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Autore: lilyhachi    01/05/2014    1 recensioni
(Raccolta di one shots varie incentrate su Derek e Stiles; possibili spoiler)
#1: Ogni volta che si trovava dinanzi a Derek, tutti i nodi venivano “al pettine”.
#2: Si sentiva come un bambino che cercava con tutte le sue forze di imparare a camminare, ma non faceva che cadere e sbucciarsi le ginocchia. Derek era caduto così tante volte che aveva perso il conto.
#3: Le lancette dell’orologio si muovevano veloci, solo che Stiles non le guardava, non più. (AU; college)
#4: Come facevi a sapere se stavi ancora sognando?
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Stiles Stilinski
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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III

Clocks

 

“Cause you had a bad day, you're taking one down.
You sing a sad song just to turn it around”.


C’era una sola cosa che Stiles Stilinski amava più della sensazione di starsene avvolto tra le coperte mentre fuori pioveva a dirotto, sentendo il suono delle gocce di pioggia che si infrangevano contro il vetro: osservare le lancette dell’orologio, anche se erano le quattro del mattino, per realizzare che sarebbero trascorse almeno altre quattro ore prima del suo completo risveglio.
Era un gesto diventato parte della sua routine, e soprattutto, della sua strana quanto amabile personalità.
Alle volte, gli capitava di mettere la sveglia molto prima dell’orario in cui avrebbe dovuto abbandonare il suo amato letto da una piazza e mezzo, solo per sorridere beato nel vedere che avrebbe potuto dormire ancora per un bel po’ di tempo.
Poggiava la testa sul cuscino e si lasciava cullare dal ticchettio delle lancette che avrebbero dovuto fare ancora molta strada prima di raggiungere l’orario definitivo in cui Stiles avrebbe potuto abbandonare il suo giaciglio.
Quando Scott aveva notato questa sua mania, mentre teneva fra le mani il suo cellulare con la sveglia impostata alle cinque e mezza, anziché alle sette del mattino, lo aveva guardato in maniera lievemente confusa. Aveva aggrottato le sopracciglia e arricciato le labbra, formando una specie di smorfia che risultava un misto tra il divertito e il preoccupato. Tuttavia, Scott si era detto che si trattava di Stiles Stilinski ed era risaputo che il suo miglior amico non avesse proprio nulla che potesse rientrare nella categoria “ordinario”.
Quella mattina, Stiles rimase ancor più volentieri nel suo letto, vista la pioggia che ancora tamburellava con forza contro la finestra della sua stanza. Sapeva che si sarebbe dovuto alzare, prima o poi, ma preferì godersi quel momento di assoluta pace, ascoltando quel lieve ticchettio.
Quando arrivò il momento di mettersi in piedi una volta per tutte, Stiles non la prese male, ma si alzò in tutta calma, decidendo di affrontare con il sorriso quel triste giorno di pioggia che per nulla al mondo avrebbe intaccato il suo buon umore. Peccato che quella giornata non fosse dello stesso avviso, in quanto non era per nulla intenzionata a lasciare Stiles Stilinski indenne e allegro.
Armato di ombrello e giacca, Stiles si inoltrò per le strade di Providence, cercando di farsi spazio tra la marea di persone che camminavano frettolosamente, chi per raggiungere il college, chi per recarsi al lavoro, chi per prendersi un buon caffè prima di iniziare la giornata, come lui.
Fino a quel punto, sembrò andare tutto nel migliore dei modi: la cartella con al suo interno il fidato libro di “Criminalità informatica”, l’ombrello che lo proteggeva, impedendogli di essere anche solo sfiorato da una goccia di pioggia. Sembrava tutto tranquillo, fin quando una folata di vento improvvisa decise di mandare il suo ombrello a farsi benedire, costringendo Stiles ad imprecare e a beccarsi l’occhiataccia di una vecchietta che gli stava passando accanto. Stiles le rivolse un sorriso tirato mentre quella ancora lo fissava, passando oltre.
Mentre tentava inutilmente di aggiustare quel dannato ombrello, Stiles si ritrovò completamente inzuppato e alzare il cappuccio sulla testa non cambiò di molto le cose. Decise di lasciar perdere lo stupido ombrello e cominciò a correre, per raggiungere la caffetteria dell’università quanto prima, e rimanere lì fino a nuovo ordine. Doveva correggersi: quella giornata non era iniziata bene. In uno slancio di ottimismo, Stiles aveva pensato che una giornata iniziata in quel modo non poteva certo andar peggio, quindi sarebbe migliorata pian piano…invece no.
Arrivò alla caffetteria della Brown, aprendo la porta che con un tintinnio segnalò la sua entrata, come un vero e proprio pulcino bagnato. Solo in quel momento, Stiles capì la vera definizione di quell’espressione utilizzata spesso per scherzare: la sua tracolla era completamente bagnata e Stiles pregò ogni religione da lui conosciuta, affinché il suo libro fosse intatto; i capelli, seppur coperti dal cappuccio, erano bagnati anch’essi; i suoi pantaloni erano zuppi fino al ginocchio, segno ancora ben visibile dell’incontro ravvicinato fra Stiles e una pozzanghera.
Il ragazzo trattenne uno starnuto e dovette frenarsi dall’imprecare ancora una volta, quando si accorse della sfumatura limpida che il cielo stava assumendo, mentre si liberava poco a poco da quelle nuvole grigie e poco rassicuranti che lo avevano accompagnato per tutto il tragitto.
Non appena aveva messo piede nella caffetteria, il cielo si era rasserenato: un vero classico.
Stiles scosse la testa, lasciando fuoriuscire qualche goccia di acqua dai suoi capelli, quasi come avrebbe fatto un cane e portò il polso all’altezza del viso per vedere l’ora, notando con piacere che ci aveva messo molto meno del previsto per arrivare all’università.
Per sua fortuna, la lezione sarebbe iniziata tra mezz’ora, in modo da dargli tutto il tempo per bere con calma il suo caffè e prendersi un po’ di calore, dopo tutta quella pioggia. Sicuramente si sarebbe beccato un bel raffreddore. Tuttavia, poiché le disgrazie si presentavano sempre una per volta, cogliendo chiunque di sorpresa, quella giornata aveva in serbo ancora un paio di cosucce per Stiles Stilinski. Fra quelle, soltanto una poteva essere considerata in qualche modo piacevole, ma Stiles avrebbe dovuto penare ancora un bel po’ prima di arrivarci.
Quando si avvicinò al bancone, notò quella familiare ondata di riccioli scuri che ornavano un viso piuttosto spigoloso, creando, tuttavia, un’armonia in quel volto che si presentò dinanzi a Stiles.
Isaac Lahey aveva qualcosa nel suo viso e nella sua completa figura, che Stiles avrebbe definito come “greco”, ma non come lo intendeva la sua amica, Lydia Martin, quando diceva che Isaac ricordava un dio greco, con la voce bassa e gli occhi sognanti rivolti a lui. In Isaac c’era qualcosa di euritmico che creava un accordo di dettagli e gesti che, insieme, erano quasi tranquilli e confortanti.
Isaac, suo amico ormai da anni, aveva quell’effetto su chiunque.
“Caffè con una spruzzata di vaniglia”, esclamò Isaac, dall’altro lato del bancone. “E un muffin al cioccolato, ho dimenticato qualcosa?”.
Stiles rise, facendo un cenno ad Isaac, e pagando il conto, per poi ritirare la sua ordinazione.
“Non hai nulla da seguire oggi?”, domandò poi Isaac, notando che Stiles, rispetto alle altre mattine, si era presentato un po’ più tardi del previsto.
“Ho il corso di criminalità informatica tra mezz’ora”, rispose Stiles, tenendo stretto il caffè fra le mani per riscaldarsi un po’.“Tu?”.
“Stacco fra un’ora e filo dritto ad anatomia artistica”, affermò Isaac, trattenendo uno sbadiglio e stiracchiandosi, con i residui del sonno ancora evidenti.
Stiles non avrebbe mai trovato un indirizzo più adatto per una persona come Isaac Lahey: fin dal liceo, lo aveva visto spesso in silenzio e ricurvo sul blocco da disegno che teneva gelosamente conservato nel suo zaino, nascondendolo a chiunque tentasse di sbirciare i suoi lavori, semplicemente per timidezza. L’idea che qualcuno a lui vicino potesse vedere ciò che le sue mani erano in grado di realizzare, lo spaventava a morte, come se temesse il giudizio altrui. Eppure, con il tempo Isaac aveva smesso di temere sia lui che Scott, mostrando loro ciò di cui era stato capace fin da bambino.
Stiles sorrise, ripensando ad alcuni schizzi del viso di Lydia Martin custoditi in quel blocco e che forse un giorno avrebbero visto la luce.
Stiles sorseggiò un po’ del suo caffè, controllando l’orologio al polso: per poco non rischiò l’infarto, poiché le lancette erano ferme nello stesso punto in cui si trovavano dieci minuti fa. Un brivido gli percorse completamente la spina dorsale, e Stiles voltò lo sguardo verso l’orologio appeso al muro che aveva ben pensato di non degnare neanche di uno sguardo. Erano le dieci e la sua lezione stava per iniziare o semplicemente era già iniziata.
Rivolse un cenno di saluto ad Isaac, divorò quel muffin che avrebbe voluto gustare e si precipitò fuori dalla caffetteria, senza considerare che correre per il campus con del caffè bollente fra le mani non era proprio una scelta saggia. Infatti, ne pagò immediatamente le conseguenze: per Stiles fu come andare a sbattere contro il muro, oppure contro un armadio; ad ogni modo, aveva sbattuto contro qualcosa di solido e non avrebbe mai pensato potesse trattarsi di una persona. Al leggero dolore che si propagò per tutto il petto seguì un calore insopportabile che si espanse sulla stessa zona, quasi ustionandolo, e poi l’odore del caffè che gli penetrava nelle narici. A quel punto, Stiles Stilinski imprecò, di nuovo.
Quando alzò lo sguardo, trovò due occhi verdi spalancati ad aspettarlo che appartenevano ad un ragazzo di poco più alto di lui e sicuramente più grande, almeno per la sua struttura fisica. A Stiles sembrò davvero un armadio. Si allontanò in fretta e furia da lui, ed emise un gemito di frustrazione, notando la maglia blu sporca di caffè, dopodiché fulminò lo sconosciuto con gli occhi.
“Guarda dove vai!”, esclamò Stiles, senza nascondere il fastidio nella sua voce.
Si soffermò involontariamente sul suo viso, cogliendone con minuzia ogni peculiarità, come la linea dritta delle labbra sottili, oppure la ruga che si era formata a livello della fronte. L’interpellato mostrò un’espressione indignata mentre saettava lo sguardo da lui al caffè che entrambi avevano perso e per un attimo, Stiles credette di vedere del fumo uscirgli dalle orecchie per quanto era infastidito. Le sopracciglia scure e folte si aggrottarono, inasprendo quello sguardo già rigido e la mascella si indurì: nell’insieme, la sua faccia non aveva proprio nulla di amichevole.
“Io?”, ribatté l’altro, senza preoccuparsi di alzare la voce. “Sei arrivato come una trottola”.
Stiles borbottò qualcosa e lo superò, conscio di non poter perdere tempo con un idiota palestrato che gli stava soltanto peggiorando quella giornata.
Lo sconosciuto gettò il contenitore del suo caffè perso sulle mattonelle. Riservò un’ultima occhiata irritata a quel mucchietto di ossa, chiedendosi quando le matricole fossero diventate così fastidiose da fargli venir voglia di mandarle a quel paese, poiché quel ragazzino non poteva essere altro che una matricola, e anche abbastanza irritante.
 
Ad ora di pranzo, Stiles poteva definirsi avvilito da quella giornata insostenibile.
Prima di tutto, il professore del corso, vedendolo entrare in ritardo e tutto sporco di caffè, non aveva evitato di farlo notare a tutta la classe; inoltre, la doccia che si era beccato per strada iniziava a far sentire i suoi effetti, provocandogli starnuti e colpi di tosse, aiutati anche dai suoi vestiti umidi.
“Sì, sembri un pulcino bagnato”, esclamò Lydia, sorseggiando la sua coca.
“Smetti di farglielo notare”, la rimproverò Allison, senza riuscire a trattenere un sorrisino, ma avendo la gentilezza di guardare male il suo ragazzo, Scott, che voleva scoppiare a ridere.
“Begli amici che ho”, si lamentò Stiles, guardando il suo panino senza appetito. “Come se non bastasse puzzo ancora come una caffettiera, grazie a quel dannato Mister Muscolo”.
Isaac lo guardò un po’ sconsolato, rivolgendogli un sorriso di conforto, mentre Lydia rideva per l’ennesimo nomignolo che Stiles aveva affibbiato al povero malcapitato che lo aveva urtato.
Stiles sperava solo che quella giornata finisse quanto prima, permettendogli di rintanarsi nel suo appartamento, lontano da tutti quei piccoli fastidi quotidiani. Avrebbe guardato il suo orologio ma era andato a farsi benedire insieme al suo ombrello, così prese il cellulare dalla tasca dei pantaloni, rischiando di farlo cadere sul pavimento della mensa e perdere anch’esso.
“Direi che posso andarmene a casa”, dichiarò il povero sfortunato, battendo una mano sul tavolo.
“Hai finito?”, domandò Scott, dando un morso al suo hamburger.
“Sì, grazie a Dio!”, rispose Stiles, raccattando la sua tracolla. “Qualcuno torna con me?”.
“Temo di no”, dichiarò Allison, realmente dispiaciuta. “Io ho il corso di storia della letteratura francese alle tre e Lydia quello di meccanica e termodinamica”.
“Amico, mi spiace ma ho una lezione pratica di anatomia veterinaria”, aggiunse Scott, scrollando le spalle.
“Ed io ho un seminario di estetica delle arti visive”, concluse Isaac.
“Ho capito, tutti prigionieri qui dentro”, sentenziò Stiles, scrollando le spalle, per poi rivolgere loro un sorriso amichevole. “Vuol dire che ci vedremo domani, allora. Io filo a casa, buona permanenza, sfigati!”.
I suoi amici lo salutarono, raccomandandogli di non finire addosso a nessun altro, e ricevendo una smorfia di Stiles come risposta.
Stiles era a metà strada da casa sua, quando la pioggia decise di fargli nuovamente visita.
“Non è possibile”, gemette il ragazzo, irritato fino all’inverosimile per quel tempo burlone che gli stava tirando colpi bassi da quando aveva messo piede fuori casa. Si avvolse nella giacca ma la pioggia, rispetto alla mattina, era molto più forte e così fu costretto a rintanarsi sotto un balcone, nell’attesa che quel diluvio universale si calmasse almeno un po’.
Stiles prese a battere nervosamente il piede per terra, fremendo per ciò che gli era toccato sopportare, e ripercorrendo tutta la giornata, immaginando sé stesso sul divano: l’unico pensiero in grado di farlo sentire leggermente più sereno.
Dopo diverso tempo passato al riparo, la pioggia sembrava solo aumentare la sua intensità, senza dare alcun segno di cedimento. In un gesto automatico, guardò il suo polso, per poi mordersi il labbro inferiore, e riprese ancora il suo cellulare.
La lista degli oggetti andati a farsi benedire cresceva, poiché anche il suo cellulare aveva deciso di spegnersi, e se Stiles lo avesse messo a caricare il giorno prima, questo non sarebbe accaduto. Mugolò in segno di disapprovazione e richiamò all’attenzione il primo passante che invase il suo raggio visivo, per sapere almeno che ora fosse, giusto per avere un riferimento.
“Mi scusi, saprebbe dirmi-“, cominciò Stiles senza terminare quella domanda, lasciata in sospeso tra lui e il suo interlocutore, ovvero l’armadio che aveva urtato quella mattina. “Ah, sei tu”.
“Ti serve qualcosa?”, domandò quello, tenendo l’ombrello blu sopra la sua testa.
“Volevo solo sapere l’ora ma non fa nulla”, esclamò Stiles, incrociando le braccia al petto.
L’altro ragazzo sospirò, portando uno sguardo al suo orologio. “Le due e mezza”.
Stiles sgranò gli occhi. Era stato più di mezz’ora sotto a quel maledetto balcone a prendere freddo.
Fece per dire qualcosa ma uno starnuto bloccò ogni sua intenzione.
“Grazie”, sussurrò Stiles, rivolgendosi all’armadio e accorgendosi di non sapere il suo nome.
“Derek”, aggiunse lui, osservando il ragazzo con un cipiglio preoccupato, e vedendo la macchia di caffè in bella vista sulla maglia, grazie alla giacca lasciata aperta.
“Stiles”, affermò il ragazzo, stringendosi meglio nella giacca e infilando le mani nelle tasche.
“Dove abiti?”, chiese lui, con tono autorevole e uno sguardo che non si rapportava con la voce.
“A dieci minuti da qui”, rispose il ragazzo, senza chiedersi il motivo di quella domanda.
“Posso darti un passaggio con l’ombrello”, dichiarò l’altro, facendo voltare Stiles di scatto che si mostrò immediatamente sorpreso per quello strano moto di gentilezza, in contrasto con l’atteggiamento che gli aveva riservato la mattina al campus.
Stiles fece per rifiutare, ma la voce dell’altro lo fermò prima che potesse aprire bocca.
“Muoviti, prima che cambi idea”, berciò lui, roteando gli occhi e trattenendo uno sbuffo.
A quel punto, Stiles si infilò sotto l’ombrello senza dire una parola.
 
I dieci minuti che li avevano condotti fuori la porta del palazzo di Stiles erano trascorsi in religioso silenzio, mentre l’imbarazzo aleggiava attorno alle loro figure vicine che quasi sussultavano, come se avessero ricevuto la scossa, ogni volta che si sfioravano un po’ di più.
Diverse volte Stiles aveva portato gli occhi su di lui, attento a non farsi cogliere in flagrante ma incontrando gli occhi verdi di Derek a metà strada, impegnati nel suo stesso intento. Non aveva mai bloccato il fiume di parole che cominciava a fuoriuscire dalla sua bocca senza alcun freno. Eppure, accanto a quel Derek, ogni parola gli sembrò del tutto superflua.
Ogni insulto e ogni nomignolo che gli aveva attribuito si volatilizzò, perché Stiles era troppo impegnato ad osservare di nascosto quel viso rigido e diverso da tutti quelli che aveva incontrato.
La sua bocca si era aperta con timore per rivolgergli un’unica domanda: “cosa studi?”.
Stiles si era pentito quasi subito del modo stupido in cui l’aveva posta, ripetendo a sé stesso che avrebbe potuto essere più specifico e magari evitare di balbettare come un completo idiota.
Aveva frenato quei pensieri alla risposta di Derek che gli aveva detto di studiare architettura.
Stiles avrebbe voluto chiedergli di più, come il motivo della sua scelta, e dirgli lui cosa studiava.
Avrebbe voluto farsi guardare in maniera confusa da Derek che forse si sarebbe chiesto come mai un tipo simile potesse scegliere di studiare criminologia. Infatti, la domanda di lui arrivò così velocemente che Stiles dubitò di averla udita davvero, credendo che fosse soltanto uno scherzo della sua immaginazione. Quando rispose “criminologia”, Derek si voltò davvero a guardarlo con espressione sorpresa, per poi fare un cenno di assenso e tornare a guardare la strada senza aggiungere altro.
Stiles avrebbe voluto chiedergli cosa stesse pensando al riguardo. Avrebbe voluto averlo di fronte e non di lato, per guardare meglio gli occhi verdi, nei quali aveva scorso qualche pagliuzza dorata, che donava maggiore intensità al suo sguardo austero.
“Eccoci qui!”, esalò Stiles, tirando un sospiro e guardando Derek. “Grazie”.
“Figurati”, fu la risposta lapidaria e scarna dell’altro che sicuramente non aveva una gran parlantina.
“Credo di doverti un caffè”, aggiunse Stiles, senza neanche sapere perché stesse rivolgendo un sorriso a quel ragazzo semi-sconosciuto dal tono burbero.
“Forse te ne devo uno anche io”, constatò Derek, riflettendoci su mentre il viso pallido del ragazzo di fronte a lui si fece più risentito, come se gli avesse rivolto la peggiore delle offese.
“Forse?”, ripeté Stiles, gesticolando nervosamente e facendo perdere a Derek il filo dei suoi pensieri, perché troppo distratto a seguire quelle mani, le cui dita lunghe si muovevano velocemente.
“D’accordo, ti devo un caffè e un bucato”, si arrese Derek, osservando l’espressione di lui che cambiava, mostrando un sorriso deliziato, mentre gli occhi ambrati si facevano più luminosi, irradiando quella giornata uggiosa, in cui il sole aveva deciso di non fare capolino.
“Allora…vado”, aggiunse Stiles, dondolando sulle gambe, come in attesa di qualcosa, e osservando di sottecchi Derek, il quale non poté fare a meno di sorridere.
Derek voleva ridere, soprattutto per la strana piega che quella giornata aveva preso, portandolo a guardare quel ragazzo irritante che lo aveva travolto, nel vero senso della senso della parola, con occhi completamente diversi. Per qualche motivo, aveva smesso di trovarlo irritante.
Forse era per il suo viso così semplice e ingenuo da fargli tremare le mani; forse per il tono fastidioso che gli aveva rivolto quella mattina; o forse per il comportamento imbarazzato che aveva assunto in sua presenza, mentre quella pioggia improvvisa li univa.
“A domani, Stiles…con il caffè”, asserì Derek, mostrando un sorriso divertito.
Il sorriso di Stiles si allargò a quella specie di promessa, carica di aspettative e speranze silenziose.
Il giorno successivo, l’uno offrì all’altro quel caffè che avevano perduto il giorno prima.
Il giorno dopo, continuarono ad offrirsi il caffè, fingendo che si fossero trovati per caso nella stessa caffetteria e che non vi si fossero recati apposta nella speranza di incontrarsi.
Presero a cuore quella tradizione del caffè, che continuò il giorno dopo ancora e ancora, mentre le lancette dell’orologio si muovevano veloci, solo che Stiles non le guardava, non più.
 
 
Angolo dell’autrice
 
Eccomi con una nuova one shot!
Chiedo perdono per averci messo più del previsto e spero che l’aggiornamento vi sia mancato almeno un pochino. Comunque, questa volta ho pensato di cimentarmi in una AU ambientata in un universo privo di licantropi dove i protagonisti frequentano il college e vivono una vita normale.
E’ palese che non avranno mai una vita così tranquilla, ma vabbè! Ad ogni modo, spero che questo piccolo esperimento senza capo né coda vi sia piaciuto, vi invito sempre a farmi sapere cosa ve ne pare con un commento anche piccino e ringrazio tutti coloro che stanno seguendo la storia, che hanno recensito, messo tra seguite/preferite/ricordate. Alla prossima, un abbraccio!
Ps: forse la prossima one shot sarà l’ultima, non odiatemi…è ancora da decidere.

 

   
 
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