoccupanti, Alex disse:
“Parlerai?”
Quell’altro, con uno degli ultimi
rigurgiti di vita, riuscì ad annuire e Alex sciolse la presa e, dopo averlo
lasciato a contorcersi per terra, a bestemmiare e grugnire cose innominabili
contro di lui e parecchie generazioni della sua famiglia, lo rimise in
piedi.
“Non mi piace fare viaggi inutili”
disse tranquillamente Alex.
E così Mantide, tra un colpo di tosse
e l’altro, parlò. Un suo informatore attendibile gli aveva rivelato che quella
stessa notte sua signoria la gran puttana della Gilda, il Maestro, era nel
Falero in incognito. Che la sgualdrina aveva voglia di divertirsi con le
bassezze barbariche della terraferma. E cosa poteva attirare una come lei se non
il combattimento con le spade all’Antro di Fafner? Quello nel quale chi perdeva
moriva davanti a tutti nel modo più spettacolare, col sangue che sprizzava a
fiotti dalle vene aperte, davanti agli scommettitori che si spartivano le
vincite e alle signore urlanti di orrore e di eccitazione che per assistere
avevano pagato quanto un operaio delle miniere di claudia guadagnava in un
anno.
Mentre parlava e aggiungeva altri
dettagli, in realtà non molto importanti, Mantide provò la soddisfazione di
osservare, per la prima volta da quando aveva avuto il piacere di conoscerlo,
che Alex Row perdeva la maledetta flemma di sempre e visibilmente
s’innervosiva.
Perché nella furia del suo silenzio
Alex stava imprecando contro se stesso per essersi fatto scortare soltanto da
due fucilieri, quelli che erano rimasti a sorvegliare l’ingresso del vicolo. Ma
non si aspettava una cosa del genere – avere Delphine, il suo odiato nemico, a
portata di mano - era davvero troppo, troppo assurda, persino per lui che
prevedeva e calcolava sempre tutto. Fino in fondo, davvero, quella donna
infernale doveva farlo impazzire.
Senza perdere altro tempo Alex si
girò di scatto per andarsene e nello stesso istante la borsa piena d’oro fece un
volo nitido e preciso come una stoccata di fioretto dalla sua mano alla faccia
allibita dell’informatore.
“Sei un bastardo traditore, Mantide.
Ma ti guadagni sempre bene il mio denaro” disse sparendo
nell’oscurità.
Mantide stava già sciogliendo il
nastro di cuoio che chiudeva il sacchetto. “Sai che ti dico, comandante?”
rispose aprendo la bocca nel ghigno storto che era il suo miglior sorriso. “Chi
è più contento di me? Non sono cattivo, sono un verme. E i vermi non vanno
all’inferno, contrariamente ai pirati come te.”
Segue Capitolo
2…