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Autore: chaplin    24/04/2014    3 recensioni
[http://it.wikipedia.org/wiki/Daft_Punk]
Ogni tanto, Guy-Manuel interviene e gli chiede se va tutto bene ed eccetera. Ogni tanto, Thomas risponde. Il resto è acqua, acqua, acqua.
Genere: Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Daft Punk
Note: Cross-over, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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6:01. Seduto sul davanzale della finestra, le ginocchia alzate fin sotto il mento, Guy-Manuel fa un altro tiro dalla sigaretta e osserva i palazzi e le strade ballare, dimenarsi e fremere nel buio.
Gliel’avevano detto, che questa città non dorme mai. È sempre in movimento, corre, corre, corre e non si ferma mai, auto che corrono e persone che corrono, ubriachi che corrono e sonnambuli che corrono, il vento che corre, la polvere che scivola e tutto il resto che si agita a sua volta. Guy-Manuel pensa a cosa si possa provare a ritrovarsi in mezzo a quella matassa di automobili e persone e ubriachi e sonnambuli ed eccetera e, abbassate le palpebre, si lascia travolgere da tutta quella vita.
E si sente meglio.

Thomas lascia la chiave della camera d’albergo su un gradino di un tempio scintoista in periferia.
La testa di Thomas è un piccolo scrigno di cristallo diviso in altrettanto piccoli compartimenti: c’è la parte dedicata alle frivolezze, a tutto ciò che c’è di commestibile al mondo e ai calzini che ha deciso di indossare stamattina, poi c’è una parte tuttora rapita dal film che ha visto ieri e un’altra parte ancora persa in una canzone che sta ascoltando. Niente di fondamentale. C’è chi dice che l’individuo medio sia in grado di utilizzare appieno solo un decimo del proprio cervello.
Tant’è vero che la testa di Thomas ha una capienza totale di soli tre pensieri fondamentali per volta.
Ad esempio:
1) dire a Laurent che ha ancora le mie scarpe e che questi mocassini stanno iniziando a darmi alla testa
2) appuntamento alle 9 del mattino!!! appuntare sveglia alle 6 possibilmente anche prima
3) chiamare parenti a Parigi dirgli che va tutto bene e che le mie scarpe sono al sicuro e che vorrei riuscire a parlare a quella ragazza che ho visto prima cavoli era così bella e no aspetta dannazione non distrarti Thomas non distrarti non
(A volte questi tre pensieri fondamentali vanno a mescolarsi fra di loro sostituendo il terzo pensiero fondamentale con un pensiero non fondamentale. Thomas ci è abituato, ormai.)
Perché, come se non bastasse, Thomas soffre della (fittizia) sindrome del distratto cronico. Disturbo cognitivo di carattere pervasivo a cui non è stata e molto probabilmente mai verrà trovata – essendo questa una causa persa, e nessuno spende soldi e fatica su una causa persa essendo questa una, come dice la parola stessa, causa persa – una cura. Non che gliene freghi molto, in realtà. Ci può ancora convivere seppur afflitto dalle sue personali tragedie quotidiane, quali perdite costanti di interi reggimenti di penne in un singolo batter d’occhio e quant’altro. Ci sono persone che se la passano peggio.
In questo momento, i suoi pensieri fondamentali sono:
1) devo andare in bagno devo andare in bagno devo
2) portare vestiti in lavanderia – esistono le lavanderie in Giappone vero – al più presto domani puzzo di schifo non
3) e la telecamera dove la mollo
Un ingombrante tempio scintoista in periferia non può certo ritagliarsi uno spazio in mezzo a questi prepotenti colossi fondamentali del pensiero umano, pensa con rabbia Thomas digrignando i denti e tirando un calcio contro la porta della sua stanza che, orgogliosa come poche cose al mondo, rimane inesorabilmente chiusa. A Thomas le porte chiuse sono sempre state antipatiche.
Rassegnato, punta la Super 8 – che sta sempre lì, cinta al suo avambraccio sinistro – sulla porta e prende a filmare.
“Giorno due:” si appunta a mente, non senza un filo di acredine, “l’ennesimo mal di vivere che t’assale.”

4:30 (20:30 a GMT + 1:00). Guy-Manuel abbassa la cornetta. Gli sudano le mani.
È il terzo messaggio che lascia nella segreteria di Paul. Al telefono, la voce preregistrata di suo fratello suona come un sibilo incerto, come a sottolineare un’incommensurabile distanza. Preferisce piuttosto concentrarsi sui i suoi silenzi, sulla maniera in cui prende fiato tra una parola e l’altra, brevi attimi di inconsistenza durante i quali Guy-Manuel non si sente costretto a provare niente.
Sospira. Si sdraia sul letto a due piazze della stanza e fissa il soffitto della stanza, colorato dalla luce soffusa dell’abatjour.
Voglio dormire, pensa.
E voglio fumare.
Ma voglio di più dormire.
Si butta il cuscino in faccia.

(Poi, la cacca del piccione. Proprio lì, sulla spalla. Metaforica – per fortuna –, inaspettata e travolgente, e anche meno puzzolente: venti minuti dopo, una tizia a caso di nome Qualcuno gli offre un letto. In realtà, gli offre sia un letto sia del conforto fisico. A Thomas la cosa andrebbe anche bene, se solo non avesse lasciato la ragazza a Parigi. Si incontrano per caso due ore dopo la catastrofe, al lounge bar situato al ventitreesimo piano dell’albergo, e hanno entrambi i capelli tinti di un colore che non è loro e l’aria di essersi chiaramente persi. Anche se in realtà lei non si è persa: Qualcuno dice di essere una spia freelance e di non poter rivelare il suo nome a nessuno, di vivere in questo paese da cinque anni e di essere vegetariana. Thomas le fa nel suo inglese maccheronico che anche lui è una spia, che il suo nome in codice è Big Bang – o T-Bang – e che una volta a Parigi – “sono nato là, sai” – ha sfondato una gomma a furia di andare a più di cento chilometri all’ora su una strada acciottolata. Ridono. Lei gli chiede cosa l’ha colpito di più di questa città. Thomas ci rimugina un attimo, rigirando nel frattempo la cannuccia nel cocktail. I suoi occhi cadono sulle vetrate del locale che danno su Tokyo vista dall’alto e, lasciandosi incantare dalla sera che scende viscosa sui grattacieli, incomincia il resoconto di ciò che ha visto, incontrato, toccato e sentito in quegli ultimi due giorni: l’oscurità fuori dall’oblò, quindici gradi all’ombra, uno sguardo che gli è capitato di incrociare attraverso l’obiettivo della sua Super 8 e che sa di certo di conoscere fin troppo bene perché di uno sguardo così ce n’è solo uno in questo mondo – ma no, non è possibile, pensa –, il paravento rosa, la risata della ragazza alla reception, l’occasione di filmare l’alba, la luce del sole che batte sulle orchidee di un venditore ambulante di fiori, cinque ragazzi dai capelli tinti di viola che vanno a braccetto lungo Harajuku, un contabile coi risvolti ai pantaloni in tela, un porcospino sul marciapiede, lo spiazzo più grande che gli sia mai capitato di vedere, l’onnipresente brusio delle strade...)
Adesso i pensieri fondamentali di Thomas sono:
1) le cassette sono tutte nella stanza ma non ho la chiave e domani ho l’appuntamento con nonmiricordocomesichiama e non sono poi ’sto gran talento a sfondare le porte nossignore ci ho provato una volta e alla mia spalla è bastato fitte lancinanti per cinque cinque! giorni addio a mai più ma non ho neanche i soldi per pagarmi la penale e non so il giapponese e nonmiricordocomesichiama si arrabbierà con me e non approverà la mia idea e morirò come faccio come faccio come faccio come
2) no Thomas non devi andare a letto con Qualcuno no Thomas no è solo il tuo secondo no ormai terzo giorno qui non mandare tutto all’aria mer
3) da ho i calzini spaiati e non ho il cambio ora come faccio
Adesso Thomas è a torso nudo su un letto su cui non riesce a prender sonno, la testa che gli pulsa come se non ci fosse un domani e circondato dal buio e da persone che non conosce, il cuore che gli batte troppo forte, lo stomaco in subbuglio, la puzza stagnante di corpi addossati uno sopra l’altro che gli pizzica le narici e, Cristo, quanto manca ancora al mattino?
Gli amici di Qualcuno vengono tutti da Osaka: gente simpatica e chiassosa. O simpatica ma chiassosa. A Thomas il chiasso piace, i calzini spaiati un po’ di meno. A detta di qualcuno, ma anche di Qualcuno, in generale i Tokyoites non li soffrono tanto, quelli di Osaka. “Un po’ come il resto del mondo non soffre i parigini, dopotutto,” asserisce Thomas come a sostegno di una tesi, perché Thomas adora sostenere tesi.
A ogni modo, gli amici di Qualcuno sono simpatici. E chiassosi. E sanno come far festa. Decisamente. Per l’occasione, Thomas fa persino uno strappo alla regola e fa un paio di tiri dallo spinello di uno con i capelli tinti di un bizzarro rosso bordeaux. Quest’ultimo gli urla un paio di cose senza però riuscire a coprire il suono della musica – l’impianto stereo di quella casa è degno di nota. D’altronde Thomas non potrebbe nemmeno capirlo, dato che in questa stanza nessuno – a parte Qualcuno e Thomas stesso – sa parlare una lingua che non sia il giapponese.
Qualcuno però scompare nel nulla per gran parte della serata e Thomas si ritrova sballottato tra una persona e l’altra, uno che gli chiede a gesti di dire “omelette du fromage” e l’altra che lo costringe a ingollare una quantità imprecisata di sostanze che non riesce a identificare, ed è così che finisce col trascorrere il resto della notte tremante come una foglia, in bilico su una pila di impasticcati e cadaveri che respirano. Perlomeno gli è già capitato. Sa come gestire la situazione. Più o meno.
(E come se non bastasse, gli prude da morire una chiappa. E una ragazza sonnambula sta cercando di abbassargli i pantaloni. A vederlo così, Laurent scoppierebbe a ridere e non smetterebbe più.)
Alle sette del mattino, Qualcuno rientra in casa carica di borse grandi il doppio di lei. Alza le veneziane e per contro Thomas si nasconde sotto le coperte per non rimanere accecato. Cinque minuti dopo, Thomas è seduto su uno sgabello scomodo e fissa un piatto poco invitante di uova strapazzate e salsicce. Deglutisce. Cioè, poverina – ci ha messo del suo meglio – ma, davvero, non ce la può fare.
“Non eri vegetariana?” le fa, la voce che gli esce più strozzata di quanto sperasse.
“Sì, perché, lo sei anche tu?”
Non, ma...”
Poi lei gli spiega che ha risolto tutto e che non deve preoccuparsi: tutta la roba di Thomas (camicie, mutande, calze, calzettoni, videocassette, audiocassette, libri, riviste e bla bla) è in salotto. Ci vogliono almeno cinque minuti affinché Thomas decodifichi correttamente l’informazione in modo da assimilarla del tutto; i conti torneranno da Thomas solo quando quest’ultimo scoprirà accidentalmente che Qualcuno fa la governante di quell’albergo e, in contemporanea, verrà a sapere del suo vero nome. Non riesce quindi a ringraziarla e lei deve “scappare; ho lavoro” e Thomas è di nuovo solo e circondato da impasticcati e cadaveri che respirano, che “di solito si alzano verso le due del pomeriggio”. Thomas reinghiottisce ciò che il suo corpo cerca di rigettare, la fronte madida di sudore; corre in direzione di quello che sembrerebbe un bagno, getta le uova strapazzate e le salsicce nel gabinetto, tenta disperatamente di capire come diamine faccia la gente di questo paese a tirare lo sciacquone, tira lo sciacquone e per poco non esce dall’appartamento senza scarpe.

3:59. “Un regalo,” diceva il post-it azzurro attaccato sul mangiacassette. “Per incorniciare ciò che sentirai.”
Non ha da lamentarsi. L’azzurro gli è sempre stato simpatico. Dopo aver controllato se le pile siano state inserite correttamente, pigia il tasto rosso e posiziona l’apparecchio sul lavandino, si siede sul bordo della vasca e, dopo essersi inumidito le labbra e mandato i lunghi capelli castani all’indietro, ridesta il flusso dei suoi pensieri. Pensa, pensa, pensa. È esattamente la sua terza settimana da insonne e il suo terzo giorno passato in segregazione. Tre e tre. Qualcosa in lui gli fa che dovrebbe uscire, farla finita con le guide turistiche tascabili che il signor Toyoda tiene in un angolo della libreria azzurra – pure quella – che sta in soggiorno e ridere, affrontare il resto del mondo che lo aspetta al di fuori di quella porta, respirare e correre.
Invece ha finito il suo rifornimento di sigarette, è da quando è arrivato lì che non si cambia e l’odore dei suoi stessi vestiti sta iniziando a dargli il voltastomaco. Gli viene in mente che un’ora fa qualcuno ha fatto passare un bigliettino attraverso la fessura sotto la porta d’ingresso. Ha provato a leggerlo, ma era in giapponese. L’ha appeso sul frigorifero con un magnete a forma di cuore e non l’ha più guardato.
Ogni tanto, gli capita di pensare a Thomas. Si morde il labbro inferiore. L’ultima volta che si sono visti, hanno litigato. Uno dei due ha spintonato l’altro e sono volati degli insulti. Non l’ha nemmeno salutato. Capita.
Poi si accorge che è da almeno un minuto intero che sta registrando. Chiude gli occhi. Pensa, pensa, pensa.
“Manco i cessi sono normali, qui,” dice.
Preme di nuovo il tasto rosso.

1) la signora che è appena passata accanto a me aveva un neo proprio qui – sul labbro
2) questa strada non finisce mai e voglio solo morire investito da un tram non sto scherzando ho caldo odio tutti
3) Hajime (肇) = "inizio" (me l’ha detto Qualcuno)
La storia è semplice: una sera, per sfizio, Thomas dice a suo padre che magari potrebbe inviare i suoi filmati ad un produttore di film indipendenti o comunque una roba del genere.
Amen, gli replica uno sceneggiatore random che vive ai confini del planisfero e con il quale suo padre ha contatti da più di dieci anni. Thomas ci riflette su e, accortosi di non avere ancora compiuto la sua personale cazzata dei diciott’anni, coglie l’occasione al volo e, sempre al volo e sempre per sfizio, va a Tokyo per andare a trovare questo sceneggiatore random – ovvero il signor Hajime.
(Laurent lo canzona chiedendogli se mica voleva fare il dj o cosa. Thomas gli fa una pernacchia e gli dice solo: “Rilassati, bello. Sono grande, ormai. Ora o mai più.”)
Il signor Hajime ha: trentanove anni, un incommensurabile disprezzo nei confronti del proprio cognome, il senso dell’umorismo di un bambino di sette anni, i capelli rasati sulla nuca, una valigetta di cuoio che chissà cosa contiene, un tic nervoso all’occhio sinistro, due nei sulla guancia destra.
Non ha: una patente, una cravatta, una fidanzata (e sta bene così).
E gli piacciono da morire le zuppe. Zuppe piccanti, zuppe agrodolci, zuppe agro piccanti, zuppe zuppe zuppe. A questo proposito, si danno appuntamento per la prima volta in un ristorantino specializzato in zuppe. Con i sensi offuscati dal peso di oltre ventiquattr’ore da cosciente e di oltre cento milligrammi di roba che circola tuttora all’interno dei suoi vasi sanguigni, Thomas entra nel locale per ritrovarsi circondato da un radiante alone di luce bianca e strizza gli occhi, mentre un’ondata di odori di ogni genere gli si schiaffa contro. Quando li riapre, il signor Hajime lo sta salutando dal lato sinistro della sala con il sole in faccia. Sorride. Quel tizio gli sta già simpatico.
Si siede accanto al signor Hajime, che se ne sta appollaiato su uno sgabello svedese, i gomiti fissi sul bordo del bancone posto di fronte alla vetrata. A presentazioni fatte, il signor Hajime inizia a fargli domande a caso a cui Thomas risponde a caso, e ad un strategico “Bella telecamera!” elaborato apposta per lusingare e accompagnato da una rapida (e involontaria) strizzata dell’occhio sinistro, Thomas non può che ribattere sfoggiando la sua ristretta padronanza della lingua giapponese in un goffo “Arigato!”. Ad avvicinarli è l’audacia nella quale entrambi annaspano nel tentativo di dire la sua in una maniera o nell’altra, che sia in inglese o a gesti o in alfabeto morse. Si tratta di testardaggine, e tra due testardi può solo 1) scoppiare un conflitto o 2) instaurarsi un’alleanza. Per evitare sconvenienze, optano entrambi per la seconda.
(Verso le nove di sera, Qualcuno torna a casa dal lavoro e posa un piatto pieno di pesce fritto sul tavolo della cucina. Un regalo da parte dei colleghi, dice. Peccato che Thomas non digerisca il fritto, e manco a farlo apposta il pesce fritto finisce dritto nel gabinetto. Come le salsicce e vattelappesca.)

3:01. In un momento di boria, Guy-Manuel trova nella sua stanza un cassetto che trabocca di audiocassette e si domanda come abbia fatto a non accorgersene prima.
È perlopiù roba giapponese che rifugge da ogni tentativo di contestualizzazione, nascosta dietro a rettangolari copertine extraterrestri e spastici caratteri multicolore scritti in cubitale qua e là. Roba dell’altro mondo. Ogni tanto saltano fuori dei titoli in alfabeto che Guy-Manuel riconosce con prontezza – ora  i Residents, ora i Devo –, ma sono solo delle particelle di luce circondate dalla più completa oscurità. Guy-Manuel si ritrova a passare gran parte dei pomeriggi seguenti ad ascoltare questa musica aliena dall’ormai suo mangiacassette, ritrovandosi addirittura a farsela piacere.
Sopravvivenza.

1) uno di quei ragazzi strani di Osaka mi ha chiamato dicendo tipo “baguette-kun” e io non capisco
2) ho un dolore tremendo al fianco sinistro maledizione stanno succedendo troppe cose e non riesco nemmeno a pensare
3) chissà che faccia avrebbe fatto – o cos’avrebbe detto se – mi avrebbe guardato con aria confusa – carica di disapprovazione – per poi portarmi a casa sua – decimo o undicesimo arrondissement – non ricordo – ormai – per poi prepararmi un panino – o scaldarmi un piatto pronto – o decidere che oggi sono in vena di italiana, spero che l’amatriciana vada bene – l’importante è che non sia niente di fritto – tu il fritto non lo digerisci – oppure si sarebbe limitato a criticarmi perché non riesco a prendere il controllo sulla mia vita – perché sei ancora un bambino e su questo sarebbe d'accordo anche Laurent e di questo mondo non ci hai ancora capito un cazzo – sei così piccolo e vorrei solo
Prendono un altro appuntamento due giorni dopo – “Giorno cinque: ça va? ... Ça va” – e si fermano nell’appartamento di Hajime – che casualmente si trova accanto a quello di Qualcuno. Hajime avvisa Thomas della presenza di un ospite – “un ragazzo in gamba” – che però risulta assente. “Sarà uscito,” propone Thomas. Hajime fa spallucce e lo invita a sedersi sul divano letto del soggiorno, uno spazio grande quanto basta per una persona che vive da sola, le pareti bianche esenti da stampe o calendari e i pochi mobili redatti in compensato (eccetto la libreria, posta accanto al divano, che è azzurra). Porta due bicchieri di frullato alla banana e mette su le videocassette di Thomas una dopo l’altra, seguendo con cura l’ordine indicato dall’etichetta su ciascuna cassetta. Nel frattempo, Thomas gli spiega che “penso di aver tratto spunto dal Neorealismo italiano post-bellico, ma anche dalla nostalgia che è sopraggiunta in seguito; mi sono soprattutto rifatto a Fellinì – deceduto l’anno scorso, non sa quanto mi è dispiaciuto – e al suo film I Clowns del ’70, un documentario sui... circhi, che hanno popolato l’infanzia del regista: la telecamera un po’ mossa vuole... accentuare l’aspetto documentaristico di questi filmati, poiché...”
“Fellinì? E chi sarebbe ’sto Fellinì?”
Thomas sgrana gli occhi. Boccheggia un attimo, incredulo.
“Dai, signor Hajime,” lo incalza, “non può non conoscere Fellinì. Amarcord... Satyricon...”
“Ah!” esclama di colpo Hajime, illuminandosi tutto. Tremolio alla palpebra sinistra. “Intendi Ferrìni!”
Thomas storce il naso.
“Ferrìni?”
“Ma sì. Ferrìni. È italiano, no?” dice Hajime, e la sua palpebra sinistra trema.
“Ou-ouimais... Non si chiama Ferrìni, si chiama Fellinì.”
“Non si chiamava Federico Ferrìni?”
Non, non. Federico Fellinì.”
“Io ho sempre saputo Ferrìni.”
Thomas esce da quel soggiorno due ore dopo con una testa così e una soddisfazione in più: a Hajime piace il suo materiale. Gli viene da pensare a Qualcuno, che la sera precedente, aiutata da un altro dei suoi amici da Osaka, gli ha preparato un piatto tipico di Osaka detto okonomiyaki, una specie di frittella dall’aria poco invitante. Laurent si sarebbe divorato pure quello.
E Thomas si è ritrovato a gettare pure quello nel gabinetto. Non per cattiveria – non aveva fame. Neanche adesso ne ha. E vorrebbe averne, e gli dispiace, ma non ci può fare niente.

1:58. Una delle innumerevoli guide ficcate nella libreria in soggiorno dice che quest’appartamento si trova vicino a un famoso quartiere a luci rosse. Guy-Manuel fa schioccare la lingua, intrigato. Magari portarsi a letto una tipa potrebbe dargli una mano a riprendere il controllo di se stesso. Fare la guerra per la pace, fare sesso per la verginità, fare sesso per tornare con i piedi per terra. Si tratta di approcci. Ma Guy-Manuel è timido, e il piano cade.
Ha persino provato a uscire, quel pomeriggio. Cioè, è andato giusto fino alla fine della strada, dove si intravede in lontananza la stazione. Vorrebbe dire che è stato emozionante, ma Guy-Manuel vuole essere sincero con se stesso e sa che no, non è stato emozionante. Anzi. È stato un’emerita merda: un tizio pelato gli urta la spalla e manco gli chiede scusa. Due ragazzine ruminanti fanno un palloncino con la gomma da masticare e lo guardano con aria saccente. Una signora con i sacchi della spesa incrocia il suo sguardo e si mette a ridere. Un adolescente impacciato con gli occhi fissi sul Game Boy gli urta l’altra spalla mentre attraversa le strisce pedonali e figuriamoci se gli dice qualcosa. Merda, merda, merda. Guy-Manuel trattiene un urlo e torna indietro di corsa. Non è neanche riuscito a comprare le sigarette.
Quelle cazzo di sigarette.
Si alza. Deve, deve, deve fumare. D’impulso, tira un calcio contro lo spigolo del comodino e scaglia la guida turistica oltre il letto matrimoniale. Si addenta il labbro inferiore: l’unghia dell’alluce prende a sanguinargli copiosamente.
Tra due minuti, Guy-Manuel zoppicherà fino al bagno per sciacquarsi il dito leso e per darsi una calmata, ma al momento riesce solo a cadere di nuovo sul parquet e a elencare fra sé tutto ciò che è andato storto nel corso della sua esistenza.

(“– che siamo tutti soli, ok? Tu compreso, Thomas. Lo siamo sempre e lo saremo tra un’ora, un minuto, un secondo, e lo siamo anche adesso. Siamo nati come agglomerati di atomi indipendenti l’uno dall’altro, moriremo come tali e nessuno potrà farci un’emerita sega. Se quella volta sul treno per Monaco ti sei seduto accanto a me è stato puro caso e sarà sempre per puro caso che ti disinteresserai di me e io mi disinteresserò di te, perché il mondo è un cazzo di spazio vuoto riempito da dei cazzo di atomi che ci vagano dentro a random e che a furia di vagare finiscono col scontrarsi e fare reazione e [...] questi sono i discorsi che ci si ritrova a fare quando si è ciucchi come pochi.”)
Thomas trascorre i seguenti due, tre giorni a costringersi a non pensare – troppo mal di testa – girando a vuoto come una trottola, a sussurrare fra sé filmando palazzi, vie e ragazzi che giocano a Pac-Man e a ingollare altre pasticche colorate ed eccetera. Le giornate iniziano con Hajime che mangia una zuppa e Thomas che va ad incollarsi al gabinetto per qualcosa come due ore consecutive e finiscono con Thomas che non ci capisce più niente e ragazzi giapponesi che parlano in giapponese e fanno cose giapponesi cantando hit giapponesi. Il pomeriggio, gli occhi spalancati e la bocca allo stesso modo mai del tutto chiusa, Thomas si lascia incantare da un grattacielo e lo fissa e lo filma fino allo sfinimento, cercando di assorbirne ogni singola vetrata, riflesso e quant’altro. Le sue mani tremano dall’emozione facendo sussultare l’immagine riflessa, e Shibuya è tutt'a un tratto colta da un terremoto in slow motion.
Il settimo giorno – “mi sono dimenticato di cambiarmi le mutande” – si posiziona fra le strisce pedonali al centro di una sconfinata piazza circondata da colori ed epilettici cartelloni pubblicitari, aspetta col fiato sospeso che il semaforo diventi verde, le cose si fanno tutt’a un tratto piccole e il corpo di Thomas è ora attorniato da tanti altri corpi in movimento, macrorganismi dotati di fini e obiettivi. Thomas lascia che spalle estranee vadano volente o nolente a cozzare contro le sue e, a occhi chiusi, sentendosi come al centro dell’intero universo, sorride.

0:03. Mentre Guy-Manuel vaga per la stanza da letto con le cuffie nelle orecchie, il signor Toyoda fa un salto in casa. In un primo momento, Guy-Manuel non si rende conto della sua presenza, né si sorprende tanto in seguito quando lo vede seduto sul tavolo della cucina, intento a tagliare una mela con l’ausilio di un apposito tagliere in legno. Il signor Toyoda è una figura che di tanto in tanto si intrufola silenziosa nel campo visivo di chi ha davanti e che con estrema spontaneità, come ci è entrato, ne esce.
“Sto preparando un frullato,” afferma, loquace.
Guy-Manuel accoglie la notizia con un breve cenno. Le uniche volte che gli è capitato di vedere il signor Toyoda, quest’ultimo è sempre stato un adorno compreso entro le pareti della propria cucina, come se al di fuori di quello spazio la sua esistenza s’annullasse di colpo. Guy-Manuel immagina che lo stesso valga per la sua presenza in quella casa.
La preparazione richiede un altro quarto d’ora, durante il quale Guy-Manuel torna ad ascoltare gli Yellow Magic Orchestra e guarda il signor Toyoda sbucciare le mele, collegare la spina del frullatore ad una presa e bla bla. Alza un angolo delle labbra. Gli sembra di assistere dal vivo ad un programma di cucina. Prima di assaggiare il risultato finale, congiungono le mani e tanto per fare dicono itadakimasu. Il signor Toyoda se la cava.
E come se bere un frullato di frutta e noci a mezzanotte non fosse già abbastanza peculiare, il signor Toyoda – che in realtà odia essere chiamato signor Toyoda – se ne esce col chiedergli se ha fatto dei giri, se ha comprato qualcosa e, soprattutto, cosa l’ha colpito di più della città.
Guy-Manuel non se la sente di dirgli come stanno le cose. Vuole giocare di fantasia. Cosa l’ha colpito di più di Tokyo? Fa un riepilogo mentale di tutte le pagine a cui ha fatto le orecchie. Ci prova, ci pensa.
“La Tokyo Tower,” dice, dopo un po’, atono. “Mi fa sentire a casa.”

([...] cerca di mettere a fuoco l’ambiente circostante e si stupisce nell’accorgersi di essere l’unico passeggero di un vagone fermo nel mezzo di una galleria. Non sa nemmeno come ci è finito, sulla metropolitana. Ci è finito e basta. Guarda i posti liberi e le presine dondolanti che lo circondano e rabbrividisce, avviluppato da un repentino stato di completo vuoto, nessun'anima viva a circondarlo e, fuori, il buio più sporco che gli sia mai capitato di intravedere. Si stringe nelle proprie spalle. Ha freddo.)
Più tardi viene a sapere da qualcuno che c’è stato un guasto sulla linea Yamanote e Qualcuno, nel vederlo un po’ scombussolato, lo porta ad un cocktail bar e offre un giro. E per distrarlo, tirando da una cannuccia colorata, gli racconta della leggenda del filo rosso del destino.
In realtà si tratta di una leggenda cinese, dice lei, ma si sa che i giapponesi sono dei fenomeni nel spacciare per propria una cosa altrui. Senza offesa, per carità, ma è così. È per questo che mi stanno simpatici. In pratica, prosegue lei, il filo rosso del destino è un indistruttibile filo legato al mignolo sinistro di ogni uomo e donna al mondo, unendolo o unendola alla propria anima gemella. Ogni avvenimento nel corso della storia farà sì che le due anime gemelle connesse tramite il filo si sposino, mettano su famiglia e bla bla. Nella leggenda originale questo filo era legato alla caviglia, e come sia finito con l’andare a legarsi al mignolo proprio non si sa. La gente e le sue superstizioni.
Thomas, ritrovatosi (strano a dirsi) senza parole, abbassa un attimo gli occhi sul suo mignolo sinistro. Intimidito, alza la mano, come si fa a scuola. Qualcuno ride.
“Non siamo a scuola, T-Bang,” gli fa. “Puoi parlare.”
Thomas arrossisce e abbassa di nuovo lo sguardo. Qualcuno non smette più di ridere.
“Ma non trovi anche tu che sia fisicamente improbabile?”
“Improbabile?”
“Cioè... Dovrebbe essere un filo lungo chilometri. Poi sai che fastidio, cioè, facciamo che, che ne so, il filo che collega Tizia e Caio abbia una lunghezza di settecento chilometri. Se per ragioni di lavoro o non so cosa Caio deve andare a, facciamo un esempio, Tokyo, non può farlo perché Tizia si trova a, che ne so, Parigi.”
Il discorso di Thomas ha causato nel frattempo un ulteriore accesso di ilarità in lei, che non riesce più a smettere di ridere e stavolta per davvero. Thomas è sempre più rosso.
“... non sei un tipo tanto romantico, vero?”
“Ma io sono romanticissimo,” protesta Thomas. “È solo che non capisco.”
“Allora non capire, T-Bang. Non ce n’è bisogno.”
Gli tira una guancia, come fanno le vecchie zie, e fa una piccola smorfia di disappunto.
“Sei adorabile,” gli fa, “però hai bisogno di rimpolparti un po’.”

21:30. Da un lato per necessità e dall’altro per svago, traccia in penna verde su un foglio a righe il suo bilancio settimanale. Quarta settimana da insonne, mezzo chilo acquisito a furia di ingozzarsi di qualsiasi cosa riesca a scovare nella fin troppo rifornita dispensa del signor Toyoda e almeno tredici posti da visitare, a giudicare dalle innumerevoli orecchie che ha fatto alle pagine delle svariate guide turistiche che ha spulciato.
Constata che i noodles istantanei danno dipendenza e che guardare foto di luoghi in cui non è mai stato ha su di lui un effetto rasserenante. La Terra è ancora un blocco di materia sospesa in mezzo al nulla, il Sole non si è ancora messo a inghiottire pianeti a random e non è risorto nessun dittatore con manie genocide. Insomma, poteva andare peggio.
Guy-Manuel schiaccia il tasto rosso del mangiacassette. Vuole dire qualcosa, dire che ha fame, dare voce al fatto che non ci capisce più niente e che ha perso il conto dei giorni che sono passati dall’inizio della sua consensuale reclusione in quell’appartamento e che magari domani si farà forza e uscirà da quel buco, giusto per non puzzare più di chiuso e di grasso in via di accumulazione. Lo specchio del bagno è pieno di ditate per chissà quale motivo. Dovrà darci una pulita. Se solo sapesse dove stanno i panni.
In quel momento, suonano alla porta.

(Al decimo giorno di soggiorno a Tokyo, verso le dieci di sera, Thomas si sente morire. Corre, corre, corre e, sicuro di stramazzare a terra da un momento all’altro, raggiunge l’ingresso dell’appartamento, sempre di corsa, il cuore che corre assieme a lui, e prende l’ascensore. Ansima, suda e aspetta. Al diciottesimo, ventesimo, millesimo piano si getta letteralmente fuori dalla cabina e si va a sbattere contro la moquette del corridoio. Si rialza, tossisce, riprende a correre. Trova una porta. Suona.)

Nessuno dei due sa con certezza chi abbia fatto la prima mossa, ma non ha importanza. Guy-Manuel accoglie il peso del corpo smunto di Thomas indietreggiando un poco con la schiena, mettendosi in punta di piedi in modo da poggiare la guancia sull’incavo del suo collo, e Thomas sta tutto ricurvo su Guy-Manuel per affondare naso e bocca sulla sua spalla morbida. Thomas vorrebbe solo che le sue mani riuscissero ad abbandonare la schiena di Guy-Manuel e Guy-Manuel vorrebbe solo avere delle braccia forti e lunghe abbastanza da avvolgere completamente Thomas.
L’ultima volta che si sono abbracciati così, è stato ad un funerale, osserva Guy-Manuel. Glielo dice.
“Perché?” balbetta Thomas, il respiro irregolare. “Siamo stati ad un funerale?”
“Sì. Nell’89.”
“Chi era morto?”
“Non ricordo.”
“Guy?”
“Sì?”
“... non ce la faccio più.”
Nemmeno io, pensa Guy-Manuel prima di reggere Thomas per i fianchi per accompagnarlo in bagno. Lo spoglia, gli sciacqua il viso, lo tiene per i capelli – che tinta del cazzo – mentre lo guarda tossire come se dovesse sputare un organo da un momento all’altro e scaricare nel cesso tutta la merda che ha trangugiato nel corso delle ultime due ore, gli asciuga il sudore dalla fronte con la carta igienica, gli sciacqua di nuovo il viso. Gli chiede se ha bisogno di pisciare e intercetta a fatica un flebile no. Lo prende sottobraccio un’altra volta e lo riporta in camera da letto, vergognandosi dell’odore di chiuso e di cibo preconfezionato effuso dalle pareti, e lo riveste con degli stracci nuovi e lo mette a sdraiare sul letto.
Si lascia cadere al suo fianco. Lo copre.
“No,” biascica Thomas, “sto morendo dal caldo.”
Guy-Manuel annuisce e tira via le coperte. Posizionata la mano destra sulla propria fronte, poggia la sinistra su quella di Thomas, che è effettivamente bollente.
“Sto bruciando.”
“Già.”
“Sto bruciando,” ripete Thomas, gli occhi fissi sul soffitto, “sto bruciando da ore e nessuno se n’è accorto. No, Guy, neanche tu puoi capire, è... difficile, e fa male, fa malissimo. È come se stessi per d... d... disintegrarmi, esplodere, dissolvermi in una nuvola di organi, organi che sono a loro volta... Non lo so, mi sento così... così piccolo, così...”
Guy-Manuel guarda dappertutto tranne che alla sua destra. Thomas cerca la mano di Guy-Manuel. Non la trova.
“Sono così agitato. Non mi è mai capitato di essere così agitato,” balbetta, e ride. A singhiozzo, perché Thomas ha sempre riso a singhiozzo. “O forse sì, non lo so, magari giusto quella volta in cui la ragazza più carina della scuola mi ha chiesto di passarle i compiti, oddio, Guy, te la ricordi? Non è riuscita a passare l’anno. Come te.”
“Vero.”
“E te la sei fatta.”
“... vero.”
“Ho paura, Guy, il mondo è così grande e io sono nella merda fino al collo. Ma sono così contento di essere qui e non so, so solo che potrei ripetere il tuo nome all’infinito, anzi, guarda, adesso lo faccio: Guy, Guy, Guy, mio Dio da quanto tempo non lo dico. All'inizio di questo viaggio non facevo che pensare a Laurent. A cosa mi avrebbe detto, a cosa mi aveva detto, a cosa avrebbe pensato. Poi ho smesso per chissà quale motivo. Ma fa niente. Sono così felice.”
Tace per alcuni secondi durante i quali annaspa per raccattare un po’ di ossigeno e tenta invano di attutire almeno un po’ di quel tremore che lo sta assillando da quaranta minuti, macché, due, tre, cento ore a questa parte. Guy-Manuel lo aspetta. Quando ritrova le parole, pronuncia quelle sbagliate.
“Sei mesi,” dice.
Guy-Manuel sente che il soffitto di quella stanza gli cadrà in testa da un momento all’altro.
“Fesserie,” lo rimprovera. “Sono cinque mesi e dieci giorni. Li ho contati.”
“Sei mesi,” insiste Thomas, la voce che gli esce più stridula del normale, “se arrotondiamo per eccesso.”
“Vaffanculo.”
“Questo... questo non risponde alla mia domanda.”
“Non mi hai fatto nessuna domanda, Thomas. Sei strafatto e stai delirando. Dormi.”
“No. Non ho sonno. Non ho mai sonno.”
“Me ne sbatto. Neanch’io ho mai sonno. Quindi stai zitto e dormi.”
“Rispondimi.”
“Dormi.”
“Ti prego.”
“Fregacazzi. Io me ne torno in salotto.”
Guy-Manuel non fa in tempo ad alzarsi che le dita ossute di Thomas lo afferrano per un’estremità della felpa. Barcolla un attimo.
“Porca puttana, Thomas, lasciami andare!”
“Guy, sentimi il polso.”
“No, me ne vado.”
“Senti qua,” Thomas, esausto, afferra con delicatezza l’altra mano e ne posa l’indice e il medio sul proprio polso destro. Non ha ancora smesso di tremare. “Senti come mi batte forte il cuore. È da due ore che va avanti così.”
Guy-Manuel non oppone resistenza – non se la sente – e lo lascia fare. Rabbrividisce.
“Fanculo, Thomas, ora chiamo l’ambulanza.”
In tutta risposta, Thomas bofonchia in segno di protesta e tira a sé l’altro, che a malavoglia lo lascia fare. Guy-Manuel fa del suo meglio affinché le sue ginocchia non vadano a inchiodare nessuna parte del corpo di Thomas, rotola al suo fianco e lo stringe ancora una volta a sé, passando una mano sulla sua spina dorsale. Stanno così per un po’.
“Senti, Guy...”
“Sì.”
“Se... se schiatto, chiama i miei genitori e digli che a volte capita di fallire. È la vita.”
Quella richiesta coglie Guy-Manuel impreparato. Thomas lo sente trasalire un attimo prima di ribattere.
“No.”
“Dai.”
“Non lo farò perché sarebbe ipocrita. Tu non sai un cazzo della vita, hai solo diciassette anni.”
“Diciotto.”
“E a diciassette anni non puoi ancora capire.”
“Diciotto.”
“Diciotto. E non schiatterai, Thomas, perché chiamerò l’ambulanza.”
Thomas scoppia a ridere, e continua finché non gli si arrochisce la voce.
“E cosa gli dirai?”
“... ci devo pensare.”
“Tu non sai l’inglese, Guy-Man.”
Guy-Manuel cerca la mano di Thomas. Non la trova.
“E tu non puoi schiattare. Hai solo diciassette anni.”
“Diciotto.”
“Diciotto.”
“Milioni di persone muoiono a diciassette anni.”
“Taci.”
“Allora mettiamola così. Se sopravvivo, mi prepari dei salatini al formaggio.”
“Non ho gli ingredienti.”
“Se fossimo a Parigi, mi prepareresti dei salatini al formaggio.”
“Non siamo a Parigi.”
“Allora mi dovrai delle spiegazioni. Qualcosa che giustifichi questi sei mesi.”
“Cinque mesi e dieci giorni.”
“Sei mesi. Non mi sono mai sentito così solo.”
“Siamo sempre soli, Thomas.”
“Non è vero. Ora sei con me.”
“Sai cosa intendo dire.”
Thomas esita.
“Lo so fin troppo bene,” dice. “Sto solo facendo finta di nulla.”
A questo punto, pensano entrambi che forse farebbero meglio a continuare a parlare. Forse dovrebbero chiacchierare, liberare l’aria da tutto quell’astio, chiedersi a vicenda cosa ci fanno lì, dirsi che il destino è una cosa davvero strana – o chissà, magari non è neanche destino, magari siamo davvero solo delle anime disperse che nuotano in un mare di congiunzioni fortuite, che in questo groviglio di reti intercomunicanti e ragazzini vestiti da personaggi dei cartoni animati non potevano non scontrarsi da un momento all’altro; è tutto così difficile – e farsi una risata pensando a quell’ultimo diverbio che hanno avuto, con Thomas a dire che certo che litighiamo per delle cavolate, non trovi?, a cui Guy potrebbe replicare con un laconico “già”. Poi Thomas gli potrebbe chiedere con calma perché non mi hai telefonato? perché non mi hai scritto?, potevi almeno avvisarmi, ti avrei aiutato, ti avrei – e si sarebbe interrotto nel vedere Guy scrollare le spalle perché boh. Non lo so. Perdonami.
Invece stanno zitti, e Guy-Manuel approfitta della sua posizione per posare l’orecchio sul petto di Thomas, in attesa che il battito rallenti.
Nel corso della notte, la temperatura corporea di Thomas si abbassa e si alza a intervalli irregolari, per poi stabilizzarsi solo quando quest’ultimo si addormenta. D’altra parte, Guy-Manuel non ha per niente sonno e, nel vedere l’amico a occhi chiusi e bocca aperta, sul suo viso va a formarsi il primo sorriso spontaneo in due settimane. Per evitare che gli sbavi sul cuscino cerca di chiudergli le labbra con un dito, ma queste si riaprono.

Quando Thomas si risveglia, i suoi pensieri fondamentali sono:
1) mi viene da vomitare e gli ho insalivato il cuscino e gli avrò insalivato i capelli la vita è un grandissimo – se non il più grande – pezzo di m
2) aledizione com’è possibile ho di nuovo i calzini spaiati ma quando diamine è successo come è successo Cristo santo
3) e quell’idiota mi aveva promesso delle spiegazioni ma
se l’è svignata. Doveva aspettarselo. A Guy-Manuel, le gambe svelte abbastanza da permettergli di scappare via dalle cose non sono mai mancate. Sarà che il suo corpicino piccolo e tarchiato è abituato a infilarsi dappertutto, a differenza di quello lungo e dinoccolato di Thomas, in grado solo di trascinarsi a fatica e di scontrarsi con le leggi della gravità.
Le nuvole sono dappertutto. In cielo, nell’intercalo fra un pensiero non fondamentale e un altro di Thomas e ad avvolgere la parte del letto che era stata in precedenza occupata da Guy. Sul comodino, c’è un post-it azzurro. La calligrafia è quella di Guy, morbida e tagliente allo stesso tempo. Tanto vale.
“Tornerò,” dice, “il pranzo è sul tavolo della cucina. Niente di fritto: tu il fritto non lo digerisci. La cucina sta accanto all’ingresso. Lavati, e dormi un altro po’. E mangia. Riesco a contarti le vertebre.”
Senza una ragione precisa, quel post-it mette di malumore Thomas, che sente il peso di un’infinita tristezza cadergli sue spalle. Ci sono molte cose che non gli piacciono, in quel messaggio. Non gli piace quella sbavatura sull’ultima lettera del “mangia” e non gli piace quel commento finale, avere la certezza che Guy l’abbia visto praticamente nudo, tanto da mettersi a contargli le ossa, non gli piace quella constatazione così sicura sulla sua attività intestinale, non gli piace quel “tornerò” così vago che sottintende un’assenza piuttosto che una sicurezza e non gli piace la maniera in cui sono scritte le “t”. Non gli piace nemmeno il fatto di dover aspettare l’arrivo di qualcosa di cui non ha la minima certezza, perché Guy e le promesse sono due elementi stanziati in mondi completamente diversi e, Cristo, è come se qualcuno gli stesse disfacendo il cervello con un martello pneumatico senza la minima intenzione di smettere ed è già tanto se ha capito quel maledetto bigliettino.
Ma Thomas fa sempre del suo meglio per non tradire le aspettative di nessuno, tantomeno di Guy, perciò obbedisce e decide di andare a farsi una doccia. Si alza dal letto, apre la porta della stanza ed esce, accorgendosi solo una volta arrivato in bagno che quella libreria azzurra che ha appena visto in salotto non gli è nuova.

16:00. Guy-Manuel apre pigramente gli occhi. Pigramente si guarda attorno senza capire un cazzo di quello che hanno da dire gli esaustivi annunci pubblicitari che passano fuori dal finestrino, pigramente sbadiglia, pigramente si stiracchia e realizza con altrettanta pigrizia di aver dormito per tutto il tragitto.
Quando il pullman si ferma, una voce femminile tutto tranne che umana blatera per un’infinità di tempo e passa un’altra infinità di tempo prima che le portiere si aprano, dopo che un chissà quale diavoleria di dispositivo ha suonato per un’ennesima infinità di tempo un inutile e inutilmente lungo jingle musicale o quel cazzo che è. Guy-Manuel scende perché non ha di meglio da fare, ancora rattrappito da un sonno a cui ha perso l’abitudine da una (di nuovo) infinità di tempo, e non si pente della scelta fatta perché la prima macchia di colore che entra nel suo campo visivo è quella rosa dei fiori di ciliegio. Una bambina lo chiama – “Nee-chan?” – incuriosita come per richiamare la sua attenzione prima che una signora – la madre – la tiri via, visibilmente seccata. Stanco, solo e molto più nervoso di quanto voglia dare a vedere, la guarda allontanarsi e resiste alla tentazione di ignorarla, sventolando la mano in sua direzione. Si sforza persino di sorridere. Le due figure blu della bambina e della madre vanno a confondersi in un’altra ricca tavolozza di colori e Guy-Manuel, confuso, si strofina le palpebre con le nocche.
La visuale un filo annebbiata, Guy-Manuel si dirige verso i fiori di ciliegio. Si ritrova prima su un marciapiede, poi su un sentiero asfaltato, avvolto dai fiori e da un vago sentore di terra bagnata, e ci vuole un po’ prima che riesca a mettere a fuoco l’ampio spazio grigio e bianco dilatarsi davanti ai suoi occhi, superando ogni limite dell’immaginazione. Mezz’ora dopo, seduto su una panchina in riva ad un laghetto che puzza di rifiuti organici, tira fuori il mangiacassette che ha nella tasca della felpa da qualcosa come ieri sera, perché un po’ di musica non fa mai male. Fa partire il primo lato della cassetta e si accorge di aver erroneamente lasciato giù il tasto rosso troppo a lungo.
Non si sente quasi niente, però. Sono in bagno, Thomas vomita. Quando parla, la sua voce esce a scatti dalle auricolari ed è così flebile che dà quasi fastidio. Si sente solo l’acqua che scorre dalla doccia. Ogni tanto, Guy-Manuel interviene e gli chiede se va tutto bene ed eccetera. Ogni tanto, Thomas risponde. Il resto è acqua, acqua, acqua.

(È da due giorni che Thomas ha preso a mordersi le unghie. L’ha sempre fatto, in realtà, ma niente al mondo scompare e tutto resta e si trasforma, ancor di più se si tratta di vecchie abitudini. Una volta, quelle unghie se le mangiava: le staccava via con gli incisivi, le spezzettava e le inghiottiva, perché sputarle via gli sembrava poco carino. Ora le morde e basta. Se si staccano, peggio per loro.
“Hai preso tutto?” gli fa Qualcuno da lontano, mentre fruga nel frigorifero alla ricerca di chissà cosa.
“Sì,” replica Thomas, e torna a mordersi le unghie.
Il frigorifero si chiude con un tonfo. Qualcuno si piazza davanti a Thomas, che sussulta.
“Ti trovo nervoso,” afferma.
“M-macché,” ribatte lui. “Io non sono mai nervoso.”
“Ti stai mangiando le dita da due giorni.”
“Non le dita. Le unghie. E non le mangio, le morsico.”
“È uguale. Ti rovinerai i denti.”
“Sono già rovinati, in realtà.”
“Ci credo, non pensi mai a te stesso,” fa lei in tono strascicato. E lo abbraccia senza preavviso, accoccolandoglisi sul petto.
Thomas arrossisce. Non sa bene cosa fare, ragion per cui le sfiora goffamente i fianchi e le appoggia il mento sul capo, godendosi in silenzio quel contatto che non aveva neanche immaginato di poter trovare così confortevole.
“Senti,” fa lei, “non mi hai più detto il verdetto.”
“Il verdetto?”
“Il verdetto. Cosa dice Hajime? Sui tuoi lavori, intendo.”
“Ah. Gli piacciono, ma dice che non vanno bene. Troppo amatoriali, troppi close-up, non si adattano tanto col suo modo di scrivere.”
“Ah. Peccato.”
Qualcuno si mette in punta di piedi e si sporge verso l’orecchio di Thomas.
Je t’adore,” gli fa, e lo bacia sulla guancia mal rasata. “Sincèrement.
A Thomas va di traverso la saliva.
A cena, gli amici da Osaka fanno un salto da Qualcuno e Qualcuno dice a Thomas che vorrebbero cucinare qualcosa. Thomas chiede dell’okonomiyaki.)

11:40 (2:40 a GMT +1). Paul chiama Guy-Manuel alcuni giorni dopo la sua fuga, svegliandolo da un fervente recupero di ore arretrate di incoscienza. Gli dice moshi moshi con fare gioviale, calcando quella sh, e Guy-Manuel ci rimane secco.
“Ti ho riempito la segreteria telefonica,” gli fa in tono accusatorio.
“Lo so,” replica Paul, “l’ho appena svuotata. Una giapponesina te la sei fatta?”
“No. Però ho un love hotel davanti casa.”
“Un piatto d’argento, insomma.”
“Non voglio perdermi niente, fratellino.”
“E beh.”
“Voglio provare, fare e andare avanti, voglio uscire e voglio correre assieme a questa città del cazzo. Voglio smetterla di nascondermi. È inutile.”
Paul sta sorridendo. Guy-Manuel lo sa.
“Mi manchi, fratellone.”
“E Parigi?”
“Parigi?”
“Come va Parigi?”
“Va. Tokyo?”
“Chiassosa, ma carina.”
“Immagino. Senti, fratellone, il tizio che ti ospita, quello con il tic, mi ha chiamato. Il signor Toyoda, ecco.”
“Non chiamarlo signor Toyoda. Si incazza.”
“E come dovrei chiamarlo?”
“Hajime.”
“Hajime. Dice che sei stato via.”
“Vero.”
“E dove sei stato di bello?”
“Via.”
“Ma va. E ti sei divertito?”
Il fratellone ci pensa un attimo.
“Ho capito molte cose,” conclude.
Non dicono altro per un pezzo. Il respiro regolare di Paul risuona nel ricevitore, e a rompere il silenzio è di nuovo Guy-Manuel.
“E ho incrociato Thomas.”
“Ma va.”
Il fratellino dice spesso “ma va”.
“Come se la passa?” aggiunge.
“Mai un attimo che stia fermo.”
“Come sempre.”
Il fratellone ci pensa di nuovo. Sorride.
“Come sempre.”

Si rincontrano su uno stradone sommerso da impiegati che hanno perso il tram delle dieci e altre figure all’inseguimento di qualcosa che gli è sfuggito.
Il volo Tokyo-Parigi è tra qualcosa come due ore e Thomas è ancora per strada, intento a filmare, carico come un mulo e contento come non mai di essere vivo, superstite da un’intera processione di invadenti amici da Osaka. Lo hanno stritolato, accarezzato e viziato, augurandogli un buon viaggio prima nel dialetto del Kansai e poi in inglese, e un ragazzo con i capelli tinti di un bizzarro rosso bordeaux, lo stesso del secondo giorno, l’ha persino baciato in bocca (“French kiss!”), generando un collettivo attacco di risa. Anche Qualcuno l’ha baciato, stavolta sullo zigomo. Gli ha detto che le mancherà. (Thomas avrebbe voluto dirle che, a dirla tutta, ha scoperto il suo nome qualcosa come due giorni fa e che anche lui la trova carina ed eccetera, ma fa niente.) Tra meno di dodici ore Thomas sarà di nuovo a casa sua, riabbraccerà sua madre, riabbraccerà suo padre, si intratterrà in una telefonata chilometrica con la sua ragazza e se ne andrà in letargo per un po’.
(Alcuni mesi dopo Thomas mostrerà a Guy-Manuel i nastri che ha girato in Giappone e Guy-Manuel si rivedrà in mezzo ai passanti nell’aeroporto Haneda, un ragazzino vestito di nero che cerca di mimetizzarsi con lo sfondo bianco di uno spazio troppo grande.)
Dal canto suo, Guy-Manuel è nervoso. Cammina con insolita decisione, finalmente deciso a comprare quelle cazzo di sigarette, e tra pressappoco tre ore riuscirà a trovare una merda di tabacchino – qua non fumano tanto, i bastardi –, sborserà con gioia i suoi cinquecento yen e si farà una cazzo di sigaretta. Finalmente.
L’obiettivo della Super 8 incontra per una seconda volta la faccia corrucciata di Guy-Manuel a poco meno di cento metri di distanza e stavolta Thomas è sveglio abbastanza da abbassare la telecamera, permearsi di un briciolo di sicurezza in più e urlare il nome dell’amico. In pochi si girano, sono tutti impegnati a perseguire quel qualcosa che si sono lasciati scivolare di mano, e Guy-Manuel ha delle cazzo di cuffie alle orecchie. Thomas urla un’altra volta e un’altra volta ancora e Guy-Manuel si volta solo quando una folata di vento lo costringe a muovere la testa da un lato per sistemarsi i capelli.
I loro occhi si incrociano per una frazione di secondo e Thomas mette le mani a coppa attorno alle labbra per urlare qualcos’altro, ma dalla sua bocca non esce più nessun suono. Disorientato, Guy-Manuel cerca di raggiungerlo di corsa, evitando ogni ostacolo gli si pari davanti – una signora anziana, un motorino, l’ennesimo impiegato che ha perso il tram delle dieci, dei pensieri scomodi. Per tutto il tempo, trattiene il respiro e tiene lo sguardo dritto davanti a sé. Nessuno dei due vuole più lasciarsi sfuggire nient’altro.








  L’appartamento di “Qualcuno” e del signor Toyoda/Hajime è situato in un complesso edilizio nella zona di Nishi-Shinjuku, ad alcuni chilometri di distanza da Kabukicho, noto quartiere a luci rosse di Tokyo aperto a tutti i turisti. Alcuni dei posti descritti o menzionati sono Harajuku, Shinjuku, le strisce pedonali davanti alla stazione di Shibuya, la linea Yamanote e Ueno.
La bambina chiama Guy “nee-chan”, “sorellona”, scambiandolo per una ragazza.
La Tokyo Tower è questa qui.
Per quanto ritenga che l’immagine iniziale sia perfetta per illustrare questo racconto, penso tragga alquanto in inganno in quanto Guy e Thomas li ho immaginati per tutto il tempo così.
Laurent è Laurent Brancowitz.
“Qualcuno” è ispirata a/potrebbe essere Èlodie Bouchez.
  
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