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Autore: Nadie    24/04/2014    2 recensioni
'E tu? Hai già fatto tutto quello che volevi fare prima di morire?'
'Assolutamente no'

[Ben e Prudence]
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Temporale '
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XIV


I giorni dopo quell’incontro furono i peggiori della mia vita.
C’erano un mare di idee che vorticavano confuse nella mia testa, fissavo Jude e pensavo: ‘cos’è meglio per lui?’
Un bambino di sette anni che viveva praticamente senza una madre, al buio, solo.
Questo non era di certo il meglio per lui.
‘Ho riflettuto e questa mi sembra la soluzione più giusta per tutti, Sadie non è in grado di badare a nessuno di voi e tu, per quanto possa sforzarti, non riuscirai a fare nulla di buono per lui. Se verrà con me starà molto meglio, pensaci, rifletti, Prudence, sei una ragazza intelligente’
Le parole di Finbar rimbombavano nella mia testa, si ripetevano all’infinito e restavano lì, nascoste, una presenza indesiderata ma che non poteva andare via.
Finbar si era rifatto una vita, aveva due bambine piccole, una bella casa, un po’ di soldi e magari anche una brava moglie, migliore di mia madre, ecco questo, questo era il meglio per Jude.
Dopo quasi tre settimane, un pomeriggio presi un grosso borsone dall’armadio e lo riempii con i vestiti di Jude, poi presi il mio fratellino per mano e lo portai di nuovo a casa di Finbar.
Una donna di bell’aspetto, con i capelli lunghi e biondi ci aprì la porta e ci studiò entrambi.
«Sei Prudence?» io annuii e lei mi porse la mano sorridendo.
«Piacere, Michelle. Vado a chiamare Finbar.» si allontanò velocemente, e mentre aspettavo che tornasse mi misi seduta sui talloni, di fronte a Jude e lo abbracciai, lui sembrò sorpreso ma poi posò le mani sulle mie spalle e nascose il viso nell’incavo del mio collo.
«Jude, ricorda che ti voglio bene, okay? Ricordatelo.»
«Perché me lo stai dicendo?»
«Ogni tanto si dice.»          
«Ti voglio bene anch’io, Prue.» mi separai piano da lui, poi alzai lo sguardo e vidi Finbar e Michelle sulla soglia della porta.
«Hai ragione, è la soluzione più giusta per tutti.» dissi rialzandomi in piedi.
«Finbar mi aveva raccontato tutto quando ci siamo incontrati. Ti prometto che lo tratterò proprio come un figlio.» Michelle mi sorrise, io annuii e le diedi il borsone.
«Jude, vuoi venire dentro a giocare con me?» gli chiese gentile, porgendogli la mano.
Jude alzò lo sguardo su di me e io gli feci cenno di entrare.
«Prue, dopo ritorno da te, ve bene? Tu aspettami.» entrò dentro casa con Michelle e scomparve dietro le spalle di Finbar.
«Prudence…»
«Gli piace il cioccolato, da morire. E i fumetti, ha letto tutti i vecchi fumetti che avevo, quelli dei supereroi gli piacciono particolarmente, Batman è il suo preferito. Disegna anche, quando avevamo i pastelli a cera lui li usava sempre per disegnare e poi mi chiedeva cosa ne pensavo. Ha paura della pioggia. Adora andare in giro, ma devi tenerlo per mano perché lui guarda sempre il cielo e poi va a sbattere contro le persone. È molto curioso e fa un sacco di domande su qualsiasi cosa e poi…»
Finbar mi strinse la mani e mi fermò.
«Stai facendo la cosa giusta.»
«Se ti azzardi a comportarti con lui nello stesso modo in cui ti sei comportato con me, giuro che non te la faccio passare liscia.»
«Non lo farò. Sono parecchio cambiato da allora, gli darò il meglio che ho, te lo prometto.»
«Devo andare.» lasciai le sua mani e corsi via.
Quel pomeriggio su Dublino splendeva il sole, il cielo appeso ai tetti delle case era limpido e privo di nuvole minacciose, e la gente per strada sembrava più felice.
Corsi in metro e andai a Merrion Square, da Ben.
Quando aprì la porta e mi vide sembrò sorpreso, ma presto si rabbuiò.
«Non ti vedo da settimane, sono andato in metro ogni singolo giorno e tu non c’eri. Che cavolo è successo?»
«Niente.» lo baciai con foga e cominciai a togliermi i vestiti.
«Aspetta… aspetta un attimo. Cosa sta succedendo, Prue?»
«Non mi fare domande, Ben, ti prego, niente domande.» lui mi fissò, senza sapere bene cosa fare o cosa dire, poi annuì poco convinto, premette la mani sulla mia schiena nuda e mi assecondò.
 
 
 
 
 
 

Ben dormiva profondamente, mi alzai dal letto cercando di fare meno rumore possibile e raccolsi i vestiti da terra.
Ben sospirò ma non sembrò essersi svegliato.
Mi rivestii in fretta e cercai una penna e un foglio per scrivergli una lettera, trovai un vecchio diario in un cassetto e strappai una pagina, poi presi una penna da un porta matite sopra la scrivania e mi accucciai a terra, cominciando a scrivere.
Gli scrissi di andare avanti con la sua vita, che la mia era troppo incasinata e gli avevo nascosto delle cose importanti, gli scrissi che non c’era posto per noi due sopra questo mondo instabile, che non valeva la pena mandare tutto all’aria per me e che doveva andare a girare quel film perché non aveva più tempo per fare scelte sbagliate.
Pensai a cosa avrebbe pensato di me leggendola, a quanto mi avrebbe odiata, così gli scrissi di dimenticarmi, di cancellarmi dalla sua memoria, ma prima, prima di scordarsi di me, gli scrissi di perdonarmi.
Ripiegai il foglio e lo lasciai dal mio lato del letto, e prima di andare via, prima di uscire definitivamente dalla sua vita, diedi un bacio sulla fronte a Ben, lui non sembrò muoversi, ma onestamente non sapevo se fosse ancora addormentato o stesse facendo finta, ad ogni modo feci attenzione a non fare rumore mentre uscivo di casa.
Quella notte era particolarmente buia.
E Dublino era sola.
Come me.
Mentre camminavo sulle strisce bianche in mezzo alla strada, ripensai al corpo caldo di Ben in mezzo alle lenzuola, al suo respiro regolare, al battito del suo cuore, calmo, tranquillo, che colmava tutti gli spazi che il silenzio aveva lasciato in quella stanza. La nostra stanza.
Ora, solo la sua stanza.
Me n’ero andata così in fretta.
E gli avevo lasciato così poco.
Di tutto quello che eravamo stati era rimasto solo uno straccio di lettera.
Di tutte le notti spese a guardare il mare sotto la pioggia erano rimaste solo parole.
E le parole non sarebbero mai bastate.
C’eravamo uniti in un modo spaventosamente magnifico.
Avevo versato così tanto di me in lui e viceversa.
Ed ora eravamo finiti.              
Più nulla da versare.
Finiti.
Mi sarebbe piaciuto chiamarlo in piena notte, svegliarlo, sentire la sua voce dall’altro capo del telefono, zittirlo all’istante e raccontargli tutto, tutto di me, senza filtrare nulla, raccontargli di Jude, di mio padre, di come mi ero sentita rivedendolo, dirgli tutto.
Mi sarebbe piaciuto, in un giorno di pioggia, prenderlo per mano e girare tutta Amsterdam con lui.
Mi sarebbe piaciuto rimanere.
Ma era rimasta solo una lettera.
Una lettera con dentro delle parole.
Ma le parole, le parole erano troppo finite per parlare di noi, di me e di lui.
Le parole non potevano parlare, le parole non potevano bastare a spiegargli.
Volevo tornare indietro di corsa, entrare in camera sua, stracciare quella stupida lettera e svegliarlo.
Dirgli che sarei rimasta.
Che non me ne andavo.
Che io restavo dov’ero.
Che saremmo andati a fare il bagno al mare, a Dublino, che insieme avremmo combattuto contro il gelo dell’acqua, perché noi, io e lui, eravamo più forti dell’acqua, più forti del gelo.
Dirgli che ero felice e solo grazie a lui.
Ma non lo feci, perché era giusto così, perché Ben era una giornata d’estate ed io un temporale che doveva andarsene al più presto o lui non avrebbe mai visto il sole.
Continuai a seguire attenta la linea bianca tratteggiata sull’asfalto.
E andavo avanti, sempre più avanti.
E più andavo avanti e più mi consumavo.
Finivo.
La mia essenza si sbriciolava e di me non restava nulla.
E finivo, finivo, finivo.
E pezzetti di me restavano indietro, tornavano indietro, verso quella stanza.
E cominciò a piovere.
E la pioggia mi finiva, la pioggia mi scioglieva.
E cominciai a capire.
Capii che ciò che avevo passato la vita ad aspettare in una metro di Dublino, era arrivato.
Capii che se fossi morta in quel momento, se me ne fossi andata in quel momento, sarei stata felice, perché avevo fatto finalmente tutto, tutto ciò che volevo fare.
E allora lo ringraziai.
Quella notte ringraziai Ben, piano, a bassa voce.
Lo ringraziai per essere arrivato, per essere entrato dentro le mie ossa e avermi resa infinita, per aver versato dentro me tutti i suoi istanti felici. Lo ringraziai per avermi riempita di fiori come un campo di Amsterdam e avermi resa senza tempo, senza spazio e senza limiti come l’acqua.
E lo ringraziai per non avermi fermata mentre uscivo dalla sua stanza, ma aver continuato a fingere di dormire. Per aver capito che dovevo andare via.
E forse una notte, davvero, mentre sarei stata ad Amsterdam tra la pioggia, lo avrei chiamato e gli avrei detto tutto.
E forse un giorno, dopo un po’ di anni, ci saremmo rivisti nella stessa metro in cui c’eravamo incontrati.
E forse un giorno avremmo sorriso, ricordandoci di noi.
 
 
 
 
 
....
Io non dico nulla, risparmio le mie boiate per il prossimo ed ultimo capitolo(che è un ufficiale ritorno al presente) che posterò Domenica.
Dico solo che mi spiace un sacco per questi due, ma non poteva andare diversamente(nella mia testa, almeno), per il resto.... a voi ogni genere di commento!
Ringrazio come sempre quelle due meraviglie di Joy e Clairy(che ora vorranno picchiarmi dibbbrutto) e tutti i lettori silenziosi,
ed ora smammo!
C.


 
  
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