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Autore: Targaryen    22/04/2014    9 recensioni
Namárië ... in questa terra il tuo tempo è finito e non puoi più indugiare, neppure per lei.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Arwen, Celebrían, Elrond
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Arda'
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Schegge di mare

 
Accarezzi la pietra e segui con la mano il calore del legno che essa sostiene, gli occhi perduti in quell’eterno crepuscolo e le stelle che ti accompagnano tra lente sinfonie di luci e di ombre.
Una brezza leggera, insolita per quei luoghi, sussurra tra le fronde degli alberi e si piega insinuandosi in antichi saloni, in cui riecheggiano ancora memorie di canti e di silenzi e come te testimoni quasi immobili dello scorrere dei secoli. Sembra che l’aria sia viva e che ti parli, questa sera, e che il mare sia giunto fin lì e che ti chiami, con quella sua voce di onde e di infinito che porta nella tua casa il profumo di terre lontane e di vecchie promesse.
Ogni notte lo ha fatto da quel giorno di cui rifuggi persino il ricordo, lo ha fatto con una voce diversa, e lo ha fatto con tale forza che più di una volta tu hai temuto di cedere. Hai sentito le sue labbra sfiorare le tue, la loro dolcezza giungere a te attraverso il sapore del sale e il desiderio di gettarti oltre quell’orizzonte, ove le acque incontrano il cielo, sempre più padrone del tuo cuore ormai stanco. Ti sei alzato, allora, lasciando quel letto da cui pare lei ti sorrida ancora e quella stanza dove il fruscio delle sue vesti ti rincorre ad ogni passo, e hai vagato come ora lontano dal mondo dei vivi e da quello dei morti. Perché, forse, tu da troppo tempo cammini sul confine che le potenze di Arda hanno scelto di tracciare.
Una tunica grigia come quel mare che rivive nei tuoi occhi che hanno ormai visto troppo, i lunghi capelli colorati di notte e di stelle, sciolti ed intrecciati a quelle ombre da sempre testimoni del tuo silenzioso dolore … e quella mano, che sotto di sé sente la pietra e che vorrebbe invece nutrirsi del calore di lei.
Lo farà di nuovo e lo farà presto, lo sai, nel reame immortale verso cui la tua anima sta già veleggiando, eppure quella pietra non svanisce e resta immutata, fredda e crudele sotto il tuo tocco. E quando lei tornerà ad assumere per te sembianze di donna tu la sentirai ancora. Quella pietra sarà lì, a ricordarti ciò che hai perduto e il destino che attende quella parte di voi che l’ha scelta per sé.  
Una lacrima attraversa il tuo volto e mentre la allontani ti domandi se le lacrime scendano direttamente dal cuore, e se sia quella gabbia invisibile che da allora lo stringe a distillarle da esso.
Hai pianto altre volte, in passato, nascosto come ora. Altre volte hai chinato il capo schiacciato dalla disperazione, nei millenni che hai visto nascere e poi morire. La prigionia durante quell’infanzia ormai così distante, la terra intrisa del sangue della tua gente sulle piane di Dagorlad, quella corona che hai sempre tenuto tra le tue mani e che mai hai voluto sul tuo capo, e il peso dell’anello che Gil-Galad ti ha lasciato, prima di vedere la sua immortalità derisa dalla furia di Sauron e di far ritorno alle aule di Manwë. E ancora l’altra metà di te, distrutta nel corpo e nell’anima e costretta a lasciarti per poterti un giorno rivedere ancora … Celebrían che ti ha preceduto, su quella stessa nave che tra breve condurrà lontano anche te, e che se ne è andata rubando il tuo sorriso e la tua voglia di restare. E poi il ritorno del male, la guerra dell’anello, altre morti, altro sangue a sporcare il metallo, altri amici perduti e il dovere, sempre il dovere, il dovere di un re che non vuole essere chiamato tale ma che le stirpi guardano come un faro nella notte, saldo come roccia e saggio come il tempo che si perde nei millenni e che da essi impara.
Ma sempre, nei tempi che furono, al buio è seguita la luce, e anche quando hai salutato lei sapevi che un giorno quella straziante agonia che ti costringe a errare di notte avrebbe avuto fine. Un giorno, sapevi, tu l’avresti riavuta con te. Anche ora sai che il dolore che le bianche vele hanno portato non sarà eterno, Elrond figlio di Eärendil, ma quello che brucia le tue carni attraverso il suo freddo alito di pietra sarà per sempre tuo e sempre lo porterai con te. E sarà, insieme al tuo amore, il regalo che tra breve offrirai a lei.
E’ forse questo dolore l’eco di quelle tue origini mortali, che non hai voluto accogliere e che hanno infine avuto su di te la loro imprevista vendetta? E’ forse la mano di Elros, che afferra la tua attraverso le stirpi degli uomini e il cui sangue scorre nelle vene di colui che lei ha scelto? O è forse solo l’amore, che non si cura dei natali di coloro che tocca e di cui non si può che ringraziare, anche quando si offre a te come un nettare dolce che non potrà alleviare per sempre la tua sete?
Lo conosci, tu, l’amore. Nessuno direbbe questo guardandoti ora. Nessuno accosterebbe questa parola alla severità del tuo sguardo e alla malinconia dei tuoi silenzi, eppure è stato proprio l’amore che un tempo ha acceso quel tuo sguardo e che ha così facilmente vinto quei tuoi silenzi.
L’hai visto, tu, l’amore. L’hai visto nascere negli occhi di tua figlia e nello sguardo dell’uomo che ti considera più di un padre. L’hai visto nei loro sorrisi e lo hai temuto per la prima volta più del tuo peggiore nemico, ma non hai potuto odiare né l’amore né colui che stava rubando al sangue del tuo sangue il futuro che era suo di diritto.
Hai abbassato lo sguardo e hai immaginato la tua vita senza Celebrían, senza i suoi abbracci, senza i suoi baci, senza le sue carezze, senza la sua dolcezza e senza la sua forza, e ti sei quasi sentito morire, tu che non puoi morire. Hai abbassato lo sguardo, hai inghiottito il dolore come nere schegge di ossidiana e di nuovo dopo secoli hai pianto. Per te, per lui, per tua figlia e per la donna che tante volte hai stretto a te e a cui ora dovrai raccontare della scelta di Arwen Undómiel, la stella del vespero che ha preferito il giorno e la sua notte all’eterno crepuscolo in cui vive la vostra gente.
Non pensi quando il tuo sguardo segue la mano che ha lasciato il legno e che è di nuovo tornata ad accarezzare la pietra. Poggi su di essa la fronte e chiudi gli occhi. L’aria sembra capire e un alito più intenso ti investe.
Chi sei, tu, Elrond?
Scegliesti questa vita quando ti fu posta la domanda, millenni addietro in un’altra terra. Guardasti tuo fratello morire in nome della sua diversa risposta e a lui promettesti di vegliare su quella stirpe nelle cui vene scorre anche il tuo sangue. Lo hai fatto, e hai assistito al succedersi dei secoli senza mai rimpiangere la tua scelta, ma quei secoli non sono trascorsi senza lasciare traccia. Il tempo lascia sempre le sue tracce e lo ha fatto anche con te. Il tuo volto non è mutato, ma il tuo sguardo è divenuto antico e in esso, oltre la placida calma del mare, vivono ora le gioie e i dolori che quel tempo ha portato. Coloro che hai amato, coloro che hai odiato, coloro che ancora sono con te e coloro che ti hanno invece lasciato … una luce per ogni scheggia di te nel cielo stellato che sulle tue acque si rispecchia.
Quel giorno, quando colei che avevi scelto come compagna della tua eternità non ha più sopportato questa terra crudele, hai creduto che non ci potesse essere in serbo per te dolore più grande, ma ti sbagliavi e ora, con il gelo della pietra sotto la tua mano, lo sai. Credevi di dover dire addio solo a questi luoghi, così carichi di ricordi e dimora dei fantasmi che affollano il tuo lungo passato. Credevi di dover dire addio solo alle verdi pianure dell’Eriador, alle aspre Montagne Nebbiose, alle sterminate lande di Rohan, ai boschi incantati di Lorien e ai caldi tramonti della tua valle, e invece ora sai che dovrai lasciare anche lei. Un giorno le palpebre del re di Gondor si chiuderanno per sempre e la terra ricoprirà il suo corpo insieme a quella fredda pietra, perché è questo il destino degli uomini mortali, e quel giorno le dita della morte che tu non conoscerai mai trascineranno anche tua figlia con lui. E sai che lei, sola e lontana da te, si spegnerà e diventerà quella pietra da cui la tua mano sembra non riuscire a distaccarsi.
Con uno sforzo di volontà sollevi il capo e ti volgi di scatto, facendolo tu per lei.
Le fronde stormiscono e accompagnano il tuo gesto con un mormorio che pare racchiudere milioni di flebili voci e che giunge a te come un lontano lamento. Non ti stupisci del ritmo lento della risacca che odi infrangersi sulle pendici dei monti, e non distogli lo sguardo quando i tuoi occhi si proiettano attraverso i boschi e attraverso la notte sino ai grigi porti ove l’ultima nave ti attende. La tua immagine, immobile sullo sfondo di un mare di vetro, ti guarda senza vederti, e le sue labbra si muovono piano … namárië …
La visione svanisce e la brezza si ferma. Gli alberi sono immobili e il luccichio delle stelle pare congelato in quell’istante. Chini il capo, il cuore sul punto di fermarsi, e le tue labbra che ripetono piano … namárië, figlia mia …
Un sospiro che sembra uscire a fatica e l’aria che riprende a muoversi intorno a te, accarezzandoti come la tua mano accarezzava la pietra. In questa terra il tuo tempo è finito e non puoi più indugiare, neppure per lei.

***

NdA - In quenya “Namárië” significa "Addio".
 
 
 
  
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