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Autore: Lau2888    04/05/2014    2 recensioni
ogni mio sogno alla fine si era realizzato: il mondo era in pace, ero un calciatore professionista e, ultimo ma non meno importante,avevo al mio fianco la donna che avevo sempre amato.
eppure un giorno tutto il mio mondo era crollato. ecco come inizia e finisce l'unica battaglia che non sono mai stato in grado di vincere.
one shot. coppie: Taiora, TkxKari (accennato)
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Taichi Yagami/Tai Kamiya | Coppie: Sora/Tai
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Cari lettrici/ lettori di efp bentrovati e benvenuti in questa one-shot scritta a dimostrazione che come autore (che parolona) sono ancora viva e determinata a pubblicare ancora.
Solo una piccola premessa: non sono un medico e quindi le mie competenze nel settore si fermano all’aspirina, quello che ho scritto nasce da un’esperienza vissuta anni addietro, dai ricordi e dalle sensazioni che mi aveva lasciato. Il tutto è stato modificato per adattarsi alla storia.
(bla bla non possiedo i personaggi né Digiword)
Vi auguro una buona lettura (inchino)
 
PS per chi legge “compagni di viaggio”: farò una pubblicazione unica dei capitoli restanti e dell’epilogo ( due più l’epilogo) sono alla metà del secondo abbiate pazienza, il lavoro toglie ogni respiro ^^’’’’
 
 
 
 
 
Quest’odore… dio come lo odiava…
 
Anche con gli occhi chiusi e i sensi intorpiditi riuscivi a sentirlo benissimo.
Nelle ultime settimane, ogni volta che ti eri svegliato quel dannato odore era sempre la prima cosa che i tuoi sensi riuscivano a percepire.
Era lì pungente e beffardo costantemente a ricordarti dove eri e perché…
Storti il naso, non tentando nemmeno di alzare il braccio per coprirlo, tanto quel misto di detergenti, medicinali e antisettici aveva così impregnato quel posto che l’unico modo per cancellarlo sarebbe stato di raderlo al suolo.
 
Il silenzio altro non faceva che alternarsi a voci soffuse e a suoni acuti e regolari… sì, volevano davvero farlo impazzire…
 
Avresti voluto dormire ancora, o meglio, gli antidolorifici che ti davano più volte al giorno avevano lo scopo di aiutarti restare nel mondo dei sogni, ma quella malefica macchina che avevi vicino, troppo secondo il tuo modesto parere, continuava a emettere fastidiosi bip che sembrava volessero prenderti in giro.
Ti alzi leggermente, cercando di ignorare i lampi di dolore che arrivavano dritti al cervello, facendoti boccheggiare e vedere bianco.
Eppure, anche nel dolore non potevi fare altro che odiare quel luogo con tutto se stesso.
Quel luogo dalle stanze così silenziose e impersonali…
Quel luogo dove solo il silenzio e la solitudine dominavano in modo quasi prepotente…
Quel luogo pieno di personale fin troppo professionale e distaccato…
Quel luogo dove così poco potevi vedere le tue persone preziose…
Lo odiavi con tutte le tue poche energie… lo odiavi perché era così opposto rispetto a te…
 
Lui, che ancora quando chiude gli occhi, sogna di poter essere di nuovo se stesso… e forse anche, perché no, di fare una di quelle pazzie che da giovane lo avevano distinto nel gruppo di prescelti…
 
Ti muovi lentamente, cercando di uscire da quella montagna di coperte che avvolgono il tuo corpo, ora così fragile, in una stretta e pesante morsa.
Tenti con testardaggine di combattere i medicinali, il dolore, la stanchezza… combatti, anche se sai che è inutile, solo per uscire da quel letto… no, da quella prigione e spiegare ancora una volta le tue ali.
Ti manca Digiword, i campi di calcio, la tua casa negli States e la tua casa in Giappone… ti mancano le sue ali talmente tanto da non riuscire a respirare…
 
Bianco… accecante, artificiale e freddo…
 
I tuoi occhi si aprono lentamente, tentando di mettere a fuoco il mondo che ti circonda.
Ogni volta ti trovi a sperare che tutto quello che era successo fosse stato solo un brutto sogno, dovuto magari a una delle tante ricette salutistiche che tua mamma continuava testardamente a rifilarti negli anni.
Ti illudi solo per pochi secondi che nel momento in cui avresti aperto gli occhi ti saresti ritrovato nella tua bella e colorata camera… un’illusione che però viene velocemente divorata, senza lasciare nemmeno la speranza del dubbio, da quel luogo bianco.
Bianco… bianco ovunque…
Le pareti…
Le lenzuola…
Le tende…
Gli infissi e la porta…
I vestiti e i camici…
Perfino quelle dannate macchine che facevano per tutto il tempo quel bip insopportabile erano bianche…
Sospiri e abbassi lo sguardo, cercando colore e normalità e, forse più per abitudine che per altro, ti ritrovi a fissare distrattamente le tue mani mollemente appoggiate su quelle lenzuola immacolate.
Aggrotti la fronte contrariato, solo per un attimo te ne eri dimenticato, il tuo corpo, forte e abbronzato, era ormai solo un pallido ricordo di un passato che non tornerà più.
Senti la nausea salire prepotentemente, il bianco aveva ormai invaso anche la tua pelle, trasformandola e contorcendola in un involucro che non era più il tuo…
Magre e pallide sono ormai le tue membra ma, ironia del destino, il loro bianco è imperfetto.
Crepato in più punti, dove il passaggio delle vene è diventato così evidente da farlo sembrare rotto.
Macchiato di viola e nero, dove le ecchimosi del tuo stato si stanno mostrando sempre più evidenti.
Sporcato di grigio e giallo, perché il tuo corpo sta cedendo e tu non hai nemmeno il diritto di avere un bianco puro.
Lacerato da quegli aghi, quei tubi e quelle sonde, che nonostante tutto sono diventati la sola ragione per cui ancora respiri.
 
La nebbia ti avvolge togliendoti tutto quello che ti apparteneva e che davi per scontato…
 
Stringi le labbra, nel tentativo di trattenere un gemito di dolore, avevi tentato di metterti più comodo, ma ormai anche il più piccolo movimento ti è negato.
Sbatti le palpebre più e più volte, nello sforzo di concentrarti. La tua mente è pesante, confusa e appannata… ma poi forse è meglio così.
I farmaci, i cui dosaggi aumentano ogni giorno, non fanno altro che accrescere la nebbia che ha preso possesso di te e il tuo corpo, ora troppo debole, non riesce a tenere il passo né con la malattia né con la cura.
Ti guardi intorno in cerca di un punto di partenza, quanto avevi dormito? Era giorno o notte? Beh, non che a quel punto facesse molta differenza…
La tua testa è pesante, tanto che ormai avevi deciso di rinunciare a tenere gli occhi totalmente aperti. Non che avresti visto chiaramente comunque….
Sapevi che c’era luce nella stanza, ma se fosse naturale o artificiale non potevi dirlo… Dio quanto è dannatamente brillante quel posto…
 
Tenti di riappisolarti, sperando di trovare nel limbo dell’incoscienza un po’ di tregua a quell’inferno che è diventata la tua vita.
Un rumore, la porta si apre, se potresti farlo sbufferesti, perché è evidente che il destino c’è l’ha con te.
- buongiorno, Tai…- un’infermiera entra con malcelata titubanza nella stanza, riuscendo, se era possibile a renderla ancora più luminosa e fastidiosa.
 - mm…- avresti voluto rispondergli con qualcosa di diverso di un lamento appena sussurrato, ma in quel momento parlare non rientrava nelle tue capacità. Probabilmente colpa dei sedativi ancora presenti nell’organismo.
La donna sembrò comprendere e per qualche minuto rimase in silenzio mentre controllava quelle rumorose macchine che ormai erano una parte stabile di te… una parte di cui avresti fatto volentieri a meno.
- allora…- la voce della donna ti raggiunge infrangendo tua speranza di ritornare nel mondo dei sogni -… allora Tai…- apri leggermente gli occhi davanti sua insistenza, pensando che forse dandole retta se ne sarebbe andata via prima – come ti senti oggi?-.
Stringi con la poca forza che ti rimane le mani attorno alle lenzuola, desiderando di poter mandare quell’infermiera a quel paese. In quel momento non sai se ti da più sui nervi il sorriso triste e pieno di pietà che quella donna non cerca nemmeno di nascondere o la domanda totalmente idiota.
Chiudi gli occhi, facendole capire che sei veramente stanco, sperando che un po’ di quella pietà l’avrebbe usata come scusa per lasciarti solo.
 
La voglia di prendere a pugni qualcosa ritorna rapidamente. Odi sentirti così impotente e compatito. Lo odi perché tu non sei questo, non lo sei mai stato.
 
Tu sei il capitano della squadra su cui i compagni facevano riferimento…
Tu sei il leader del gruppo di prescelti più potente del mondo…
Tu sei forte e determinato…
Tu sei … eri… solo un ricordo che non tornerà più…
Chiudi gli occhi, veramente questa volta, desiderando che il sonno potesse salvarti dalla tua triste realtà.
Chiudi gli occhi, cercando di cancellare il mondo bianco che ti circonda e che non ti appartiene.
Chiudi gli occhi cercando di ignorare il dolore sordo che nasce nel tuo petto, quando, nell’uscire, quell’infermiera sussurrò a se stessa – poveretto… così giovane e non si può fare nulla-.
 
 
Un dolce calore avvolge la tua mano, lo stesso che non ti ha mai abbandonato dal momento in cui sei tornato a casa.
È un tocco semplice e gentile. Un tocco che hai tanto anelato per anni, solo per perderlo nel momento in cui l’avevi finalmente tutto per te.
 
Ricordi ancora quando, sceso dall’aereo che ti restituì dall’America, trovasti ad aspettarti due occhi castani, così brillanti e pieni di amore da sembrare quasi rossi.
Il suo sorriso dopo quel lungo viaggio, in cui realizzasti il sogno di diventare calciatore professionista, era tutto il bentornato che volevi ricevere.
Quel giorno all’età di 23 anni eri dannatamente felice, perché, sotto un cielo innevato di un freddo inverno, in una pista di atterraggio fin troppo illuminata, baciasti la ragazza di cui eri stato innamorato dall’età di sei anni.
Un momento di felicità che sfiorì solo un mese dopo in una di quelle classiche visite mediche annuali che come sportivo tante volte eri stato costretto a fare e che quasi mai avevi dato peso.
 
Senti quel tocco stringersi dolcemente intorno alle tue membra delicate e contuse. Lei che aveva sempre avuto una presa decisa, ora ti sfiora delicatamente per paura di farti del male.
In quei pochi gesti, così leggeri da portarti a chiederti se davvero lei è lì, puoi percepire tutti i suoi sentimenti: la sua tristezza, il suo dolore e infine il suo amore… E per questo non puoi fare altro che sentirti in colpa.
Apri gli occhi, seguendo l’irrefrenabile istinto di vederla e di averla accanto - Sora…- con voce roca chiami la giovane donna che in quel momento, come tanti in passato, ti sorride in quel modo semplice ed elegante che solo lei è in grado di fare.
-ciao amore, ben svegliato- stringe la presa attorno alla tua mano pallida, sentendosi sollevata dal solo fatto di vederti ancora cosciente – vuoi che chiamo il medico?- è bassa la sua voce ma melodiosa e piena di affetto, come quella di una madre che cerca di far tranquillizzare il figlio.
Scuoti il capo, sapendo di essere a malapena in grado di mettere insieme due parole. Cerchi di sorriderle, ma fra i tubicini di plastica e la pelle del viso rovinata non deve esserle apparso come un bello spettacolo.
Sora comprende e con grazia si siede sul bordo del letto. Non parla molto, non lo fa mai quando viene a trovarti. Ma per voi, che vi siete sempre capiti con lo sguardo, le parole non contano.
A differenza dei tuoi amici o della tua famiglia lei usa solo poche e semplici frasi, preferendo trasmettere tutti i suoi sentimenti in piccoli gesti caldi. Anche se non hai mai detto nulla, lei ha capito quanta fatica ti costa fare parte di una semplice conversazione.
Sorridi, è inutile, non sei mai riuscito a nasconderle nulla.
 
-sono qui Tai e ci rimarrò finché i medici non mi butteranno fuori – sorride tristemente mentre passa una mano, coperta da una sottile guanto di lattice, tra i tuoi capelli, ora più corti anche se sempre indisciplinati – riposati, dopo verranno a trovarti Kari e gli altri prescelti- le loro visite sono diventate ormai giornaliere e tu, nonostante le loro mille scuse, te ne sei accorto. D’altronde era impossibile non notare i continui permessi dal lavoro, le lezioni universitarie saltate, gli appuntamenti con amici e fidanzati rimandati e soprattutto le ricorrenti e assidue comunicazioni che intercorrevano giornalmente tra l’ospedale e la tua famiglia.
Il tempo a tua disposizione stava finendo, ma nessuno aveva il coraggio di dirtelo ad alta voce.
 
Esattamente come allora… quando il tuo incubo era cominciato…
 
Ricordi ancora fin troppo bene quel giorno, quando dopo il solito allenamento con la squadra, eri stato convocato dall’allenatore.
Sospettavi di cosa volesse parlarti e non eri preoccupato. Ultimamente ti sentivi più stanco e la tua performance ne aveva inevitabilmente risentito, però l’avevi ingenuamente catalogato come una normale conseguenza del ritorno in patria dopo tre anni passati all’estero.
Ovviamente non avevi capito nulla…
Non dimenticherai mai lo sguardo del tuo allenatore, mentre ti diceva che dovevi tornare in ospedale a fare dei controlli d’urgenza. Lui sapeva ma non voleva dirtelo.
 
Stando in silenzio mi aveva mentito…
 
Ti aveva ferito il modo in cui, quell’uomo che tanto avevi rispettato, in quel momento ti guardava: il suo disgusto era talmente tanto evidente, che avevi solo voglia di uscire da quella stanza.
 
Il sapore amaro del tradimento e il doloroso vuoto dell’abbandono… solo questo quello sguardo mi ha lasciato…
 
Si era ritratto, il tuo mister, quando eri entrato nel suo ufficio, rigido come se attendesse qualcosa di pericoloso, il tutto senza nemmeno preoccuparsi di nasconderlo.
All’inizio lo avevi ignorato, non capivi il motivo di questo suo improvviso comportamento, era sempre stato gentile con te, affettuoso in certe circostanze, mentre ora sembra quasi non ti volesse sbattere fuori.
Anche quando tendesti la tua mano per salutarlo tutto quello che ottenesti fu solo un puro sguardo d’odio.
 
Era solo un uomo ignorante… purtroppo uno dei tanti che nella vita ho dovuto affrontare…
 
Nei successivi giorni gli allenamenti furono inevitabilmente sostituiti da visite e controlli ospedalieri.
I verdi campi di calcio abbandonati in un’obbligatoria alternativa di bianche e sterili sale mediche.
I dottori andavano e venivano, domandavano e prelevavano, si cimentavano a sostenere conversazioni vuote condite di falsi convenevoli e sbrigativi sorrisi, ma, in quei primi giorni, mai una volta che risposero alle tue domande.
 
“Che cosa ho?”
“ non ti preoccupare, ragazzo, va tutto bene!”
Perché allora quel sorriso era falso?
 
“Perché sono qui?”
“sono solo controlli… sai per stare più sicuri…”
Perché dici parole in cui non ci credi nemmeno?
 
 
“” Devo tornare anche domani?””
“”è necessario… mi dispiace””
Parole… solo parole false
 
 
 
La porta si aprì e due figure, avvolte in camici di carta e guanti di plastica, si fanno avanti lente, quasi titubanti.
Sora sorride e si alza dal letto. È triste il suo turno è finito e, anche se non vorrebbe, deve uscire da lì.
Solo due alla volta.
Ecco cosa hanno detto i medici ai tuoi famigliari e ai tuoi amici.
Solo due alla volta e per pochi minuti. Il paziente non deve stancarsi.
Come si vede che quelle persone plurilaureate non ti conoscono… non vi conoscono. Non sanno che per vivere avete il bisogno disperato l’uno dell’altro.
Non sanno cosa ha passato il vostro gruppo negli anni di Digiword.
Non sanno che solo uniti siete più forti.
Non sanno… loro non sanno.
Vedono solo un caso medico e dei dati clinici, non vedono la persona, l’essere umano che c’è dietro.
No, non lo vedono, perché se lo facessero non potrebbero sopravvivere al peso di un lavoro dove la vita di una persona dipende da una decisione di un’altra.
Solo due alla volta… e mi raccomando indossate questi. Il paziente non deve entrare in contatto con i germi esterni.
È difficile spiegare la sgradevole sensazione che ti assale, ogni volta che vedi entrare da quella porta, una delle tue persone preziose avvolte in strati di plastica e con addosso un pesante odore di disinfettante.
È come un pugno nello stomaco, la cui unica funzione è quella di ricordarti che il tuo tempo sta per scadere e che quei pochi minuti preziosi circondati da camici di plastica sono tutto quello che ti resta.
 
Cerchi di sorridere, quando tua madre lotta per rimboccarti le coperte, lamentandosi che non sono abbastanza confortevoli per il suo bambino.
La guardi in volto tentando di ignorare le evidenti occhiaie nate dalle lunghe notti insonni, in cui quella donna piange per la vita del suo unico figlio maschio.
Il peso sul letto si sposta e una figura esile prende il posto che fino a poco prima era occupato da Sora – mamma… smettila di torturare il letto- una frase detta in un tentativo di cambiare la fredda e impersonale atmosfera di quella stanza – fratellone diglielo anche tu che se non la smette ci butteranno fuori- eppure il triste sorriso sul volto, ancora fanciullesco,­ della tua adorata sorellina ha il potere di rendere ai tuoi occhi quel tentativo vano.
Ti stringe la mano e tu di nuovo ti trovi a desiderare di riavere indietro la tua forza per ricambiare quella presa.
Lei parla e sorride come se nulla al mondo potesse turbarvi, come se tutto andasse bene e tu l’ascolti pazientemente cercando di nascondere la frustrazione che senti nascere dalla tua incapacità di tempestarla di domande come facevi un tempo.
Vorresti chiederle come vanno le cose con Tk o almeno avere ancora la possibilità di minacciare scherzosamente quel caro ragazzo se non tratta la tua sorellina come la principessa che è.
Vorresti sapere come vanno i suoi studi e se si sta impegnando per realizzare i suoi sogni futuri, anche se tu alla fine non sarai accanto a lei a sostenerla a gran voce.
Vorresti che ti parlasse delle sue missioni nel mondo digitale, vorresti chiederle di agumon, di Gennai e di tutti i vostri amici di quel mondo parallelo.­
Vorresti… ma la voce è un lusso di cui sei stato privato da un male che lentamente ti sta divorando dall’interno un poco alla volta.
Tua madre partecipa in quella conversazione che altrimenti sarebbe a senso unico, mentre, con cura e attenzione, sposta e sistema i pochi oggetti presenti nella stanza, esattamente come farebbe se fosse a casa.
 
Casa… quella sensazione di calore e affetto che ha il potere di rendere anche la più ruvida caverna di Digiword il luogo perfetto.
 
 
Tuo padre era accanto a te, seduto su una scomoda sedia di plastica, quando il tuo mondo di dubbi, incertezze e speranze finì.
Anche se ormai eri diventato un adulto agli occhi della società, quel giorno lui ti aveva imposto la sua presenza e in quel momento gliene eri stato silenziosamente grato, perché altrimenti davanti alle fredde parole del medico non sapevi come avresti fatto.
 
Aids…
 
Eri sprofondato sulla sedia privo di forze sentendo a malapena qualunque altra parola.
 
Sta avanzando velocemente…
 
Avevi appoggiato la testa fra le mani, cercando di digerire una notizia che per te in quel momento era surreale.
Perché proprio ora?
 
La vostra famiglia ha un difetto genetico… non mi perderò in termini medici…  ma il vostro sangue è, per così dire, debole davanti a questo tipo di malattie, portandole più velocemente alla loro diffusione….
 
Immagini di te da piccolo, in una stanza di quello stesso ospedale, a guardare la tua sorellina lottare per la vita, emersero prepotentemente a quelle parole.
Eppure al contrario di Kari, già sapevi che non avevi la possibilità di vincere contro una malattia che ti aveva sconfitto senza nemmeno darti la possibilità di combatterla.
Nel momento in cui saresti entrato in una di quelle impersonali stanze bianche eri già consapevole che non ci saresti più riuscito.
 
Devo farvi qualche domanda…
 
Umiliante per non dire altro.
Quelle che fosti costretto a sentire per la successiva ora non erano domande ma delle accuse belle e buone.
Una piccola e disperata risata isterica interruppe quelle dolorose parole mascherate dietro a frasi professionali e termini medici. Forse quell’uomo che con quello sguardo di superiorità ti guardava dall’alto in basso, plurilaureato e completamente ignorante, faceva prima a essere sincero e chiederti direttamente se eri frocio, puttana, drogato o perché no, tutti e tre.
Non ricordi altro di quella visita, solo che stufo di tutto ti eri alzato da quella sedia di plastica ed eri uscito malamente dalla stanza.
Non ti eri fermano nemmeno a prendere la giacca, lasciando che il tuo corpo si muovesse in automatico più lontano possibile da quelle pareti così innaturalmente bianche, che già allora avevano il potere di toglierti il respiro.
- ragazzo mio!- eri già arrivato al parcheggio dell’ospedale quando tuo padre, affannato per la corsa, era finalmente riuscito a raggiungerti – sono qui- preoccupato come solo una volta lo avevi visto, quell’uomo ai tuoi occhi sempre stato grande e forte, ti aveva stretto in un caldo abbraccio.
Nessuna domanda, anche se, probabilmente dentro di lui ne aveva tante, solo il sostegno che in quel momento avevi bisogno e il conforto che solo un genitore sa dare.
 
Qualunque cosa accada l’affronteremo insieme…
 
Non entrava quasi mai tuo padre nella tua stanza o almeno non lo faceva quando eri sveglio. Tante volte l’hai trovato accanto al tuo letto con la testa bassa e gli occhi pieni scuse che, hai sempre saputo, lui non meritava di proferire.
Si sentiva in colpa è per questo passava intere ore accanto alla tua forma dormiente, scappando nel momento stesso in cui aprivi gli occhi… occhi così uguali ai suoi che dall’istante in cui aveva saputo la verità non riusciva più a guardare.
 
Non mi hai mai mentito, sei solo un essere umano che desidera starmi accanto ma che pensa di non meritarlo…
 
Passasti mesi a chiederti come diavolo avevi fatto a contrarre quella malattia così crudele che ti stava già divorando. Mesi trascorsi nella negazione, nella speranza e poi, davanti ai primi sintomi, in un’arrendevole accettazione.
Tante volte avevi pensato agli anni passati cercando nei ricordi la risposta al quel nuovo tormento che stava distruggendo la vita sia a te che la tua famiglia.
Giorni e notti in cui le domande si susseguivano senza sosta, finché un giorno, poco prima del tuo primo vero ricovero in ospedale, la risposta ti arrivò sotto forma di una lettera dall’America.
Una lettera di una mano amica che, innocentemente, voleva solo tenerti ancora partecipe della vita che avevi lasciato per tornare a casa dalle persone che amavi.
E fu allora, tra le varie storie di ragazzi che quelle poche pagine raccontavano con semplicità, che avevi trovato la tua verità che stavi cercando… non che in quel momento potesse ormai fare tanto la differenza.
Un nome…
Abbinato a sintomi specifici…
E tutto fu chiaro.
Non eri mai andato con nessun’altra dopo essere partito per gli Stati Uniti, il tuo cuore era di Sora, anche se lei allora non lo aveva ancora reclamato.
Nessuna era come lei, nessuna poteva eguagliarla, nessuna poteva far sussultare la tua anima solo con uno sguardo… per te era sempre esistita solo Lei.
Mai una volta avevi guardato un’altra ragazza, cercando qualcosa di diverso da un’amica, mai una volta, fino a quella sera di due anni prima.
Non che tu ricordi molto in realtà. C’erano troppo alcool e troppe persone in quella casa non tua in cui la musica vibrava troppo alta… e tu, per la prima volta dai tempi di Digiword, ti sentivi solo.
Chissà, forse a ripensarci si sentiva sola anche lei. Due anime lontane da casa, che per una sera, spinte dagli accoglienti toni dell’alcool, avevano cercato calore reciproco.
Non vi amavate, nemmeno vi conoscevate, quasi mai vi sareste rivisti nei mesi seguenti, eppure senza saperlo eravate entrambi condannati allo stesso triste destino. Un destino che nessuno dei due si era cercato, ma che allo stesso modo era stato colpito.
 
Mesi dopo mi hai scritto, straniera della festa, per avvertirmi e implorare il mio perdono. Non te lo diedi, perché infondo non c’era alcun bisogno, avevi solo fatto il mio stesso errore, cercando il conforto, prima di me, nelle braccia dell’uomo sbagliato.
 
Non era colpa sua… non era colpa di nessuno. Eravate solo due ragazzi giovani, forse un po’ inesperti, che avevano fatto un errore.
 
- non è colpa di nessuno- furono queste le tue parole, quando spiegasti alla tua famiglia quello che era accaduto – siamo stati stupidi, questo sì…- parlavi a testa alta, con disinvoltura, volevi affrontarla questa malattia -… ma non è colpa di nessuno- affrontarla lasciando il passato alle spalle, perché il presente era poco e volevi goderlo al massimo.
Forse anche quella volta era ingenuo da parte tua credere che tutti avrebbero capito.
 
Il fatto che tu non voglia accusare nessuno, non vuol dire che io non accusi me stesso…
 
È mattina, il sole deve essere sorto da un’ora al massimo. Lo sai per certo perché è quella l’ora in cui tuo padre viene a trovarti tutti i giorni.
Viene presto, prima di andare al lavoro. Si siede accanto a te, in rigoroso silenzio e prega.
Non dice nulla ad alta voce, ma sai che sta pregando con tutte le sue forze chiedendo che un miracolo accada.
Ogni mattina, viene presto, si siede senza mai svegliati e prega. Tutti i giorni, nonostante quello non sia nemmeno l’orario di visita.
Ogni volta ti svegli non appena senti la sua presenza, un vecchio istinto rimasto dai tempi di Digiword, eppure quasi sempre rimani fermo fingendo di essere ancora nel mondo dei sogni.
Lo fai per lui, perché sai che si da la colpa per averti quasi messo su quell’aereo.
Non riesce a guardarti, non senza pensare come per anni ti abbia spronato a seguire lo stesso sogno che anche lui aveva da bambino, il sogno che hai seguito e che ti ha bloccato in un letto di ospedale.
È irrazionale e stupido. Tu lo sai, lo sa tua madre e probabilmente in fondo lo sa anche lui.
Apri gli occhi lentamente, sei stanco e dormire ancora un altro po’ non ti dispiacerebbe, ma questo comportamento dove finire al più presto. Il tuo tempo è agli sgoccioli e l’ultima cosa che vuoi è che una delle persone che ami sia consumata da un senso di colpa inutile.
Sposti il braccio verso la sua figura immobile, muovendoti con cura in quella trappola di flebo e aghi in cui è rinchiuso il tuo corpo.
-papà…- un sussurro leggero, una parola solo accennata da una mente stanca che piano piano si sta spegnendo.
-figliolo…- lui scatta in piedi avvicinandosi immediatamente il più possibile a te. Ti vuole bene, anche se il senso di colpa gli impedisce di starti accanto come vorrebbe.
-papà…- tenti di appoggiare la tua mano sulla sua – ascoltami…- lo vedi ritrarsi, evitare il contatto visivo e, infine, trattenere le lacrime. Vuole andarsene e tu lo sai, non riesce a vederti in quelle condizioni, non riesce ad accettare che presto dovrà seppellire il proprio figlio.
 
Un figlio non dovrebbe mai morire prima di un genitore… è ingiusto e sbagliato… e per un padre è il più grande dolore che possa esistere.
 
-papà…-con tutte le forze che ti rimangono allunghi il braccio quanto basta per toccare il suo. È un contatto totalmente privo di forza ma sufficiente a bloccare ogni movimento di quell’uomo che tanto hai imparato a rispettare -… papà- lo chiami ancora, ottenendo un contatto visivo, forse solo il fatto di vederti agire per la prima volta da settimane lo sta facendo sperare -… ho amato tanto il calcio…- la vista ti si sta annebbiando per via dello sforzo, ma nonostante questo riesci comunque a vedere la sua espressione sorpresa e al contempo inorridita - … grazie per tutto…- l’aria ti manca, il tuo limite è quasi raggiunto, ormai sai che è solo una questione di giorni prima che t’infilino uno scomodo tubo di plastica in gola - … per il sostegno, per la pazienza e…- molli la presa e il tuo braccio si accascia, le tue poche energie hanno raggiunto la fine – …per l’America-.
Tuo padre di vede chiudere gli occhi e, anche se hai potuto digli poco, lui ha capito.
Piange orgoglioso di suo figlio, della sua maturità e della sua forza.
Piange per il figlio che nonostante sia in fin di vita ancora si preoccupa per le persone che ama.
Piange per il figlio che non potrà mai vedere sposarsi e farsi una famiglia.
Piange mentre estrare il cellulare per dire che oggi non andrà al lavoro.
Piange mentre capisce quanto stupido è stato a perdere gli ultimi mesi a nascondersi, quando tutto quello che voleva suo figlio era averlo accanto per il tempo che gli restava.
Si siede di nuovo tenendo stretta la mano del suo bambino, ricordando con amara ironia come, in quello stesso ospedale, tanti anni prima lo aveva tenuto in braccio stringendo delicatamente la piccola manina tra le sue.
 
Quando sei nato, ho preso la tua piccola mano tra le mie e tu hai stretto con tutta la tua forza…
Ora che tu non puoi più stringere sarò io a tenerti la mano e non la mollerò fino al giorno in cui diverrà fredda e insensibile… o forse, nemmeno allora…
 
I giorni passano in una sfuocatura dolorosa. Le possibilità si riducono e le speranze si spengono.
In quel mare di bianco, che ormai maledice ogni tuo fugace risveglio, vedi l’alternarsi delle persone che ami e che fino alla fine ti sono state accanto.
Non sai esattamente in che momento è successo o chi era con te quando hai chiuso gli occhi per l’ultima volta.
Non sai se era l’alba o il tramonto…
Non sai se eri solo in quel bianco privo di vita o se eri avvolto dal calore delle tue persone preziose…
Non sai nemmeno quanti giorni erano davvero passati dal ricovero… ma infondo pensi che non ha nessuna importanza.
Hai vissuto una vita felice, forse un po’ piena di emozioni, ma veramente felice.
Hai una madre apprensiva, maniaca dell’ordine e totalmente incapace di cucinare qualcosa di commestibile, ma che ami alla follia, perché è la donna più dolce che sulla terra possa esistere.
Hai un padre iperprotettivo che per te ha preso a pugni un medico plurilaureato e che mai una volta nella tua vita è venuto meno al suo ruolo di padre.
Se tu fossi diventato un giorno genitore avresti tanto voluto essere come loro…
Hai Kari, la tua piccola è angelica sorellina, che nasconde dentro di se una personalità maliziosa e forte… troppe sono state le volte in cui sei caduto preda del suo lato sadico.
Hai un gruppo di amici fastidiosi e appiccicosi, che insieme a te hanno vissuto l’inferno andata e ritorno e hanno mantenuto la loro sanità mentale… più o meno.
Sono sempre stati la tua forza e, anche se non gliel’hai mai detto, sei sicuro che lo ne siano a conoscenza… perché senza ognuno di loro non saresti stato la metà della persona che sei diventato.
Hai un digimon pazzo, sempre allegro e ingenuo come un bimbo, ma che adori perché per te e come il secondo fratellino che non hai mai avuto.
E poi hai lei, Sora, la donna che hai amato dal primo momento in cui ti se specchiato nei suoi occhi color rubino e lei allora… ti ha tirato una pallonata in testa… ma se non era un colpo di fulmine quello allora non sai come definirlo.
La donna che soffrirà terribilmente per te, ma che sai che davanti agli altri mostrerà il suo lato forte, piangendo solo nel momento in cui sarà nell’oscurità privata della sua stanza.
Li ami tutti, in modi diversi, e ti mancheranno in ugual modo, l’unica cosa che puoi fare è pregare che loro avranno una vita lunga e felice, anche se non sarei lì per vederla.
 
Non rimpiango le mie scelte e non rimpiango la mia vita…
Se mi fosse data la possibilità di riviverla, ripercorrerei lo stesso percorso più e più volte.
Questa è la vita che ho scelto, che ho amato e che, anche se per poco, l’ho goduta appieno… una vita così piena di amore che potrebbe bastarmi per l’eternità…
 
 
Fine…
 
 
Spero che la storia sia stata di vostro gradimento^^
A presto^^
Lau2888
 
 
 
  
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