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Autore: edwardandbella4evah    26/04/2014    7 recensioni
Courtney e Duncan ai tempi dell'Olocausto. Courtney è un'Ebrea, Duncan un soldato tedesco.
TRADUZIONE ♪
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan | Coppie: Duncan/Courtney
Note: Traduzione | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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Strinsi disperatamente il mio medaglione quando un altro giro di pesanti colpi di tosse mi vinse. Questi ultimi furono peggio dei precedenti e mi lasciarono una sensazione di debolezza irreparabile. Dopo tutto questo tempo, il mio ciclo vitale era finalmente giunto al termine. Era di questo quello che dovevo morire. Non per colpa del mio cuore spezzato, né della mia gravidanza, ma di qualche malattia assurda di cui Duncan mi aveva messo in guardia fin dal primo giorno in cui avevo messo piede nel campo.
Sto per riunirmi a te, papà… non vedo l’ora di rivederti… tieni duro…
Il pensiero mi risuonò nella testa più volte e feci di tutto per ricacciare indietro le lacrime. Naturalmente, ero eccitata all’idea di rivedere mio padre, ma a parte questo, non ero affatto entusiasta di dover lasciare questa terra. Eppure ero senza speranze. Duncan mi aveva lasciata, ero malata e non ero in grado di allevare il mio piccolo Yonatan.
Yonatan era la mia unica speranza. Volevo solo dare alla luce la sua dolce anima angelica e cullarlo prima di lasciare questo mondo crudele e senza cuore. Questo era tutto quello che volevo. Era così tanto da chiedere? Essere in grado di lasciare un piccolo bacio sulla sua guancia rosea prima di morire? Non era quello che ogni madre avrebbe dovuto fare?
Sospirando, carezzai il mio ventre cercando di pensare a qualcosa di positivo. Sicuramente avrei potuto resistere ancora un paio di giorni, giusto? Yonatan avrebbe dovuto venire al mondo da un giorno all'altro e speravo di essere abbastanza in forze per darlo alla luce. Avrei dovuto avere forza, dovevo avere forza.
Mai più di ogni altra cosa, volevo vedere Duncan ancora una volta, prima di morire. Non ho ancora capito perché ha agito in quel modo quando gli ho detto di essere incinta. Certo... avevo esagerato cercando di suicidarmi per poi farmi scoprire, ma quel tempo era passato e avevo imparato ad amare il mio bambino. Lui era mio e di Duncan. Insieme saremmo stati in grado di concepire una meravigliosa e perfetta prole.
Ancora una volta, mi resi conto che l'età non importava. L'età non aveva mai fatto una madre e nemmeno la logica. Era l'amore. Ancora una volta, la risposta era l'amore. Avrei voluto avere la forza sufficiente per alzarmi e baciare il sederino del mio piccolo, ma ahimè, non potevo, così continuai a fare la muffa sulla mia branda.
La quiete non durò a lungo. Una sensazione di nausea mi invase e prendendo la mia ciotola cominciai a vomitare in essa. Una volta che ebbi finito, spinsi via la ciotola e cercai di calmare il mio corpo tremante, ma una nuova serie di colpi di tosse squassarono il mio corpo.
Mi vennero brividi gelati nonostante ero sotto le coperte, chiusi gli occhi e massaggiai delicatamente il mio pancione. Nessuno starebbe sveglio davanti alla crudele realtà, era molto meglio sfuggire da questa terra mentre si era nel mondo dei sogni o degli incubi, dove sapevo poter recuperare un po' di forze per il mio imminente parto.
Anche se quella era la verità, non avrei mai e poi mai ammesso che mio figlio sarebbe stato il responsabile della mia morte.
Essere malati, ma non incinta, non alza le probabilità di sopravvivenza. Eppure, stranamente, in questi giorni avrei voluto morire. Non mi importava più niente. A che cosa serviva vivere ancora? A parte il mio bambino, non riuscivo a trovare una risposta decente e solo Dio conosceva la vera risposta.
Il mio piccolo angelo mi dava tanti piccoli calci e svolazzava dentro di me. Un piccolo sorriso abbellì le mie labbra “Lo so” sussurrai dolcemente al mio bambino non ancora nato “Anch’io vorrei che tu uscissi” e lasciai che le lacrime scorressero libere sul mio viso sporco. Stavo andando a vedere mio padre e non avrei più rivisto il mio bambino? Perché dovrebbe perdonarmi? Perché doveva stare lontano da me? Non mi amava più? Le lacrime inondarono le mie gote e io mi morsi il labbro per soffocare un singhiozzo.
Solitamente, vorrei avere qualche risposta razionale o altamente irrazionale a ciascuna di queste domande, ma non questa volta. Questa volta, volevo rimanere sbalordita. Non avevo idea di quello che stava per diventare di me, e ad essere onesti, questo mi spaventava. Il pensiero che avrei potuto morire da un momento all’altro mi tenne sveglia tutta la notte, carezzando il mio ventre al fine di farmi andare via, al fine di prolungare la mia morte.
Le carezze fecero calmare Yonatan e io mi potei mettere più comoda sulla mia branda chiudendo gli occhi. Avrei disperatamente voluto essere in grado di addormentarmi per sfuggire alla realtà. Volevo scappare nella terra dei sogni dove sarebbe apparso Duncan che mi avrebbe portato via per un po’ dai miei guai.
L’avevo perso, non c’era dubbio. Lo rivolevo indietro, volevo fargli accettare il fatto che avremmo avuto un bambino insieme. Volevo sapere perché mi aveva lasciata e perché per così tanto tempo. Avrei voluto gridargli tutto il mio dolore e l’angoscia che mi aveva causato e fargli promettere di non lasciarmi mai più.
Io potevo perdonarlo per avermi lasciato. Non c’era motivo di essere in collera con lui se lo volevo e desideravo così  tanto. Lo amavo infinitamente e io lo volevo indietro, questo stesso istante, se potessi. Eppure lui non stava per tornare.
Mi voltai e decisi che il sonno era l’unica risposta a tutti i miei problemi. Chiusi gli occhi sperando di risiedere in sogni, non in incubi. La mia mano strisciava inconsciamente lungo il mio ventre e dopo un paio di minuti riuscii a cullarmi verso uno stato più tranquillo, più assopito.
Almeno fino a quando la porta non si spalancò.
Decisi che era meglio tornare a dormire, sperando che l’infermiere o il dottore mi avrebbe lasciato presto sola. Chiusi gli occhi cercando di tornare nel mio mondo dei sogni senza troppi pensieri, ma il mio visitatore pareva non avere alcuna intenzione ad andarsene. Sentii il suo respiro muoversi per la camera e prendere una sedia posizionandola accanto al mio letto. La curiosità, infine, mangiò tutto il desiderio che mi induceva a dormire. Le palpebre pesanti si aprirono, sorrisi e posai la mano in quella del mio ospite.
“Ciao” mormorai debolmente, cercando di mettermi in posizione un po’ più verticale mantenendo la mia mano sul pancione. Lui mi guardò appena, prima di iniziare a tirar fuori dalla borsa ciò che aveva portato con sé e avvolgere la sua grande giacca sulle mie spalle tremanti di freddo. Ero felice del suo ritorno, finalmente, e non mi importava nulla di ciò che mi aveva portato. Una volta recuperato un po’ di calore, sbirciai tra le cose che stava tirando fuori con molta cura dalla borsa. Mi ci volle un po’, la mia vista era sfocata, ma piano piano potei vedere ciò che mi aveva portato. Aggrottai la fronte.
“Duncan… quelle non mi aiuteranno” gracchiai prima di iniziare a tossire. Una volta recuperata la mia compostezza e calmati gli spasmi di tosse lo vidi versare le pillole dalla bottiglia. I miei occhi si spalancarono e subito dopo si strinsero, scossi la testa in senso di diniego mentre lui cercava di mettermi i medicinali in mano. Sospirò porgendomi fermamente un paio di pillole e una tazzina di acqua. Le osservai domandandomi se era sicuro o meno prenderle.
“Prendile Courtney, ora” ordinò severamente, un comando misto di pura preoccupazione. Scossi la testa ancora una volta cercando di capire se quelle pillole avrebbero danneggiato il bambino che viveva dentro di me.
“Non so se queste pillole danneggeranno il bambino” ammisi guardando Duncan e massaggiando il mio ventre per tutta la sua misura. Questa frase fece arrabbiare l’uomo che prese la mia mano strappandola dal mio stomaco e prendendola nella sua. La carezzò nervosamente.
“Dimenticati di quel maledetto bambino” ringhiò, i suoi occhi pieni di dolore “Prendi queste cazzo di pillole, che ti aiuteranno a stare meglio” Strinsi gli occhi su di lui comprendendo che era ancora arrabbiato per il bambino, ma eseguii i suoi ordini in modo da non farlo infuriare più di quanto già non lo fosse. Presi con cautela le pillole nel mio palmo e inghiottii, sussultando quando scesero.
“Brava ragazza” mormorò lui dolcemente aiutandomi a stendermi di nuovo e tracciando una lunga carezza sulla mia fronte. Lasciai che i miei occhi sorridessero per me, dato che la mia bocca era troppo debole per farlo. Rimanemmo lì per un po’ in silenzio, lasciando che i nostri occhi parlassero tra loro. Era chiaro che era pentito per le sue azioni.
Mi dispiace era palesemente scritto in un angolo del suo volto. Potei vedere che rimpiangeva per non essere stato qui per me, per non avermi aiutato durante la malattia. Non aveva bisogno di esprimere le sue scuse, lo avevo già perdonato.
Eppure, nonostante tutto, lui odiava ancora il nostro bambino. Non so perché… perché non riusciva ad amare quella nostra preziosa creazione? Avevo imparato ad amarla come lei aveva fatto con me, nonostante fosse impura. Forse una volta che Yonatan fosse nato, avrebbe cambiato idea. Doveva, perché non mi avrebbe lasciato di nuovo… vero?
“Quella dannata cosa ti sta uccidendo” disse improvvisamente, tracciando piccoli cerchi sulla mia mano con il pollice. I miei occhi si indebolirono a quelle parole, li chiusi cercando di parlare.
“Duncan, lui è un bambino, non una cosa, ed è tuo” parlai con fermezza prima che un colpo di tosse bruciò la mia gola.
“Se quella cosa ti uccide non è mio” ringhiò costringendomi a tremare d’ansia. Come poteva odiare il nostro Yonatan così tanto? Le lacrime iniziarono a gocciolare lungo le guance sporche. Lui si sedette vicino a me iniziando ad accarezzare il mio viso e a infrangere la sua mano tra i miei capelli
“Non piangere Prinzessin, stai sprecando tutta la tua energia, smettila ti prego” pregò mentre io tirai su col naso e tossii di nuovo.
Non aveva capito? Tra pochi giorni avrei dato alla luce un bambino e poi sarei morta. Avevo paura, paura di ciò che sarebbe accaduto dopo. Se Duncan fosse stato qui durante questi mesi, avrebbe capito che lui era la mia unica speranza, l’unico modo per crescere il nostro bambino, al mio posto. Se non l’avesse fatto, non volevo neanche pensare che cosa sarebbe potuto accadere al nostro piccolo.
“Duncan… io sto per morire. Bambino o no, io sto per morire” ammisi tranquillamente con voce un po’ strozzata. Abbassai la testa, non osai guardare il suo volto, in particolare per quello che stavo per dire “Duncan, stai peggiorando solo le cose dicendomi che non vuoi il bambino. Tu devi prendere in cura il nostro angioletto, devi” I suoi occhi si spalancarono e le sue mani affettuose si ritrassero prendendomi dolorosamente per i polsi. Io cercai di ritrarmi, ma lui sembrò non accorgersene.
“No! Non parlare così, Courtney, non stai morendo. Non potrei sopportarlo. Ti prego… devi rimanere qui. Potrai avere tutte le medicine che vuoi e io potrò ottenere la liberatoria dal comandante per una settimana o due. Lui mi conosce e mi ascolterà. Basta che non muori, per favore…” invocò Duncan, ma io potei solo scuotere la testa negativa, intrecciare la mia mano con la sua e posarla sul mio ventre. Per un primo momento cercò di ritirarla, ma io lo tenni lì con risolutezza spostando le sue dita sul mio ventre.
“Sta andando tutto bene, Duncan, sta andando tutto bene” dissi io piano, più per nostro figlio che per Duncan stesso. Duncan rimase in silenzio, iniziando a muovere da solo la sua mano sul mio stomaco. Ne fui felice e ne approfittai per continuare a ragionare con lui.
“La mia vita è finita, Duncan. Non posso vivere in questo campo per il resto dei miei giorni guardando i miei amici e la mia famiglia morire, vivere in un posto lurido, aspettando che la morte mi colpisca questa settimana oppure la prossima. Non posso rischiare di scappare con te e il bambino perché potremmo tutti finire nei guai e quindi morire. Voglio che restiate entrambi vivi, anche se questo significa rimanere nel campo. E poi non posso rischiare che il bambino perda sua madre dopo averla conosciuta e aver passato con lei troppi anni della sua vita. Non può perdere anche te…” Mi interruppi sperando di aver usato delle parole giuste, che potessero convincerlo.
“Devi vivere Courtney, devi solo fare questo. Che cosa farei io senza di te?” sorrisi debolmente alla sua supplica, voltandomi e ricordando la prima volta che mi aveva portato al campo.

“Non sopravvivrai mai qui. Impara un po’ di rispetto. So che può sembrarti difficile da fare e tutto, Prinzessin, ma sei vuoi sopravvivere, sarà meglio per te. Capito? “ ruggì, mentre tentavo di alzarmi, stringendomi il ventre dal dolore mentre le lacrime scorrevano sul mio volto.
“S-sì signore” . Sogghignò malignamente per un istante ma non disse nulla. Mi sollevò, io sibilai dal dolore ma lui ricambiò schiaffeggiandomi in faccia. Aprì la porta e mi condusse fuori tirandomi per la lunga treccia.
Mi trascinò attraverso lo sporco sentiero, mentre io restavo in silenzio, tentando di soffocare le lacrime e di far passare il dolore.
Vidi molti camion , mucchi di persone e famiglie spinti fuori di essi come me. Mi guardai intorno, questo posto mi spaventava a morte. Grandi recinti di filo spinato circondavano ogni cosa, facendomi sentire in trappola, come un prigioniero. Guardie e soldati sorvegliavano ovunque, dando a colui che mi aveva catturato un brusco cenno del capo riferendosi a me. Era comune per le guardie prendere giovani ragazze come prigioniere? Mi sentii fuori posto, e terrorizzata al pensiero di non rivedere mai più mia madre. Un’insegna poco lontano diceva “il lavoro rende liberi” . C’erano delle tinozze d’acqua, dove stavano bevendo dei cavalli. Passammo accanto a loro, e sussultai d’orrore quando vidi un bambino morto galleggiare sull’acqua. Il Tedesco mi strinse la mano e, come ci avvicinammo, vidi più morti, e fui improvvisamente felice di essere venuta insieme a questo Tedesco che con gli altri.
“Zur hoelle mit dir”, mormorò crudelmente sotto il suo respiro. Tremai, sperando che non stesse parlando di me. Lui mi rialzò e mi spinse verso la folla di persone, cominciando a parlare.
“Qui sarai preparata per lavorare. Non sarai trattata come una Prinzessin, e quasi certamente non ci somiglierai nemmeno. Nessuna guardia ti tratterà tanto bene quanto l’ho fatto io”. Stavo per dire qualcosa di antipatico, ma mi trattenni, nel caso in cui m’avesse dato altre istruzioni utili.
“Non puoi ammalarti qui, in nessuna circostanza. Ti ammali, non puoi lavorare, e ti mandano lì” . Indicò una specie di capannone, solo più grande, il cui camino stava vomitando fumo nero che puzzava in un modo disgustoso. Mi colpì allora, la ciminiera. Gli Ebrei venivano bruciati quando non potevano lavorare. Annuii gravemente in segno di comprensione.
“Sarai il mio giocattolino qui, ho deciso di tenerti, Prinzessin. Ogni notte, sarai scortata da altre guardie ai miei alloggi. Non dovrai parlare con loro, e non sarai irrispettosa come lo sei con me, perché loro non ti perdoneranno tanto facilmente e verrai punita. Farò di te come mi pare, e tu non rifiuterai, capito? “ . Le lacrime fuoriuscirono dai miei occhi ed annuii, sperando cose che non potevo ottenere.
“Non ti rivolgerai a me in altro modo, o attaccherai discorso con me se mi vedi nel campo. Ti sparerò, paperella, e sarai rimpiazzata facilmente. Non capisci quanto sei fortunata”.

Continuando a fissare il muro scorticato, sorrisi di nuovo, pensando a quanto ero stata fortunata. Ero così giovane allora, così inesperta e ignorante. Mi meravigliai constatando quando ero cambiata in un solo anno. Mi ero innamorata di un uomo che non avrei mai pensato di poter amare e ora stavo per avere il suo bambino
Ero cresciuta, imparando con la violenza che non era mai abbastanza. Mi era piaciuto stare con Duncan e ora la morte mi stava portando via da lui e dal nostro bambino. Tutto questo era ingiusto. Eppure continuavo a pensare positivo, Duncan poteva andare avanti anche senza di me. Lui era un uomo forte e senza alcuna paura.
“Sono solo una piccola paperella e posso essere facilmente sostituibile…” mormorai lasciando che un’innocente lacrima scorresse lungo la mia guancia. Duncan non sorrise a quel commento, ma prese mia mano che carezzava continuamente il mio stomaco e me la mise in faccia. Per un attimo ebbi paura, ma lui carezzò il mio volto asciugandomi la lacrima con il mio stesso palmo.
“Prinzessin, tu sei insostituibile” parlò con tono serio inondandomi gli occhi di lacrime. Li chiusi per non farle cadere. Dopo aver ripetuto due volte nella mia mente quella frase, la mia tattica non funzionò e le lacrime caddero rapide.
Non volevo più morire, anche se era certo che sarebbe successo. Volevo prendere in braccio il mio piccolino e stare con Duncan. Non ero forte come volevo apparire, ero debole sia emotivamente che fisicamente, e non solo perché avevo un bambino dentro di me.
“Prinzessin” canticchiò Duncan avvolgendo le sue braccia introno al mio corpo fragile e dondolandomi un po’. Quella mossa diede sfogo ad ancora più gocce cristalline che piangevano sulle sue spalle.
“Io… io non voglio morire…” soffocai cominciando a singhiozzare, senza trovare il modo di odiarmi per quello sfogo senza ritegno.
“Tu non morirai, nessuno vuole che tu muoia. Devi fare la brava ragazza, prendere le tue pillole e riposarti, okay? Sono stato qui troppo a lungo e gli altri potrebbero sospettare qualcosa. Devo lasciarti” Cercai di nascondere il mio infinito dispiacere a quella dichiarazione. Mi aiutò a distendermi, si chinò e mi baciò dolcemente sulle labbra pallide, strappandomi un piccolo sorriso.
“Ti amo” mi sussurrò delicatamente vicino al mio orecchio. Prima di andarsene, lasciò cadere due pillole in una mano e me le porse. Io tirai su col naso, le presi e le nascosi frettolosamente sotto il cuscino. Chiusi gli occhi e mi girai continuando a mantenere una mano sul mio ventre.
“Sarai un bambino fortunato” sussurrai al mio piccolo non ancora nato.

o 0 O 0 o

Duncan non venne a trovarmi di nuovo. Senza di lui, ero in piena agonia. Mi mancava terribilmente e per i successivi due giorni nessuno venne a farmi visita, se non il medico. Ero in miseria. Sola, la mia schiena livida di crampi e il bambino che continuava a calciare senza mai smettere. Avevo frequenti sbalzi d’umore e non dormivo se non per qualche ora. Mi sentivo come se fossi all’inferno, ma erano questi i sintomi della malattia. Vomitai più del solito e quel poco che mangiavo non riusciva ad andare giù. Era questa la fine? Era così che ci si sentiva quando si moriva?
“Calma Courtney” riuscii a mettermi in una posizione più comoda. Yonatan calciò di nuovo, stava facendo i capricci, proprio come suo padre. Ma per ora non sarei morta, per ora.
“Non sati morendo. Basta che ti riposi un po’, va bene, Prinzessin?” la voce di Duncan risuonò fastidiosa nella mia testa, ma anche consolatrice. Aveva ragione, dovevo riposare, ma non ci riuscivo a causa dei calci che Yonatan mi lanciava. Era due notti che andava avanti così e io dovevo combattere quel dolore per riuscire a recuperare un po’ di forze. Chiusi gli occhi ignorando i crampi e cercando di addormentarmi, di nuovo. Non appena le palpebre si abbassarono, neanche dieci minuti dopo, un forte dolore all’utero mi fece sobbalzare e la paura crebbe sempre di più.
“Ah, merda!” imprecai sentendo la stola della branda sotto di me diventare sempre più bagnata.
Le due ore successive furono un inferno, come se mi stessero bruciando viva. Mi sdraiai sommersa dall’agonia, tremando come una foglia e ansimando pesantemente. Trasalii e gridai ad ogni contrazione che straziava il mio corpo. Non riuscivo a sopportare il dolore, mi sentivo cadere a pezzi e più passavano i minuti, più le contrazione erano frequenti e dolorose. Non mi ci volle molto a capire che non avevo alcuna possibilità di vita, dopo il parto. L’inferno che stavo attraversando ora, non sarebbe stato nulla rispetto a quello che sarebbe successo dopo.
Emisi un altro respiro e strinsi i denti mentre il mio corpo si irrigidiva e poi si rilassava… quando il dolore svanì improvvisamente. La levatrice arrivò trafelata – probabilmente a causa delle mie grida di dolore – mentre con uno sguardo triste sul volto esaminava le mie condizioni.
“Sei sicura di voler dare alla luce questo bambino? Tu… beh, sai che non ce la farai” chiese preoccupata e delicatamente mentre bagnava uno straccio sporco e lo metteva sulla mia fronte. Annuii febbrilmente, le mie mani si stringevano e rilasciavano dal dolore. Non avevo altra scelta. Non potevo semplicemente schioccare le dita, dire che non volevo più il mio piccolo Yonatan e puf! Il dolore sarebbe magicamente sparito insieme al bambino.
“Va bene cara, ma non sei ancora pronta. Dovrai aspettare ancora un po’” annuii ciecamente alle sue inutili parole mentre il mio respiro diventava instabile e faticoso.
Volevo Duncan, lo volevo disperatamente, ogni singola parte del suo corpo. Non mi importava se lui diceva che il mio non era vero dolore come la prima notte che avevamo passato insieme. Non mi importava se mi diceva che mi comportavo in modo stupido, che dovevo smetterla di piangere e che dovevo essere forte perché lui mi amava. Non mi importava che parte di lui avrei ricevuto, ma lo volevo qui. Lo volevo tutto per me, per tutta la durata della nascita di nostro figlio. Lo volevo con me, in modo che mi aiutasse nel miglior modo possibile.
Non potevo credere che appena un anno fa, lo avevo odiato con tutto il cuore. Avevo pensato che era pazzo, un Schmeisser nazista buono a nulla. Era crudele, aveva approfittato di me, mi aveva umiliata, ingannata, tagliato i capelli, violentata, messa incinta e tante altre cose che ormai non contavano più, ma che non potevo dimenticare.
Sapevo che avrei ceduto a lui dal momento in cui sarebbe tornato dal suo viaggio. Credevo fosse solo un amore falso, non potevo essere veramente innamorata di lui, ma invece solo ora avevo capito che era tutto vero. Avevo riflettuto su questo per molte lunghe notti chiedendomi come fosse possibile e come fossi finita a provare così tanto affetto per lui.
Eppure così a andata, non mi importava più. Non mi importavano tutti quei perché o come. Ero solo grata. Grata agli Dei per avermi dato un uomo duro come diamante, con un cuore buono come l’oro, anche se oro offuscato che talvolta aveva bisogno di essere lucidato. Non mi dispiaceva sapere che ero io l’unica in grado di lucidare quell’oro e lavorare su di esso. Solo che ora non sarebbe più stato così, io stavo morendo e non potevo più né lucidare, né lavorare quell’oro. Mi sentivo male a pensare che qualcuno che non fossi io avrebbe potuto prendere il mio posto e occuparsi del mio Duncan. Sapevo che detestava le persone che si prendevano cura di lui, ad eccezione di me.
“Achoo!” i miei occhi si solcarono di preoccupazione quando vidi Duncan strofinarsi nervoso una spalla. Non l’avevo mai visto così fuori di sé.
“Dovresti essere a letto”
“Già, dovrei” ribattei. Lui si avvicinò prendendo un fazzoletto dalla tasca della giacca e asciugandomi il naso sempre bagnato. Io aggrottai le sopracciglia in disaccordo, mi sentivo come un bambino. Spinsi via la sua mano “Non farlo, posso prendermi cura di me stessa, lo sai”
“Oh, tesoro, non ho dubbi su questo, ma mi piace vedere il tuo viso contorto quando sei irritata” Aggrottai ulteriormente le sopracciglia colpendo con leggeri schiaffi il suo petto coperto dell’uniforme “Mi hai sentito? A letto, ora” Alzai gli occhi su di lui e lo spinsi sul letto togliendogli la camicia, le scarpe e le calze e posandogli una mano sulla fronte “Tsk, tsk, tsk” schioccai la lingua “Hai la febbre. Dovrai rimanere a letto per tutta la notte” Iniziò a lamentarsi e protestare, ma io lo spinsi sotto le coperte.
Mi guardai intorno e trovai un asciugamano zuppo d’acqua. Lo strizzai bagnandomi con le gocce e lo posai sulla sua fronte “Spero che non mi lascerai solo con il bambino” ansimò, ma il suo tono era più di gratitudine che di fastidio. Risi e gli carezzai la guancia pallida.
“Questa è la tua ricompensa per avermi avuta come amante”
“Non potevo chiedere di meglio. Grazie, Prinzessin”
Una contrazione scoppiò improvvisa e io urlai a quel dolore straziante. Perché far nascere un bambino era così doloroso? Ora capivo perché mia madre aveva avuto un’unica figlia. Non riuscivo a capire come Leah aveva potuto soffrire così, per molteplici volte. Riflettevo e giacevo sulla mia branda, urlando ad ogni contrazione, l’una sempre più vicina all’altra. I ricordi e i pensieri di poco prima, con Duncan, erano lontani dalla mia mente. Finalmente, dopo giorni, ecco la mia tortura straziante, tutta pianificata. La levatrice entrò, mi esaminò e sorrise cupa.
“Sei pronta a far nascere questo bambino?”

o 0 O 0 o

Non mi ero nemmeno preso la briga di disfare le valige che sostavano nella mia camera da quando ero tornato, non ce n’era motivo. Sinceramente, non sapevo che cosa stava succedendo nella testa di Courtney. Non voleva più fuggire con me, pensava solo a quel cazzo di bambino.
E la sua malattia andava sempre peggiorando.
Se non fosse stata incinta, lei avrebbe potuto tranquillamente sopravvivere a quella maledetta patologia. Non potevo credere che ora stava per morire. Non le avevo detto un milione di volte di stare attenta a non ammalarsi? Io l’avevo controllata ogni singola volta che veniva a trovarmi, ogni santa volta per un anno intero mi ero assicurato che non avesse segni o sintomi di malessere. Eppure nonostante tutti i miei estenuanti sforzi, era riuscita a contrarre una malattia. Ed era solo colpa mia. Se non l’avessi esposta al freddo facendo sesso con lei, non avrebbe preso la febbre. Se non avessi abusato di lei ogni volta, non sarebbe rimasta incinta e quindi la sua vita non sarebbe stata risucchiata via da quel maledetto bambino!
“Il bambino significa così poco per te?” mi rimproverai battendomi una palmo sulla fronte. Io disprezzavo mio figlio quanto si potesse disprezzare l’inferno. Non mi interessava nulla di lui, se lui l’avrebbe uccisa, io lo avrei sarei ucciso per vendetta. Non avrei avuto alcuna pietà per quello sgorbio impuro.
Non l’avevo vista per due giorni e probabilmente ora si sentiva sola senza nessuno a tenerle compagnia, anche se, mi era difficile riuscire ad ammetterlo, quel bambino dentro di lei le teneva compagnia. Aveva il disperato bisogno di vederla, senza però correre il rischio di danneggiare entrambi. Dio solo sa quanto mi odierei se accadesse.
Pensare al suo stato mi faceva sbiancare dalla preoccupazione che mi metteva in subbuglio lo stomaco. Era una sensazione a me sconosciuta, ma che accadeva ogni volta che pensavo al mio amore per lei. Io amavo Prinzessin, io amavo un’ebrea. Non avrei mai pensato che un giorno l’avrei detto. Il modo in cui mi sentivo quando ero con lei era inspiegabilmente fantastico. Lei mi faceva ragionare su tutto ciò che avevo fatto, tutto il male che avevo commesso. Lei faceva perdere battiti al mio cuore. Lei mi faceva sorridere e portava a galla tutto il meglio e il peggio di me. Era così bella tanto che certe volte dovevo distogliere lo sguardo perché non ero degno della sua purezza.
Eppure era così insicura di se stessa. Mi ricordai quando evitò di guardarsi allo specchio e nel momento in cui io la costrinsi a farlo, mi spaventai per come lei si guardò, con tutta quella tristezza e pietà nello sguardo. Ricordai quanto pianse per come appariva la sua figura priva dei suoi morbidi e lucenti capelli. Eppure, per me, quelle ciocche castane non significavano nulla, lei era bellissima anche senza di loro sul capo.
Non potevo vivere senza di lei e il motivo della sua felicità per la sua imminente morte mi era del tutto sconosciuto. Scorrere il mio tempo con lei, insieme alla sua frizzante personalità, aveva reso la mia vita completa. Adoravo sentirla parlare per ore ed ore della sua vecchia vita. Mi aveva confessato le sue memorie. Solo io ero a conoscenza dei suoi segreti e io avrei dovuto tenerli vividi nella mia mente, per lo meno fino a quando il suo cuore fosse stato in grado di battere.
Dovevo attendere almeno un’ora prima di poter vederla di nuovo. Era un’agonia stare seduto solo e pensare a lei, ma di sicuro lei stava patendo più di me. Forse ora tutti erano addormentati all’ospedale, era notte. Quindi io avrei potuto andare a trovarla di nascosto… non vedevo l’ora di riaverla sotto i mei occhi, sebbene il suo stato fosse critico.
L’orologio era l’unica cosa che mi teneva compagnia nella mia cupa solitudine. Il costante tic tac mi ricordava che più secondi passavano, più passavano i minuti, più Prinzessin era vicina a me... e alla morte.
Infine, quando quella straziante ora fu passata, ascoltai il silenzio che mi circondava. Lentamente, strisciai fuori dalla mia stanza e corsi all’ospedale. Attraversai i corridoi bui tentando di mantenere la calma. Infine, raggiunsi la camera di Prinzessin. Aprii la porta chiusa il più silenziosamente possibile, ma la vista che mi si parò davanti mi lasciò sconvolto e paralizzato al mio posto.
Prinzessin era seduta sul suo letto mentre cullava debolmente il fascio urlante che giaceva tra le sue braccia. Sapevo di non aver fatto il minimo rumore che potesse annunciare il mio ingresso, ma lei si voltò sorridendo calorosamente e mi fece cenno di avvicinarmi. Mi mossi come se a guidarmi ci fosse un pilota automatico e mi sedetti accanto a lei. Alzò il fagotto che si dimenava e in silenzio mi chiese di riceverlo tra le mie braccia. Deglutii e scossi la testa in senso di diniego, ero traumatizzato. Invece, accolsi Courtney tra le mie braccia, massaggiandole la spalla nuda con un pollice calloso, ma rifiutai di guardare in faccia il bambino. Non osavo rimanere risucchiato dalle sue grida che mi avrebbero distolto dalla realtà orribile della situazione.
“Come ti senti?” chiesi speranzoso, meditando sul tempo che ci sarebbe voluto prima della sua risposta. Avrebbe dovuto risposare per recuperare le energie. Si voltò a guardarmi e i suoi occhi incavati nel suo viso consumato mi fecero capire che già conoscevo la vera risposta.
“Sono solo stanca… veramente stanca” soffiò mentre poggiava la testa sulla mia spalla inerte. Abbassai il capo e baciai delicatamente i suoi capelli, ignorando il fatto che fossero impregnati di sudore e arruffati.
“Shh, non parlare così. La mia Prinzessin non mi può lasciare” Lei non rispose, ma come mise il dito sulle labbra del neonato urlante, lui smise immediatamente di piangere, cominciando a succhiare delicatamente il dito. Purtroppo, intravidi il bambino e non potei trattenere il mio compiacimento.
“Quindi… è una femminuccia, eh?” chiesi, incapace di trattenere il mio tono beffardo. Courtney sorrise e ridacchiò sommessamente, ma quell’accenno di risa di trasformò in un infernale strazio di colpi di tosse. La sostenni delicatamente per la schiena mentre lei tossiva. Spinse via le mie mani schizzando goccioline di sangue. Le mie pupille si dilatarono e la mia preoccupazione aumentò smisuratamente.
“Sì” rispose debolmente alla mia precedente domanda “Anche se avrei voluto avere un maschietto… con tutti quei calci che mi tirava. Ma di che cosa mi posso lamentare? Ha la forza di suo padre” soffiò dolcemente sollevando la bambina e stampandole un gentile bacio sul suo piccolo capo tondo come una mela “E’ un angelo e ha i tuoi stessi occhi” continuò tracciando con il pollice tutta la superficie della tonda testa della neonata. Non volevo guardare quella bambina. Non sapevo che cosa sarebbe successo se lo avrei fatto e questo mi spaventava.
“Tutto bene?” mi chiese esitante Prinzessin senza ottenere alcuna mia risposta. Distolse lo sguardo, ma io le sollevai il mento in modo da far combaciare i miei occhi con i suoi. Ammirai quelle due sfere color onice, ma mi accorsi che stavano iniziando a rompersi, a sciogliersi. Erano stanche, usurate, scarne e offuscate. In quel preciso istante, seppi che stava veramente per lasciarmi. Non volevo. Era troppo presto! Dopo tutti i miei tentativi per aiutarla a stare meglio, lei stava lasciando questo crudele mondo.
“Sto bene” riuscii a soffocare per evitare che lei si preoccupasse “Hai l’aria stanca, dovresti provare a riposare se vuoi recuperare le forze” E sentendomi pronunciare quelle parole, lei strinse le braccia attorno alla neonata, per proteggerla.
“Il mio momento è arrivato! Ti sto lasciando!” sostenne istericamente, mentre io la osservavo cercando di capire se fosse sul punto di piangere. Dovevo comprendere quella sua reazione, dopotutto aveva appena partorito e i suoi ormoni erano scombussolati. Le posai un dito sulla sua bocca mettendola a tacere e iniziai a carezzarle i capelli fissando i suoi occhi che secondo dopo secondo luccicavano sempre meno.
“Prometto che rimarrò qui fino alla fine. Devi solo riposare, solo una o due ore di sonno per ottenere un po’ di energia e dopo stari meglio” ragionai e lei sembrò intendere le mie parole. Come iniziò a rilassarsi, io le diedi un soffice bacio sulle labbra che le rese un immediato sorriso. Continuai ad accarezzare i suoi capelli e lei chiuse gli occhi, sempre più usurati. Si addormentò dopo pochi istanti e io tenni controllata la sua respirazione. Sul suo volto si dipinse una smorfia di dolore, stava soffrendo mentre cercava di combattere contro la morte pur di rimanere qui qualche secondo di più.
Dopo pochi minuti, il fagotto iniziò a dimenarsi di nuovo ricominciando a piangere. Probabilmente gli mancava l’attenzione della madre. Che creatura viziata ed egoista! Non si rendeva conto che sua madre stava per morire per colpa sua? E lui che cosa faceva? Chiedeva attenzione? La bambina continuò ad urlare bisognosa. Quando i lamenti aumentarono di volume, osservai freneticamente Prinzessin sperando che non la svegliasse, ma lei sembrava un morto. Assicurandomi che stesse ancora respirando mi chinai, e afferrando il fascio piangente, camminai verso l’altro lato della stanza in modo da ridurre il rumore ed evitare che Courtney si svegliasse. Feci rimbalzare un po’ la bambina nel tentativo di calmarla. Mi rifiutai di guardarla, era solo un’egoista viziata che stava causando la morte di sua madre. Eppure, dopo un po’, la cosa tra le mie braccia si calmò e la mia curiosità vinse sull’odio. Decisi che guardare per una sola volta la faccia di mia figlia non mi avrebbe fatto male.
Non sapevo che quello che stavo per vedere, avrebbe cambiato per sempre la mia vita.
Aveva gli occhi chiusi, ma ciò non toglieva che somigliava molto a Prinzessin. Anzi, erano praticamente identiche. Le lentiggini pizzicavano la carnagione chiara, il cui colore corrispondeva esattamente al mio. La sua discreta quantità di capelli era di un castano scuro, molto più scuro di quello di Courtney, ma più accentuato del mio, e terminava con un ricciolo, il che aveva preso sicuramente dalla famiglia di Courtney. Toccai quei pochi capelli, vinto dalla curiosità, e mi accorsi che erano di una meravigliosa morbidezza. Osservando il resto dei suoi lineamenti, mi accigliai, notando quanto era piccola e magra rispetto al resto dei neonati che avevo avuto l’occasione di vedere.
“Sei così piccola” sussurrai dolcemente continuando a far scorrere il mio pollice sui suoi morbidi riccioli “Vuoi aprire i tuoi occhi per paparino, angioletto?” chiesi solleticandole un poco lo stomaco. Quello che mi colpì più di ogni altra cosa, fu la sua risposta alla mia domanda. I suoi grandi occhi azzurri si spalancarono in un solo istante. Sbatté le palpebre e potei affermare dal suo sguardo liquido che lei sapeva chi ero. La spostai nelle mie braccia esattamente come aveva fatto Prinzessin qualche momento prima. La feci saltare un poco e sorrisi. Era così preziosa e adorabile. Mi faceva sentire esattamente come se fosse Prinzessin. Era felice, spensierata, come se nulla potesse mai andare storto. Eppure… come potevo prendermi cura di lei?
Ignorai quella domanda inquietante e la posizionai meglio tra le mie braccia, ma improvvisamente mi sentii… strano, dentro di me. Avevo ucciso molti bambini fin dal momento in cui ero entrato in quell’infernale ghetto eppure non avevo mai provato nulla. Iniziai ad ipotizzare ragioni e scuse davanti alla mia noncuranza, ma più pensavo, più mi sentivo in colpa. Alla fine giunsi alla conclusione che anche se io non li avessi uccisi, la vita nel campo avrebbe tolto loro l’anima. Guardai in faccia la mia bella figlioletta e un misto di emozioni mi travolse: gioia, senso di colpa, rimpianto… Non potrei mai uccidere questa creatura.
Era questo che provava un padre per la propria figlia o figlio? Quel puro e straziante senso di colpa si mescolò con altre sensazioni che non sapevo come classificare. Strinsi mia figlia al petto, come per proteggerla da un nazista che l’avrebbe potuta rubare da un momento all’altro, portandola via da me.
“Non preoccuparti, non lascerò che ti prendano” sussurrai amorevole alla mia creaturina mentre le scompigliavo i riccioli castani. La tenni in braccio per chissà quanto tempo, guardandola negli occhi e dondolandola dolcemente. Tutto sembrava non avere più tempo e in quel mentre in cui la cullavo, mi dimenticai che Courtney stava morendo. Almeno fino a quando non si risvegliò, tossendo come se stesse per sputare il suo instabile cuore. Debole, tremante, con mani di un bianco cadaverico.
Subito accorsi e le diedi pacche sulla schiena, cercando di convincerla a buttar tutto fuori, fu inutile. Il suo tempo era ormai giunto al termine, le sue mani erano ricoperte di sangue e tremava inverosimilmente. La aiutai a distendersi. Non riuscivo ad accettare il fatto che lei mi stesse abbandonando. Ma, nonostante avesse avuto ancora pochi istanti di vita, mi sorrise più bella che mai quando si accorse che stavo tenendo tra le braccia nostra figlia.
“E’ bellissima, non è vero?” chiese soave, raggiungendo a stento con un dito la guancia della bambina, che la osservava curiosa. Io annuii impercettibilmente e, alla vista di lei così pallida e debole, lacrime disperate iniziarono a formarsi nei miei occhi. Mi morsi un labbro e mi voltai, come per cercare di nascondere quei cristalli liquidi che cadevano copiosamente lungo le mie gote.
“Per favore, non morire” era tutto quello che potei dire in quel momento. Anche se sapevo che le mie suppliche erano inutili perché lei stava morendo, mi stava lasciando.
“Mi dispiace Duncan, mi dispiace davvero tanto” sussurrò mentre io cercavo di vincere il mio pianto carezzando il suo viso, tentando di calmarla. Mi fece cenno di porgerle la bambina e io obbedii riluttante, ma consapevole che il nostro angelo doveva trascorrere gli ultimi istanti che aveva con la madre. Prinzessin la strinse al petto e la neonata iniziò a piangere, ma, questa volta, non la rimproverai. Mi sdraiai accanto alla mia amata nel suo piccolo lettino e la avvolsi nelle mie braccia, senza dire niente, mentre lei piangeva e io cercavo di essere forte, per lei.
“Duncan… non voglio morire… non voglio… ma posso rivedere papà, e lui sarà felice perché lui mi vuole più di chiunque altro. Pensa che nostra figlia è bellissima ed è molto orgoglioso di me, come ho sempre voluto che fosse” disse soffocando i singhiozzi. Anch’io soffocai un singhiozzo. Spostai la testa di lato in modo da poter accogliere quella di Courtney nell’incavo del mio collo, ma volevo chiederle qualcosa di più.
“E io? Cosa pensa di me?” la mia voce era rotta di pianto, ma per la prima volta non me ne interessai per questa mia debolezza. Usò quello che rimaneva della sua forza per alzare la testa, sorridere e baciarmi una guancia.
“E’ orgoglioso anche di te. Ti ama, Duncan, perché tu ami me. Ti considera come un figlio e ti ringrazia per avermi aiutata e per aver dato a nostra figlia la possibilità di sopravvivere anche in mia assenza” I miei occhi si riempirono di lacrime fin dalla prima frase che lei esalò. Ci misi tutta la mia forza di volontà e tutti i miei anni di duro addestramento per non scoppiare in lacrime come un infante. Come poteva amarmi suo padre? Avevo ucciso persone, violentato la sua unica e preziosa figlia facendo della sua vita un inferno. L’avevo messa incinta e costretta a ore di lavoro forzato fino ad ucciderla.
“Duncan, per favore, prenditi cura di lei. Questo è il mio ultimo desiderio, prima di morire” non potei far altro che annuire, non riuscivo nemmeno a parlare. La mia voce era strozzata dai singhiozzi. Mi stava lasciando. Quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei sentito la sua voce o visto la sua bellezza o accarezzato i suoi capelli o baciata o… nulla. Mi asciugai gli occhi frustrato, anche se le lacrime continuavano a cadere. Prinzessin, la mia Prinzessin, rivolse uno sguardo colmo di pianto a sua figlia, il suo ultimo sguardo. Le diede un debole bacio sulla fronte, la strinse a sé e me la porse.
“Come la chiameremo?” chiesi in silenzio, rendendomi conto che non avevamo ancora scelto un nome per nostra figlia. Lei sorrise calorosamente prima di accucciarsi tra le mie braccia e baciarle.
“Le troverò un nome adatto” mi chinai posando le mie labbra sulle sue. Volevo un altro bacio, solo uno. Usò tutta la sua energia per baciarmi con passione e io mi concentrai solo su quel bacio che ci avrebbe unito e ricordato l’uno l’altro. Si tirò indietro per prima sorridente di soddisfazione per poi cadere esausta sulle mie braccia. Gettai a terra i cuscini in modo da farla distendere completamente e aiutarla a lasciare questo mondo.
“Ti amo Prinzessin. Tu sei la  mia unica, insostituibile e speciale Channa” i suoi occhi ebbero un sussulto e le lacrime sgorgarono ancora una volta copiose.
“Ti amo tanto, troppo Duncan. Grazie di tutto, mio schmendrik tedesco” disse con un piccolo sorriso, chiudendo gli occhi. La bacia sulla fronte mentre il sorriso continuava ad abbellire le sue labbra soddisfatte. Contai i secondi, le lacrime che inondavano i miei occhi senza più alcun ritegno, fino a quando il suo respiro cessò e il suo corpo fu immobile.
60.
60 secondi.
Un intero minuto per morire.
Courtney Esther Politzer è morta. Channa Esther Politzer è morta. La mia Prinzessin è appena morta sotto i miei occhi. Questo continuava a ripetere la mia testa che non riusciva a staccare lo sguardo da quel viso scarno. Volevo credere che questo fosse uno scherzo crudele. Che lei si fosse risvegliata e me lo avesse urlato in faccia. Ma non lo fece. Sfiorai il suo corpo inerte continuando a respingere la realtà.
“No… no, no, no, no, no! Dannazione!” urlai, improvvisamente cieco di furia. Perché? Perché l’unica cosa fantastica che avessi mai avuto mi era appena stata tolta? Dannazione, dannazione a quello stupido karma. Lo sapevo, sapevo che non sarebbe durato. Avevo fatto cose terribili nella vita e ovviamente non avrei potuto tenere con me una cosa così preziosa come Courtney. Guardai sulla sedia, dove giaceva il bambino, in fasce, mentre iniziava a dimenarsi e lamentarsi, di nuovo. Probabilmente gli mancava la madre che aveva appena ucciso.
La madre che quella bambina aveva appena ucciso.
La madre che quella cosa aveva appena ucciso.
L’aveva uccisa!
Quella maledetta bambina l’aveva uccisa, proprio come era stato previsto. I miei occhi divennero una sottile fessura, dimenticai tutto quello che era accaduto prima, fatta eccezione della morte di Courtney. La mia unica ragione di vita, la mia vita… quella maledetta bambina l’aveva appena uccisa. Mostro. Schifoso mostro. Io ti annego, io ti uccido con le mie stesse mani! Ma non potevo farlo. Era mia figlia, seppur la odiassi più di ogni altra cosa, non potevo ucciderla io. Mi avvicinai alla sedia, sollevai la bambina cullandola dolcemente. Raccogliendo tutto il mio coraggio, la guardai negli occhi e lei si calmò all’istante.
“Una bella bambina come te dovrebbe stare con la sua mamma” canticchiai con la voce più morbida di cui ero capace, nascondendo il mio ghignare. La cullai fino a quando, stanca, non si addormentò. Ignorai tutta la bellezza di quel momento e la posi nelle braccia fredde e rigide di Courtney. Le guardai ancora una volta, insieme, senza dir loro un addio o un semplice “scusa”. Le lasciai, senza preoccuparmi di guardarmi indietro. Camminai il più in fretta possibile, raggiungendo le aree di sosta del Kommando, bussai alla loro porta con impazienza. Uno di loro rispose e io mi presentai con una faccia del tutto inespressiva. Spiegai la situazione e attesi che lui eseguisse quanto da me richiesto.
Continuai a camminare, cercando di cancellare dalla mia mente tutti i pensieri inquietanti su ciò che avevo appena fatto. Mi precipitai nella mia stanza, il respiro pesante, imprecazioni, calci, pugni che abbattevano e disintegravano ogni singola cosa. E quando la mia stanza fu ridotta ad un ammasso di cocci e schegge, i miei occhi si spalancarono, realizzando quell’atto orribile e imperdonabile che avevo appena compiuto.
Caddi senza più forze sul pavimento, il mio stomaco dolorante mi costrinse a piegarmi su me stesso… chi avevo appena ucciso? Lacrime colme di vergogna e disperazione per il mio gesto caddero lungo le mie guance e i singhiozzi iniziarono a fuggire su per la mia gola.
Se nulla a questo mondo poteva farmi piangere, l’invio di mia figlia tra le mani della morte sarebbe stata l’unica cosa che avrebbe scatenato la mia follia.
“Channa…” singhiozzai “Io… io avrei dovuto chiamarla Channa…”
  
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