Prompt:
“KagaKuro – “Vorrei fossi la mia ombra per sempre”,
proposte di matrimonio come se piovesse, fluff”, richiesto da Nari @ summertimerecords
Note: la proposta è una sola e so di
aver scritto in maniera un po’ atipica per me, ma mi son divertita così tanto
che va bene lo stesso XD
Kagami dall’America ha preso un sacco di cose – il
basket che tanto ama, il fratello che non aveva mai avuto prima d’incontrare
Tatsuya, l’essere troppo rozzo per quel sistema perfetto e stratificato che è
la società giapponese. Dagli Stati Uniti ha preso l’amore per il cibo da
fast-food, la figura d’insegnante di Alex e così tante altre cose che elencarle
è impossibile.
Però si riscopre giapponese nei momenti peggiori. La prima volta è stata al
liceo, quando ha passato quasi due anni tra l’esasperazione generale di tutta
la squadra a cercare di capire il rapporto con Kuroko.
Il suo unico termine di paragone era Tatsuya, la persona più vicina fino a quel
momento, ma lui e Kuroko di simile avevano solo il suono del nome e niente di
più – la sicurezza di un fratello maggiore, il crescere spalla a spalla al di
fuori del campo da basket erano cose che, in un certo modo, sarebbero
appartenute sempre solo a Tatsuya.
Kuroko era qualcosa di diverso allora e lo è tutt’oggi, e Taiga ha impiegato un
anno e mezzo di allenamenti estenuanti, sudore, lacrime e gioie per capire che
Kuroko era più dell’ombra sportiva che era sempre stato prima per Aomine e poi
per lui.
E quando finalmente Kagami ha capito sul
serio che Tetsuya era molto di più – una stretta allo stomaco quando
sorrideva, un sorriso ebete quando chiamava il suo nome e tanta, fin troppa
voglia di stare insieme anche a parlare di nulla – è stato tutto più difficile.
Taiga non è mai stato bravo in quelle cose, come nelle dichiarazioni per cui
ogni tanto i compagni venivano chiamati fuori dall’aula o simili; lui non ci
aveva mai nemmeno pensato e boom, si
era ritrovato in mezzo a quel casino e la cosa che faceva ridere era che il suo
problema non era stato nemmeno per un attimo che Kuroko fosse un ragazzo. Ecco,
in quello l’America lo aveva reso molto meno inquadrato, per così dire.
Come volevasi dimostrare – e come un po’ tutti
indovinano ora che, a distanza di anni, lui e Kuroko stanno ancora insieme –
non fu Taiga a fare il primo passo; se ci ripensa lo trova ancora imbarazzante,
con Tetsuya che lo guardava con la coda dell’occhio quasi per controllarlo,
mentre camminavano fianco a fianco, le braccia si sfioravano e Kagami fingeva
che fosse assolutamente casuale.
Avevano percorso la strada in silenzio, mangiato al Maji
Burger con uno scambio di battute da copione – “Kagami-kun, non ingozzarti” “stho folo gufhtando il cibho” – e poi
di nuovo fuori, sulla strada e con troppa gente intorno per i loro gusti. E
alla fine Kuroko aveva dovuto fare il primo passo (come sempre), scegliere lui
il posto adatto (come sempre), assumere l’aria di chi sta per dirti che la fine
del mondo è vicina ma sa già di quanti passi spostarsi per evitarla (tu, come
sempre, verrai schiacciato in pieno) e l’aveva detto.
Così, senza un “devo dirti una cosa importante” o “c’è qualcosa di cui voglio
parlarti”, niente di niente, l’aveva detto e basta e Kagami si era sentito un
po’ idiota per troppe cose che facevano molto soap opera e poco realtà.
«Mi piaci, Kagami-kun.»
E se te lo dice un giapponese non ti puoi sbagliare, se lo dice un americano
significa mille cose – “I like you” puoi dirlo a un
amico, a tuo fratello, a uno sconosciuto che ti fa una bella impressione a
pelle – ma i giapponesi no, se loro dicono che gli piaci te lo dicono sul
serio, anche perché hanno settecento modi di dirlo e Kagami ancora si chiede
come cavolo facciano a non sbagliarsi mai e boh, a dire per sbaglio alla nonna
del proprio migliore amico “signora la amo” anziché “signora, la amo (sottinteso:
la sua cucina, bell’arredamento, ci avrei messo un po’ di giallo in più ma
tutto sommato è ok)”.
Si è sempre rifiutato di descrivere quel momento, un po’ per riservatezza sui
propri sentimenti e un po’ perché c’è qualcosa di davvero poco dignitoso nelle
sue reazioni da shojo manga – eppure Kagami non se lo scorda,
il momento di pura felicità che ha scorto nello sguardo di Kuroko quando gli ha
borbottato in risposta «Anche tu.»
Da allora sono passati
sette anni fatti dell’università di Kuroko, di un ritorno in America per
Kagami, di basket all’estero, di relazione a distanza; di un’estenuante lotta
con la tecnologia per le videochiamate, di molti “mi manchi” e tanti viaggi culminati
con un “voglio tornare in Giappone”,
che era più un “voglio tornare da Kuroko”,
che per Kagami ha sempre significato “voglio tornare a casa”.
Non si è mai immaginato un proprio spazio condiviso con Tetsuya – o meglio lo
ha vissuto, ma l’altro era sempre stato ospite ed è diverso dall’avere una casa
insieme. Principalmente significa tante cose stupide, dettagli di convivenza
che gli mettono addosso un’euforia infantile, come quando ha capito che Kuroko
sarebbe rimasto fuori dalla sua cucina almeno finché Taiga lo avesse ritenuto
necessario per la sopravvivenza di entrambi.
Ora vivere con Tetsuya è una realtà perfetta nella sua imperfezione e un
meccanismo collaudato in ogni sua parte; a Kagami piace quando sono entrambi in
cucina e si muovono ognuno per le proprie cose senza intralciare l’altro, o il
modo in cui riescono a fare a turno nelle faccende senza bisogno di dirselo
più. Non lo dice a Kuroko, più che altro perché il pudore non è mai sparito del
tutto e perché continua a sentirsi abbastanza idiota – oltre che una ragazzina
del liceo, e se andava bene quando al liceo ci stava davvero, adesso magari
anche no.
Non gli interessa nemmeno troppo il fatto che i vicini li considerino ancora “i
due studenti che dividono l’appartamento”, anziché quello che sono davvero,
perché ha imparato a rispecchiarsi nella riservatezza da perfetto giapponese di
Kuroko e a sentire di volere certe cose per sé.
Specialmente Tetsuya.
Peccato che l’unico modo di averlo per sé ufficialmente
sia qualcosa che non sa assolutamente come approcciare.
Fa il grave errore di
chiedere aiuto, e per un attimo pensa che il peggio sarebbe stato chiedere a Ahomine; ma mentre aspetta come un’anima in pena fingendo
una nonchalance che non gli appartiene lì sul divano, Taiga decide che no, il
fondo lo ha toccato rivolgendosi a Kise ho-l’aria-di-un-appassionato-di-drama-stucchevoli Ryouta.
Ripercorre mentalmente la serie di proposte di quel cretino di un pilota
d’aerei – Kagami vuole dimenticare per sempre l’accenno a un locale di Parigi
che, se ha ben capito, avrebbe significato più cose fisiche che altro e che nemmeno ricorda perché sia finito in mezzo
al loro discorso –, reputandole tutte in qualche modo inadatte.
Ci guadagna un principio di nevrosi che non migliora quando la porta
dell’appartamento viene aperta e lascia entrare l’unica altra persona che ha le
chiavi, ossia l’unica che Taiga non si sente ancora pronto a vedere al momento.
Nigou zampetta verso il suo padrone e gli fa le
feste, guadagnandosi delle carezze mentre un «Sono a casa.» raggiunge Kagami –
è finita, deve rimandare, assolutamente.
«Bentornato.» vorrebbe dirlo per bene ma lo bofonchia, vorrebbe suonare
naturale ma si rende conto persino lui che sembra gli sia morto il pesce rosso
o qualcosa del genere; ovviamente a Tetsuya non sfugge e tutto, da Nigou alla giornata di lavoro che ha appena concluso, passa
in secondo piano nel breve tempo che impiega a passare dall’ingresso al divano.
Non si siede ma lo sguardo è immediatamente su Kagami, che cerca di decidere
cosa sia peggio tra fare il finto tonto – ben conscio di non saperlo fare bene
quanto servirebbe – e l’ostinarsi a guardare un programma che non sa nemmeno
cosa sia. Alla fine guarda Tetsuya e basta, perché fingere non gli piace,
perché sarebbe inutile, perché non è da lui.
E una volta che lo vede sa che in fondo non sarà mai convinto del modo in cui vuole dirgli di restare con
lui per sempre, di essere più dello “studente con cui divide l’appartamento”
anche se i vicini continueranno a pensare che sia solo quello e – perché no – di
avere al dito un anello solo per loro due.
Sa che non si sentirà mai sicuro del modo
perché le romanticherie da film sono roba per Kise, non per lui, e qualunque
sia il modo barbaro in cui Ahomine potrebbe chiedere
una cosa del genere di sicuro non fa totalmente
per Kagami.
Dopo sette anni insieme, si dice mentre si alza e guarda Kuroko, non è poi
tanto importante come lo dice, forse; basta dirlo. Crede. Suppone.
«Vorrei fossi la mia ombra per sempre.» lo sputa fuori prima di rendersene
conto, prima di pensare e si maledice
in modi che non credeva nemmeno di conoscere perché, sul serio?!, non ha idea di come gli sia uscita.
Tetsuya lo sta guardando e apparentemente non sta cambiando espressione, il che
vuol dire che o non ha capito o non si capacita di tanta qualsiasi-cosa-sia da parte di
Kagami.
Taiga lo guarda, deglutisce e inutilmente cerca una buona motivazione per
quello che ha pronunciato – ma la verità è che non la trova e allora fa l’unica
cosa che sa fare bene, da bravo americano acquisito: straparla.
«Non parlo del basket.» si affretta a dire, ma ovviamente ci ripensa «Cioè va
bene anche nel basket, insomma non è che conto di smettere ancora e poi abbiamo
in sospeso l’ultimo tre contro tre con Ahomine!» non
è pertinente, ma meglio chiarire, si dice.
Sbuffa
d’impazienza un po’ per tutto, compreso Nigou che
scodinzola intorno a loro e li guarda e lo fa sentire ancora più idiota.
«Voglio dire» riprende con calma, o quella che
pensa sia calma, va bene lo stesso ormai «stare insieme. Come al liceo—» che
poi è come gli ultimi anni, ma sembra troppo preso a pensare qualsiasi cosa di socialmente utile per
rendersene conto; porta una mano a grattare la nuca, a disagio perché non sta
arrivando al punto.
Manda tutto mentalmente al diavolo e decide che anche se è imbarazzante deve
provare almeno a spiegargli che quando parla di “essere la sua ombra” non
intende sottolineare quanto Kuroko sia ancora per lo più invisibile a chi non è
abituato a percepire la sua presenza, né che vuole che lui viva alla sua ombra
in senso stretto del termine – più che stretto dispregiativo, ma è abbastanza
sicuro che Tetsuya non gli farebbe mai il torto di crederlo così meschino.
Kagami vorrebbe spiegargli almeno che è solo una specie di metafora, che per
quanto lo riguarda lui è luce, fioca e difficile da notare magari, ma è pura
luce e lo è sempre stato; vorrebbe solo fargli capire che dice “ombra” perché
Kuroko si è definito così e dirlo gli ricorda il primo incontro, il primo
allenamento, la prima partita – il primo bacio e tutto ciò che di “primo”
Kuroko ha avuto da lui e di lui.
Taiga dimentica sempre che Tetsuya è imprevedibile, però. Come adesso, che è a
un passo di distanza da lui senza che se ne sia quasi accorto e lo guarda, da
sotto in su, con quell’espressione che ancora oggi dopo sette anni gli riesce
difficile interpretare a volte.
«Mi stai chiedendo di sposarti?» lo pronuncia esattamente come gli ha chiesto
di stare insieme, come gli ha detto che gli piaceva: Kuroko ha ancora un’aria
calma e imperturbabile (o presunta tale), come se non avesse detto qualcosa di
importante o come se non avesse appena causato a Kagami una sorta di infarto
che si conclude nel peggior modo possibile – nessuna parola dolce, niente di
niente se non un quasi brusco «Sì.» che lo imbarazza, certo, ma non lo rende
proprio il fidanzato dell’anno quanto a proposte di matrimonio.
Sente gravare addosso il peso dello sguardo di Tetsuya, ancora in silenzio, e
di una specie di ilare e catastrofica – entrambe, sì – fine del mondo che
sembra voglia abbattersi su di lui da un momento all’altro senza che Taiga
possa farci nulla. Quasi si aspetta di vedere Kuroko spostarsi di un paio di
passi, quelli famosi con cui l’altro sembra poter evitare tutto e lasciare che
niente lo smuova o lo tocchi, addirittura.
E Kuroko muove un passo, sì, ma in avanti; va a poggiare la fronte contro il
petto di Taiga e tace, a lungo, fino a che Kagami non inizia a chiedersi come
dovrebbe interpretare esattamente la cosa e Tetsuya pronuncia un: «Mh.» a cui l’altro abbassa lo sguardo.
Allora le nota, per puro caso: le orecchie di Kuroko sono di un rosso che con
la pelle chiara si nota così tanto che persino Taiga non ha dubbi in merito –
imbarazzato, è qualcosa che difficilmente ha potuto associare negli anni al suo
compagno e invece ora è lì, palese per i suoi occhi.
Gli scatena un moto di tenerezza che lo porta a circondarlo con le braccia e
tenerselo addosso, in un gesto pieno di affetto e di devozione; quasi gli
scappa di parlare in inglese, di rifilargli una frase che sarebbe perfetta, una
presa in giro non troppo crudele ma divertita e divertente, bonaria, che in
giapponese non sa rendere in alcun modo.
La manda quasi giù insieme a un po’ del nervosismo che non è ancora del tutto
sparito.
«Era quello che intendevo.» rimarca con un sbuffo leggero per non aver, a conti
fatti, articolato la cosa come avrebbe voluto; soprattutto, senza l’aiuto della
persona a cui voleva rivolgersi nel modo perfetto che forse non ha trovato
perché non esiste e basta.
«Sei uno stupido, Kagami-kun.» pronuncia, e Taiga ride perché erano anni che
non lo chiamava più così, con quel monito da “stai dicendo una cosa idiota e
sarai punito per questo”. Ride perché sente che c’è imbarazzo, ma anche
felicità, quella che scorge nel piccolo sorriso che dalla sua posizione
intravede per puro caso.
Dopotutto, si dice mentre lo stringe e gli posa un bacio sulla tempia che
sembra più che altro roba da bambini, si è sempre trattato di piccole, immense
fortune con Kuroko: averlo vicino, scorgerne i rari sorrisi, amarlo ed essere
amati.
Un po’ come quando arriva la fine del mondo e la eviti, spostandoti solo di un
paio di passi.