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Confession
on a parquet basketball
°°°
Hanamichi aveva notato come il rimbalzo mantenesse sempre la stessa
cadenza,
quando lui giocava.
Stesso ritmo.
Poteva contare i rimbalzi che la sfera rossastra compiva
sull’asfalto scuro…
tum, tum, tum, poi correva. L’inflessione restava
praticamente invariata: palla
che si alzava, tre palleggi, corsa.
C’era un qualcosa di attrattivo, quasi ipnotico, nel suo
gioco.
I muscoli delle gambe si tendevano ad ogni passo, la mano che giocava
alla
palla, si muoveva con un leggero colpo di polso; il salto era vaporoso,
la
postura elegante.
Ed era sempre canestro.
Uno dopo l’altro, i centri si susseguivano a scandire il
tempo altrimenti
statico, eppure il movimento fendeva l’aria, senza in
realtà scuoterla. Solo il
vento, a volte, imperversava a dondolare le particelle
d’atmosfera.
Si stupì, quasi, di quali e quante cose si rendesse conto,
osservandolo
giocare.
Rukawa era lì ogni domenica mattina.
E lui, ogni volta, andava a vederlo.
Che se ne rendesse conto o meno, poco importava. Lui voleva solo
guardare.
Non il suo gioco che pure era realmente spettacolare, non lui, ma il
tutto.
La Volpe era nel suo habitat naturale e si vedeva: gli occhi balenavano
d’impeto,
di quella forza viva, dinamica che si muoveva come liquido sulla
superficie di
lapislazzulo del suo sguardo in caso contrario gelido. Il corpo si
spostava
sicuro, agile, concentrato sullo spazio che lo circondava e il
paesaggio
sembrava contribuire all’atmosfera tenue e impalpabile del
sogno.
Rukawa si fermò, bottiglia alla mano, assaporando l'acqua a
lunghi sorsi,
mentre gocce di fatica, impenitenti, carezzavano il corpo
d’avorio, tornito ed
elegante.
Hanamichi osservava stregato le gocce d’acqua che si
districavano dal groviglio
di ciocche corvine, per serpeggiare sul collo niveo e affondare nella
canottiera
azzurra; e forse, fu proprio la cura con cui appuntava alla mente la
dovizia di
particolari, che lo tradì.
«Do’aho».
Certo non ci si poteva aspettare niente di meno, da lui.
Quell’appellativo fastidioso
diveniva speciale giacché era usato unicamente per la sua
persona.
Hanamichi accomodò meglio il mento sulle braccia incrociate
alla recinzione, e
ghignò «Kitsune. Sempre ad allenarti,
eh?»
Conosceva quello che lui cercava. Era IL sogno, quello che si trova
d’improvviso, che diviene l’ideale per una vita
intera. Per il quale si
sacrifica ogni cosa di quel mondo ordinario al quale non si appartiene
mai
realmente: amicizia, amore, fortuna; altrettanto ideali, altrettanto
effimere.
Ma quel sogno no, per quanto possa essere folle, deve essere reale,
concreto e
raggiungibile.
La Kitsune, lavorava instancabilmente per diventare il numero uno del
Giappone,
per poi spalancare le porte a un nuovo sogno, infinitamente
più grande, più
arduo: l’America.
Il suo?
Ne aveva cercati tanti, molti nel corso della sua esistenza.
Col basket, questo aveva cambiato meta e lo aveva dimostrato
più volte,
attraverso il suo fare comico.
Il Tensai del basket, il re dei rimbalzi, il più forte di
tutti i tempi.
Eppure… tra le infinite sfide che lui stesso si era
procacciato, molte
inevitabilmente perse, una lo aveva smarrito.
Da allora, il suo traguardo era uno e uno solo: raggiungerlo.
C’era qualcosa di gradevolmente masochistico nel guardarlo
giocare: lui era ciò
che forse non sarebbe mai stato, ma che al contempo voleva guardare,
doveva
guardare, come per imprimersi alla mente la verità.
E lo odiava.
Odiava il modo in cui carezzava la palla con forte delicatezza, per poi
mandarla al canestro inevitabilmente; persino i gesti più
semplici, ormai
radicati nelle abitudini, lo infastidivano: quando toccava i capelli
dopo ogni
canestro, quando si appoggiava alle ginocchia per riprendere fiato,
quando
beveva l’acqua in un sol sorso, quando… ma era
anche conscio di sapere ogni
gesto a memoria. Come un film rimandato nella sua mente più
volte.
«Che ci fai qui?»
La sua voce da tono basso, algido, irruppe nel filo dei suoi pensieri,
sbaragliandoli.
«Che domande, vengo a spiare il mio rivale e a verificare i
suoi miglioramenti»
rispose Hanamichi, con un sorriso. Di certo, non l’avrebbe
bevuta.
Difatti Rukawa sbuffò, dandogli le spalle, continuando a
palleggiare col suo
ritmo ossessivo.
Voleva sfidarlo, pensò in quell’istante Hanamichi,
sentire l’adrenalina
scorrere col sangue, pompare i muscoli per tenderli
all’estremo, sentire
l’eccitazione fluire e ingigantirsi con la loro corsa,
raggiungere il cervello
e riempirlo solo ed unicamente di sfida, di lui.
«Sfidiamoci» gli disse con sicurezza, trattenendo a
stento l’esaltazione.
Rukawa lo fissò per un lungo istante, poi gli
lanciò la palla «Vuoi farti male»
osservò con il primo sorrisetto della giornata.
Solo con lui sorrideva. Con questo, Hanamichi pensò di aver
assolto metà della
sua sfida quotidiana; se lui rideva, era coinvolto in ciò
che faceva o diceva
lui, e quello bastava.
«D’accordo, Kitsune, preparati!»
Scattò Hanamichi, cominciando a palleggiare.
Rukawa gli si pose di fronte, le braccia allargate in posizione di
difesa
«Do’aho, non sprecare il fiato, gioca».
E lo fece. Oh, se lo fece.
Giocarono con ogni porzione di fiato che rimaneva loro, i corpi, velati
dal
sudore, sembravano quasi luccicare sotto al sole cocente, ma non si
fermavano.
Con il defluire del tempo, i movimenti divenivano più
rigidi, rozzi, e
spossati; uno scontro di corpi, dove la forza brutale cominciava a
prevalere
sul gioco di palla.
Rukawa procedeva nell’azione, con uno scatto, Hanamichi corse
a rubargli la
palla, ma il colpo fu male indirizzato. La palla rotolò
lontana e Rukawa si
sedette a terra, tenendosi il polso, respirando a fatica;
l’altro lo seguì, con
stesso fiato mozzo, i petti che si alzavano e abbassavano velocemente.
Per
qualche minuto fu un silenzio scandito dal respiro affannoso di
entrambi, poi
una bottiglia colma d’acqua fece capolino davanti allo
sguardo velato di
stanchezza del rosso.
«Tieni, o potresti morirmi davanti agli occhi»
sbottò la Kitsune, in piedi
davanti a lui, per poi sedersi al suo fianco stremato.
«Sono quasi commosso!» Ribatté
Hanamichi, cominciando però a bere con avidità.
Rukawa lo scrutò bere a grandi sorsi profondi, quasi senza
prendere aria
«Dovresti bere di più, durante gli
allenamenti» osservò.
«Questa era un’improvvisata, di solito lo
faccio» replicò Hanamichi, passandosi
la mano sulle labbra per asciugarle.
Lo sguardo del bruno si spostò verso un punto imprecisato di
fronte a sé, poi
scosse il capo «No, non lo fai mai».
Quella piccola rivelazione di per sé insignificante,
indicava l’attenzione con
cui aveva registrato gli atteggiamenti del rivale, così come
Hanamichi aveva
fatto con i suoi.
Rimasero in silenzio, ancora, ma con naturalezza quasi cameratesca di
chi si è
allenato insieme, contribuendo l’uno al miglioramento
dell’altro.
«E’ stata una bella sfida, dovremmo rifarla,
qualche volta» fece ancora Rukawa,
per poi alzarsi, voltandogli le spalle.
L’assurda sensazione che quella frase avesse chiuso
definitivamente la
conversazione, strappò a Hanamichi una sensazione al basso
ventre che lui ormai
chiamava “provocazione alla Rukawa”: era il
desiderio, insito nel suo sangue,
di contestare tutto ciò che l’altro faceva o
diceva. Come se la sua rivalità
non fosse legata al fattore esterno, cioè lui, ma ad un
istinto interiore al
quale era impossibile sfuggire.
«Cos’è, ti sei già
stancato?» Borbottò, con un ghigno e un tremore,
alzandosi.
Rukawa lo fissò, inarcando le sopracciglia.
Probabilmente, quella volta davvero non capiva di cosa
l’altro parlasse e
d’altronde quella frase era stata pronunciata con le migliori
intenzioni
possibili. Tuttavia conosceva la distorta suscettibilità del
rivale, che
fraintendeva tante volte quante lui ne diceva. In realtà,
erano davvero rare le
occasioni in cui Rukawa decideva di scontrarsi con la sua
irritabilità, era
l’altro a travisare ogni sua parola ed a iniziare la lotta
per la ragione
«Cosa ho detto, questa volta?» Domandò,
con non voluta rassegnazione.
«Non usare quel tono di sopportazione con me,
Kitsune!» Sbottò Hanamichi,
avvicinandosi a lui.
Fine della parentesi umana e, come al solito, il Do’aho aveva
equivocato il suo
tono.
Rukawa si lasciò afferrare per la maglia, appoggiando le
mani al petto
dell’altro, fasciato da una canotta nera.
«Do’aho, rilassati».
Fissò lo sguardo in quello color caramello
dell’altro e vide balenare la
“fiamma del rosso”, come la chiamava lui,
cioè quella stupida aria da giocatore
oltraggiato che usava praticamente sempre. Si diede dello stupido,
quando capì
che quella frase lo aveva irritato maggiormente e quasi non si rese
conto del
pugno che lo colpì, ferendogli la mascella.
Si ritrovò a terra, passandosi una mano sulla zona colpita,
mentre l’altro si
piegava in due dalle risate come suo solito.
«Ah, peggio di una ragazzina! Sei troppo delicato per
lottare?»
Hanamichi vide lo sguardo che s’incendiava sotto le sue
parole: il ghiaccio
delle sue iridi sembrava sciogliersi fino a liquefare e quel fluido
vorticava
rabbiosamente.
Fu il suo turno di tenersi la guancia dove si era posato il gancio
dell’altro «Dannata
Kitsune!»
Hanamichi gli fu addosso ed entrambi rotolarono per il campo; accaldati
sia per
la fatica di poc’anzi, che per lo scontro, sembravano due
fuochi pronti a
divorarsi l’un l’altro, sotto il sole rovente di
Luglio.
«Do’aho…» sibilava Rukawa,
assestando colpi.
Persino nella rissa, la sua voce rimaneva bassa ad un tono fosco e
cupo, così
in contrasto con i suoi vaneggiamenti urlati.
Quell’ennesima grande, piccola dimostrazione di
diversità abissale, lo infuriò
ancora di più; sopra di lui, con i polsi nivei
dell’altro bloccati dalle sue
mani, Hanamichi torreggiava su Rukawa e lo guardava con sguardo
sprezzante.
«Perso» fece trionfante, ma l’altro lo
fissava senza espressioni di sorta
«Levami le mani di dosso» sbottò, con
gli occhi ridotti a fessure, la voce
controllata.
Hanamichi strinse la presa ai polsi «Dannazione, Kitsune,
possibile che sia
sempre così controllato?»
Quello smise di muovere le mani e s’irrigidì
«Dovrei essere un invasato come
te?»
«Non dico questo, maledizione!»
Hanamichi si morse il labbro inferiore, senza spiegarsi. Rukawa era la
contraddizione fatta persona; come riusciva ad amare con tanta passione
il
basket ed essere così freddo nella vita?
«A te, che interessa?» Gli domandò la
voce lontana.
Il rosso batté le palpebre e ricordò di come
l’altro fosse sotto di sé
«Perché
non lo capisco» rispose semplicemente.
«Non capisci perché qualcuno è diverso
da te?»
La voce di Rukawa si tinse di sorpresa, mentre con attenzione scrutava
Hanamichi, senza accennare a spostarsi da quella posizione imbarazzante.
L’altro lo guardò arrabbiato «Non
intendevo quello! Parlo proprio di te. Come
fai ad essere sempre così gelido e scostante con
tutti?»
La domanda aveva per entrambi un’importanza maggiore di
quanto entrambi erano
disposti ad ammettere.
«Non lo sono, infatti».
«Oh, andiamo! Lo vedono tutti».
«Do’aho, non insistere» Rukawa lo
fissò con rabbia. «Potresti almeno spostarti
da questa stupida posizione…»
«Ah no, ora che ti ho in pugno, mi risponderai!»
Il bruno strinse i pugni, con un mormorio «Non sono cazzi
tuoi… ora togliti,
dannazione!» Sbottò, cominciando a muoversi nel
tentativo di dargli un calcio.
«Avrai anche un fisico imponente, Kitsune, ma non sei
abituato alle risse come
me» affermò un sorridente Hanamichi, per poi
bloccargli le gambe, infilandoci
in mezzo una delle sue. «Persino ora che sei mezzo
intrappolato, non ti lamenti
come si deve. Sei ancora troppo silenzioso».
Rukawa sbuffò con derisione «Se speri che mi
lamenti, hai sbagliato persona,
Do’aho».
Hanamichi lo fissò: l’orgoglio e la sfida si
diffondevano a macchia d’olio in quegli
occhi ghiacciati e si espandevano all’esterno, come una
fragranza. Anche se non
lo avrebbe mai ammesso, la Kitsune era la persona più
eccitante che conoscesse.
Le sfide con lui non erano mai sterili competizioni che si esaurivano
con la
vittoria o meno, erano vere e proprie battaglie per il predominio in
qualsiasi
campo. Ammettendolo, lui perdeva spesso, ma non quella volta.
Quella era la sua volta.
Un ghigno beffardo si aprì sul viso ambrato del rosso, che
avvicinò la testa a
quella del bruno «Ho provato a convincerti con le buone,
Kaede, ma non c’è
verso…»
Il fatto che avesse pronunciato il suo nome era di per sé
una preoccupazione,
ma che lo avesse fatto con tono tanto suadente era ancora peggio.
Rukawa scrutò il ghigno odioso del rivale e
cominciò a sudare freddo: l’ultima
volta che aveva visto quel ghigno, aveva ricevuto una testata.
Cominciò a
muovere delicatamente i polsi, con la speranza che l’altro si
distraesse e lo
lasciasse; purtroppo per le gambe non c’era speranza, le sue
erano molto più
lunghe e robuste.
«Non so di cosa parli, Do’aho e non mi interessa.
Vorrei solo che sparissi dalla
mia vist-»
In pochi istanti, le labbra del rosso catturarono le sue in un bacio
passionale
che l’altro non rifiuto, ma nemmeno facilitò. Solo
quando sentì la sua lingua
sulle labbra, che chiedeva di entrare, girò il capo.
«Che diavolo credi di fare?»
«Reagisci, diavolo! Prendimi a calci, muoviti, ma
reagisci!»
Sbottò l’altro, incredulo all’ennesima
reazione men che tiepida di Rukawa.
Eppure il suo miglior rivale lo stava baciando, dannazione!
Arrabbiato, gli pose una mano sulla nuca, tra i capelli corvini, e
azzerò la
distanza tra loro, baciandolo più selvaggiamente di prima.
La mano liberata di Rukawa gli si pose sul petto, cercando di spingerlo
via,
mentre la gola riuscì a farfugliare solo qualche mugolio.
Hanamichi aveva serrato gli occhi, mentre la mano stringeva le ciocche
di
petrolio dell’altro; la lingua umida scivolò tra
le labbra del bruno e quel
contatto lo fece reagire, inevitabilmente.
Un sospiro profondo gli sfuggì dalle labbra e la mano libera
si avvinghiò al
collo bronzeo di Hanamichi, il quale non si fermava.
Il bacio divenne profondo, possessivo, un divorarsi di labbra che
distrasse il
rosso, il quale ammorbidì la presa sul polso e sulle gambe
dell’altro.
Nessuno dei due, tuttavia, se ne rese conto. Le mani libere di Rukawa
si
spostarono sul petto, seguendo la linea dei muscoli tesi allo spasmo;
l’altro
sussultò dalla sorpresa, ma non si fermò, anzi la
morsa tra i capelli si serrò
fino a diventare quasi dolorosa e l’altra mano
cominciò a muoversi verso l’orlo
della maglia, sul ventre piatto del bruno.
«Mmh…»
Con un sospiro e un mugugno, Hanamichi, spostò la propria
attenzione verso il
collo candido che cominciò a mordere con trasporto.
«Ah…»
In un certo senso, non aveva tutti i torti su di lui: viveva in modo
controllato ogni aspetto della sua vita, anche quello. Amava
l’amore rilassato,
mentre di fronte a sé aveva una tempesta ormonale in piena
regola.
Il sospiro di Rukawa lambì l’orecchio
dell’altro, che cominciò a mordere e
carezzare con maggiore frenesia la scapola.
Le mani del bruno sembravano irrequiete a voler afferrare
l’aria, poi si posero
sulle spalle del rosso e cominciarono a tirare su la maglia.
Affondò le unghie
nella carne bronzea dell’atro e non gli sfuggì il
suo sospirò tremolante.
Così, il Do’aho amava le maniere forti.
Le mani del rosso, intanto, erano impegnate a percorrere il suo torace
spogliato della maglietta chiara, mentre la bocca si chiudeva su un
capezzolo
turgido; Rukawa, colto alla sprovvista, si abbandonò col
capo all’indietro, con
un mugolio di piacere.
Cominciava a perdere lucidità e il tocco Hanamichi sembrava
trascinarlo verso
la passione sfrenata; prima, però, doveva rispondere alla
sfida. Si avvicinò al
suo orecchio e cominciò a mordergli l’elice,
accompagnando il gesto da brevi
guizzi di lingua. Con un ghigno udì il sussulto
dell’altro e le sue mani si
fermarono.
«Mi hai sfidato, Do’aho. Ed io non ho mai perso una
sfida con te» gli sussurrò,
prima di ribaltare le posizioni con un colpo di reni.
Bloccò le sue lunghe gambe tornite con le sue e i polsi,
più robusti dei suoi,
furono arrestati dalle dita affusolate.
Rukawa lo guardò dall’alto, con un ghigno di
soddisfazione che eccitò l’altro
più dei baci stessi. Rukawa sorrideva raramente e il
semplice tocco delicato
dei polpastrelli candidi, lo fomentava. Come volevasi dimostrare la
sfida si
era trasformata in qualcosa di differente e il tremore che li
sconvolgeva ne
era la testimonianza.
I loro respiri affannati scivolavano sulla pelle, lambendola come
brezze
roventi, lo sguardo sprezzante di uno era incatenato a quello glaciale
dell’altro.
Rukawa serrò la presa ai polsi di Hanamichi, poi sorrise e
quella volta anche
con gli occhi.
Senza una parola che sottolineasse la propria trepidazione,
l’inquietudine e
l’impazienza con le quali aspettavano, avevano allacciato i
loro corpi e le
loro menti in qualcosa.
Che, quella volta, li avrebbe annientati.
N/A
Mi
giustifico dicendo che questi due
devono pur fornicare ogni tanto.
Sì, anche in una palestra all’aperto.
ù.ù
Come dice anche aka_z, tra l’altro.
XD
Grazie anche a te Hane!