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Autore: dilpa93    08/05/2014    12 recensioni
“Non è necessario essere una stanza o una casa per essere stregata. Il cervello ha corridoi che vanno oltre gli spazi materiali.”
Emily Dickinson
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alexis Castle, Kate Beckett, Martha Rodgers, Richard Castle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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“Non è necessario essere una stanza o una casa per essere stregata. Il cervello ha corridoi che vanno oltre gli spazi materiali.”
Emily Dickinson



 
Apre gli occhi lentamente. Sente le palpebre appesantite, è spossato. Fatica a respirare, l’aria non riesce né ad uscire né tanto meno ad entrare. Non ha il controllo del proprio corpo, gambe e braccia paiono non voler dar retta ai suoi comandi. Tutto attorno a lui è sfocato, ma capisce di non trovarsi nella sua camera da letto. Sa che Kate non è al suo fianco, non riesce a sentire il suo respiro cadenzato tipico di quando è addormentata. Muove lentamente la mano, quanto gli è possibile. Sul braccio un ago affonda nella pelle, in profondità. Non sente nulla, dolore, fastidio, solo una terribile sensazione di soffocamento.
Raggiunge il viso, le dita sfiorano la plastica di quel tubo inserito nella sua gola. Improvvisamente intorno a lui figure estranee cercano di fermarlo, qualcuno gli intima di calmarsi, di non agitarsi, fino a che davanti ai suoi occhi ancora una volta il buio e finalmente, in un respiro profondo, l’ossigeno riprende a circolare.
Quando si risveglia, il bianco delle pareti riflette con prepotenza la luce del sole, il bruciore agli occhi è quasi insopportabile. Quella che riconosce essere la stanza di un ospedale è abbastanza spoglia. Sul comodino al suo fianco, che riesce ad intravedere solo con la coda dell’occhio, un mazzo di fiori.
Torna a guardare fisso davanti a sé, le tempie gli pulsano. Non riesce a ricordare cosa deve essere successo. Il suo ultimo ricordo è il salone, lui e Kate sul divano ed ora di lei non c’è nemmeno l’ombra. Se le fosse successo qualcosa e lui invece fosse sano e salvo non se lo perdonerebbe mai. Il cuore accelera non riuscendo a ripescare nei suoi ricordi quello che presumibilmente sia successo il giorno prima. Non sa se gli abbiano sparato, se lo abbiano colpito alla testa o picchiato fino a fargli perdere i sensi. Non sa se sia stato durante la risoluzione di un caso, o se sia accaduto mentre tornava a casa di sera dopo la spesa mentre, a piedi, percorreva quella scorciatoia che più volte Kate gli aveva pregato di non fare, in quanto situata in una zona pericolosa e poco raccomandabile. La porta della stanza si spalanca, il medico quasi si confonde  a causa del camice bianco, come intenzionato a mimetizzarsi con le pareti della camera. Osserva per una manciata di secondi la cartellina che tiene tra le mani, facendola poi scivolare lungo il corpo seguita dal braccio la cui mano la tiene saldamente.
“Sono il dottor Stewart. Come si sente?”
“Un po’ stordito...” Cerca di fare leva sulle braccia per mettersi seduto, ma inutilmente. Il suo corpo ancora non è deciso ad assecondarlo. “Debole... Ho sete. Molta sete se devo essere sincero.”
“Le farò portare dell’acqua al più presto. Adesso dovrò farle qualche domanda e poi procederemo con gli esami. Verificheremo che i suoi valori siano tutti nella norma e controlleremo le funzioni cerebrali.” Si accerta che la flebo apporti il giusto afflusso di soluzione nel suo corpo, picchiettando un paio di volte sul sottile tubicino trasparente verificando lo scorrimento del liquido.
“Certo, va bene”, replica confuso, non riuscendo ancora a capire a cosa siano dovuti tutti quegli esami. “Posso farle io una domanda?” Il medico lo sprona a procedere annuendo semplicemente. “Ecco, mi chiedevo se sapesse...” la porta si apre nuovamente impedendogli di portare a termine la frase, di chiedergli se sa dove possa essere Kate, se è arrivata con lui, se l’ha mai vista o anche solo sentita nominare, se avessero chiamato dal distretto o fossero stati lì.
La madre e la figlia irrompono ancora prima di ricevere il permesso. Martha si precipita da lui, senza remore, carezzandogli il viso che finalmente ha assunto un po’ di colore. Alexis guarda il medico, compiendo titubante gli ormai pochi passi che la separano da suo padre. Rick la guarda e non può credere ai suoi occhi. I lineamenti del suo viso sono morbidi, quelli della ragazzina che era un tempo e non certo della donna che solo da poco, almeno per come ricordava, è tornata a vivere sotto il suo stesso tetto. Lo zaino le pesa sulle spalle. Non lo aveva più usato da qualche settimana dopo il suo inizio di collaborazione al distretto, almeno questo è quello che lui ricorda e crede sia accaduto. Continua ad osservarla perplesso, mentre sua madre gli scosta i capelli dalla fronte domandandogli in un sussurro come si senta. Anche lei pare più giovane, meno rughe le contornano gli occhi e gli angoli della bocca.
“Oh Richard, caro, come stai?” La voce di Martha è insistente e piena di ansia e angoscia.
“Abbastanza bene... credo.”
“Scusate, ma ho bisogno di fargli alcune domande. Voi potete restare, ma è importante fargliele ora e che sia lui a rispondere.”
Le rosse annuiscono, Alexis intimidita tiene la mano di suo padre nella sua, attenta a non tirare accidentalmente il tubo della flebo.
“Signor Castle, sa dove si trova?”
“È proprio necessario tutto questo?”
“Purtroppo si, è estremamente necessario.”
“D’accordo... ehm, sono in ospedale, non ho idea di quale però. Ma da quel poco che posso vedere fuori dalla finestra direi che è il Presbyterian.”
“Bene. Sa in che giorno siamo?”
“Io temo... temo di no. Fino a poco fa era convinto di essere...” si blocca improvvisamente notando il turbamento negli occhi cristallini di sua figlia. “Non importa”, bisbiglia appena, in quel sussurro appena udibile. Poi, sconsolato, cede alla realtà dei fatti, a ciò che vede con i suoi occhi. “Credo nel duemilanove, forse duemiladieci. Non saprei dirle il giorno.”
“Ricorda cosa le è successo?”
“Vuoto, vuoto assoluto.” Mormora deluso. Il disappunto è ben visibile sul suo viso, la sua impazienza nel voler sapere e porre domande si nota facilmente nel modo in cui la mano sinistra stringe il lenzuolo.
“Ha avuto un incidente. Al suo arrivo qui la situazione era piuttosto grave. Lussazione alla spalla destra, braccio e gamba sinistra rotti, un polmone parzialmente collassato, tre...” sfoglia la cartella e si ricompone, “Mi correggo, quattro costole rotte, la clavicola destra fratturata e trauma cranico.” Sente la presa delle dita di Alexis farsi sempre più stretta. Ancora non è in grado di capire. La sua gamba non è ingessata, le costole non gli dolgono, riesce a respirare senza provare dolore allo sterno, la spalla, pur muovendola a stento e a fatica, sembra essere a posto e le clavicole, da quello che ha potuto sentire prima, sono intatte.
Lentamente si fa largo in lui la sola spiegazione plausibile, l’unica che potrebbe spiegare i suoi ricordi confusi, risalenti ad una vita che sembra non aver mai vissuto. “Quanto tempo sono stato qui? Il coma quanto... quanto è durato?”
“Quasi dodici mesi signor Castle. È arrivato qui il... nove marzo duemilanove.”
“La sera della presentazione di Derrick Storm.”
“Lo ricordi?” Domanda concitata la figlia. I suoi occhi si illuminano come di speranza, rendendo ancor più chiare le ridi di ghiaccio.
“In un certo senso.”
“Ci stavamo andando... io e te. Paula aveva insistito nel volere che una macchina passasse a prenderci. È arrivata verso le otto. L’autista ti aveva chiesto di autografargli il libro prima di partire.” Sorride al ricordo, notando invece lo sconcerto sul volto di suo padre. “Eravamo in ritardo, c’era traffico. Gina continuava a chiamare, così hai spento il telefono. Ci stavamo divertendo, parlavamo... il semaforo rosso ci ha fermati a qualche isolato dal locale. Scattato il verde siamo ripartiti immediatamente ed è stato allora che abbiamo visto una macchina spuntare all'improvviso e venirci addosso. Ti sei buttato su di me, hai cercato di proteggermi. Tu... tu mi hai fatto da scudo papà. Saresti potuto morire.”
Le lacrime scendono. È ancora la paura di quella notte a riscuoterla, è la gioia di vederlo di nuovo sveglio a farla sorridere nel pianto.
“Tu come stai? Ti sei fatta male? Fatti vedere...” la obbliga a piroettare su se stessa, assicurandosi che non abbia nulla che non vada e poi la stringe, sentendola posare la testa sul suo petto e, sebbene un po’ dolorante, non dice nulla.
“Adesso se non vi spiace vi pregherei di uscire. Devo visitarlo.” Il momento al lungo aspettato da quella ragazzina di quindici anni, che aveva visto svanire lentamente, giorno dopo giorno, mese dopo mese, davanti ai suoi occhi la sola figura di riferimento stabile che aveva mai avuto nella sua vita, viene bruscamente interrotto dalla voce calma e inespressiva del solo altro uomo presente nella stanza.
“Andiamo tesoro, lo rivedremo tra poco.” Martha la sospinge verso l’uscita, non prima che con le labbra, in un sussurro, esprima a suo figlio la felicità di riaverlo tra loro.
“Adesso verrà un’infermiera a portarla a fare gli esami. Il suo corpo sembra essersi ripreso completamente. Avrà bisogno di fare riabilitazione per rinvigorire il tono muscolare e ci vorrà un po’ prima di tornare a camminare come faceva prima. Ma in questo momento le condizioni neurologiche sono di primaria importanza. Tuttavia, prima di lasciarla andare... mentre parlava, poco fa, mi è sembrato di capire che ci fosse qualcosa che volesse dire, se vuole parlarne, se ha qualche domanda da fare oppure bisogno di qualche minuto per riprendersi e assimilare le informazioni...”
Si sofferma a guardare fuori dalla piccola finestra. Il paesaggio non l’ha mai dimenticato, gli sembra di non aver mai smesso un attimo di averlo davanti agli occhi. Fatica a credere di aver davvero dormito così a lungo, di non aver avuto il sentore che ciò che stava vivendo non fosse reale.
“Io... è come se avessi vissuto tutta una vita e adesso fosse svanita nel nulla. Ricordo ogni cosa, ogni dettaglio, ogni volto delle persone che ho conosciuto.” Istintivamente il suo pensiero va a Kate. La donna che ha conosciuto, amato, protetto, forse neanche esiste. Non riesce a pensare di aver passato insieme a lei mille avventure e che ora queste non ci siano più se non nei suoi ricordi, o meglio, nella sua fantasia. Come se fosse stato vittima di uno scherzo. Lei non è reale, nulla di ciò che ricorda lo è stato, eppure gli manca, terribilmente. Si sente vuoto, come se fosse tornata a mancare quella parte di sé che aveva ritrovato proprio grazie a Kate. Cinque anni vissuti in dodici mesi, come un battito di ciglia nel corso dell’intera vita. Vorrebbe solo non essersi svegliato, non essere riuscito a fuggire da quella fortezza opera del suo inconscio. I sogni sono il frutto di desideri repressi, paure rimosse, spinte libidiche. Tutto questo aveva compresso la sua psiche a tal punto da dar vita ad un mondo fatto di pericoli, sfide, gioie così eccitanti ed in qual modo appaganti, che gli hanno impedito a lungo di riprendersi da quel coma che pareva ormai irreversibile. Gli hanno impedito di lasciare un mondo dove, in determinate occasioni, era stato in grado di compiere gesta eroiche, atti spericolati ed irresponsabili, azioni che, pensandoci ora, forse non avrebbe mai avuto il fegato di compiere, perché stentava a credere di avere quel coraggio.
“Se vuole potrei metterla in contatto con lo psicologo che collabora con l’ospedale, forse parlarne, sentire un’opinione esterna. Addirittura parlare con i suoi familiari potrebbe aiutarla ad affrontare la cosa.”
“No. Non è di parlare che ho bisogno, ma di risposte. Come faccio a sapere che questa è la realtà, come faccio a fidarmi di ciò che accadrà d’ora in avanti? So che potrà sembrarle assurdo ma, in quella che a me sembrava la mia vita, avevo costruito dei legami importanti e sapere che era solo finzione, probabilmente frutto del mio inconscio... mi è difficile accettarlo e credere di potermi fidare di nuovo di qualcuno, è difficile dire addio alle persone che amavo.”
“Io non ho idea di come darle prova che sia questa la realtà e so che le sembra che il suo istinto l’abbia tradita, ma dovrà provare ad aver di nuovo fiducia. Vede, lei si è legato a delle persone credendo che fossero reali come lo siamo io e lei in questo momento. Non impedisca a se stesso di avere nuovi affetti, di innamorarsi. Se questa è la realtà avrà fatto bene ad andare avanti, sarà riuscito a costruirsi una vita nonostante tutto quello che ha passato, non avrà sprecato la sola vita che ci è concessa. Se invece si rivelasse finzione, beh, cerchi il lato positivo, lei tornerà dalle persone che ha amato e le amerà di nuovo. So che non è un granché come garanzia, forse mi manderà al diavolo, ma ci pensi. Lavorando qui vedo un sacco di gente che vorrebbe poter avere più tempo da vivere, lei ha avuto due vite. Una è stata incompleta, e non so cosa possa volere dire, ma cerchi di vivere al meglio la seconda. Lo faccia per queste persone a cui la vita sta voltando le spalle. Viva e recuperi l’anno in cui è stato bloccato qui. Anche sua madre e sua figlia l’hanno persa per tanto tempo, recuperi il rapporto con loro. Si fidi di loro.” Aprendo la porta il chiacchiericcio proveniente dal corridoio entra come un turbine nella stanza, investendo Rick steso in quel letto da settimane.
“Dottor Stewart... grazie.”
Un semplice sorriso illumina il volto del medico, reso solitamente più cupo dagli occhi scuri e dai capelli sale e pepe che probabilmente lo fanno apparire più vecchio di quanto non sia.
L’infermiera, fermatasi sulla porta in attesa dell’uscita del dottor Stewart, gli si avvicina togliendo i fermi del lettino. Sembra non faccia particolarmente fatica a spingerlo per i corridoi gremiti di medici, infermieri e pazienti in attesa di essere visitati o che gli venga assegnata una camera. Intravede le figure di Martha e Alexis nella sala d’attesa. Sua figlia è al telefono, probabilmente cercando inutilmente di rintracciare sua madre, o sprecando il suo tempo chiamando la casa editrice, sperando che le passino Gina senza fare storie. In cuor suo sa già che la sua ex moglie sarà più preoccupata per le sorti che il suo risveglio avrà sugli incassi e le vendite dei romanzi, piuttosto che per la sua salute.
 
I giorni trascorrono lenti tra quelle mura, soprattutto ora che è sveglio e ha la completa consapevolezza del passare delle ore. Ancora si interroga su cosa abbia scatenato il suo risveglio, sul perché il suo corpo abbia deciso di riprendersi in quel momento. A volte è tentato di parlarne con sua madre. Più di una volta ha aperto bocca, in quelle mattine che passa a trovarlo, senza riuscire però a farne uscire alcun suono e resta ad ascoltare ciò che lei ha da dire. È lieto di scoprire che c’è ancora l’arte nei suoi pensieri ed è così strano per lui non chiederle come proceda la scuola di teatro, che a volte fatica a trattenersi. Martha cerca di distrarlo, gli tiene la mente occupata spronandolo ad aiutarla a finire quel cruciverba iniziato ormai da una settimana o leggendogli riviste di cui farebbe volentieri a meno. Moda, gossip... specialmente nei confronti di quest’ultimo ha perso totalmente interesse. È stato in grado di cambiare se stesso in dodici mesi di coma più di quanto non abbia fatto in tutti gli anni vissuti coscientemente. In lui non c’è traccia del Rick frivolo che quella sera, se mai fosse arrivato alla festa di lancio del libro, avrebbe passato volentieri l’intera nottata a bere champagne, farsi abbagliare dai flash dei fotografi, firmare autografi sui seni più o meno prosperosi di fan impazzite e provocanti. Ha capito che c’è qualcosa di più importante nella vita. Sente di essere l’uomo premuroso e protettivo che ricorda di aver fatto emergere nel corso di quei cinque, apparentemente, lunghi anni.
Ma, nonostante i momenti bui, la felicità arriva anche tra quelle mura pregne dell’odore acro del disinfettante e di quello di morte che aleggia indisturbato. Alexis non tarda mai per la sua visita quotidiana al termine delle lezioni. Seduta sulla sedia accanto al suo letto, studia. Le gambe incrociate, la biro tra le labbra. La osserva imprimendo nella mente nuovi ricordi di quei momenti che credeva perduti. Momenti che pensava non sarebbero più tornati, perché il tempo non si può fermare, né tanto meno mandare indietro. Gli occhi gli divengono lucidi sentendola borbottare fra sé mentre cerca di prepararsi in vista del prossimo esame. Alla sua immagine si sovrappongono quelle di lei cresciuta, nella stanza del college, nel suo appartamento, in quella gabbia in un edificio di Parigi. I ricordi di quella vita sono ancora chiari e limpidi, così vividi da far male anche a distanza di settimane e la sola cosa che vorrebbe fare è potersene sbarazzare, ma più cerca di dimenticare, più si ricorda.
 
Le gambe cominciano a riprendere tono, camminare non è più così faticoso come all’inizio. Ora riesce ad arrivare alla macchinetta del caffè nell’altra ala dell’ospedale senza bisogno che sua figlia gli faccia da sostegno. Il caffè è un altro ricordo indelebile e doloroso, gli sembra che non abbia più senso prenderlo solo per sé, senza nessuno a cui portarlo. Eppure allo stesso tempo non può fare a meno di berlo, come se gli facesse sentire più vicino Kate, viva solo nella sua memoria.
Guardandosi allo specchio stenta a riconoscersi ancora magro, il viso piuttosto scavato e la pelle insolitamente pallida, eppure qualcuno per i corridoi, durante le sue passeggiate quotidiane, lo riconosce. Chi esaltato dall’aver conosciuto Richard Castle, chi felice nel sapere che si sia ripreso dopo l’incidente che per giorni aveva fatto parlare telegiornali e gente per le strada della città. Era come diventato un argomento da salotto, a sentire sua madre e anche Alexis non è riuscita a nascondergli le difficoltà che per i primi tempi aveva provato nell’andare a scuola, nel sentire su di sé gli sguardi compassionevoli di compagni ed insegnanti, o il vociferare per i corridoi quando passava. Ma ben presto, a differenza sua, incapace di non pensare in ogni istante della giornata a lui e alla possibilità che non si svegliasse più, i suoi compagni parvero dimenticarsi dell’accaduto e da quel momento anche per lei tutto era risultato un po’ più facile. Facile come lo è anche ora, emozionata dal poterlo finalmente veder lasciare l’ospedale e riacquistare la libertà.
Nonostante il freddo, Rick trova piacevole la sensazione delle gocce di pioggia che deboli gli si posano sul viso mentre sua figlia lo spinge, sulla sedia a rotelle, fino al taxi.
All’arrivo a casa, il palazzo appare maestoso davanti ai suoi occhi, uguale a come lo ricordava. Il portiere lo saluta entusiasta e, più che felice di rivederlo, è lieto di vedere il sorriso che nuovamente incornicia il volto di Alexis.
“Va tutto bene?” Gli domanda premurosa, una volta arrivati al piano, fermandosi prima di aprire la porta. Giocherella nervosa con le chiavi fino a che lui, posando le mani sulle sue, gliele sfila dalle dita e, baciandola sul capo, si accinge ad inserirle nella toppa. La serratura scatta, la porta si apre ed entra.
Il profumo è quello di sempre, i soprammobili sono gli stessi, ad eccezione di quel buffo pinocchio che, per quello che ricordava, era stato spostato nella camera di sua madre. Passeggia per il soggiorno osservando le foto. Sono piuttosto vecchiotte. Non ci sono lui e Alexis il giorno del diploma, non c’è quella di sua madre, nella cornice argentata sopra la mensola accanto alla cucina, il giorno dell’inaugurazione della scuola di teatro. Si avvicina alla finestra, nell’appartamento di fronte marito e moglie stanno cenando. In quella casa nessuno ha inscenato un omicidio, nessuno ha dato una festa in onore del suo compleanno, nessuno ha brindato.
“Preparo qualcosa per cena, ti va? Così magari fai un giro per la casa, una doccia...”
“Certo pumpkin, grazie.”
Con una certa celerità raggiunge la camera da letto, ma non a causa della stanchezza, come Alexis potrebbe pensare. Appeso al muro, proprio di fronte al letto, la stampa con il leone lo osserva minaccioso. Si avvicina sfiorandone la superficie. Sciocco come si aspettasse di trovare ancora il quadro con le conchiglie raccolte negli Hampton. Buffo come aprendo l’armadio credesse di vederlo occupato per metà da vestiti femminili, come annusando le federe si aspettasse di sentire il profumo di Kate su di esse, ed in bagno di vedere il suo accappatoio e lo spazzolino accanto al suo.
Sconsolato si siede sui bordi del letto, sfilandosi le scarpe. Sospira un paio di volte, fa leva sulle braccia e si alza. Rovista tra i cassetti cercando dei vestiti puliti, andando poi ad aprire l’acqua della doccia sentendosi come sollevato dal suo scrosciare.
Si insapona, passa le mani tra i corti capelli. Lascia che il getto lo colpisca in pieno viso, scendendo poi lungo il corpo così da delineare ogni curva ed incavo, nella speranza che l’acqua porti via con sé stanchezza e fatica. Il mese trascorso in ospedale tra esami e tecniche riabilitative gli è sembrato estremamente lungo e di certo la scarsa simpatia del suo fisioterapista non lo ha aiutato ad alleggerire le ore passate tra parallele, tapis roulant ed esercizi ginnici.
Trascorsa la cena, un film in compagnia di sua figlia sdraiata accanto a lui sul divano è quello che di meglio può esserci a conclusione di quella giornata. Si sente finalmente sereno, tranquillo, carezzando il braccio di Alexis caduta tra le braccia di Morfeo appena poco prima della fine della pellicola. La sveglia dolcemente dandole poi la buonanotte e guardandola sparire nell’ombra del piano superiore. La segue poco dopo sbadigliando vigorosamente. Le lenzuola, fresche di bucato sono fredde e rigide e poggiando la testa sul cuscino i ricordi tornano a tormentarlo a discapito della sensazione di beatitudine provata fino a qualche minuto prima. La nottata passa insonne, il bianco soffitto gli tiene compagnia dopo essersi rigirato più e più volte nel letto cercando inutilmente una posizione comoda. Non sono solo i ricordi a tenerlo sveglio, certe persone non riescono a capire che dopo quasi un anno passato a dormire c’è una sensazione di paura che si diffonde nel corpo. Paura di addormentarsi e questa volta di non svegliarsi più.
Il sole sorge con lentezza, la primavera è alle porte. Non appena i primi raggi di luce filtrano dalle persiane non completamente chiuse, scosta le lenzuola alzandosi.
Arrivato in cucina, constata con piacere che pentole e padelle sono sempre al loro posto e che gli ingredienti per i pancakes e omelette non mancano mai in casa. Dando via alle danze, si rende conto di non aver perso il tocco, di riuscire a far girare l’omelette senza romperla, di essere ancora in grado di destreggiarsi tra più fornelli contemporaneamente. Il profumo si diffonde per la casa risvegliandola, ed ecco che le due rosse lo raggiungono ancora piuttosto assonnate. La vestaglia di Martha sembra catturare tutta la luce che entra dalla grande finestra ora alle sue spalle, facendo così risplendere i suoi colori vivaci. Alexis mangia fugacemente, non vuole fare tardi a scuola. La rincuora poter gustare una colazione firmata Richard Castle, adora potergli dare nuovamente il bacio sulla guancia prima di uscire.
“Cosa farai oggi? Sarai qui da solo tutto il giorno. Nonna ha insistito per portarmi a compare un vestito per la festa di primavera organizzata dalla scuola. Ma se vuoi non vado.”
“Kiddo, dille qualcosa, un vestito nuovo ci vuole.” Sostiene con fervore bevendo uno strano intruglio di un curioso giallo spento. Alexis rotea gli occhi, tornando a fissare il padre in attesa di una sua risposta. Sembra quasi sperare che lui le dica di non andare ma, per quanto vorrebbe passare il pomeriggio con lei, sa quanto per sua madre questa uscita possa essere importante. In questi mesi è stata eccezionale nell’occuparsi di Alexis e non si sarebbe aspettato nulla di diverso. Deve aver fatto rinunce ed entrambe non devono essersi concesse troppi momenti di svago, almeno in base ai racconti di sua figlia. Vuole solo veder tornare anche loro alla normalità. “Va pure tesoro. Io scriverò un po’.”
“Hai idee per un nuovo romanzo?” Pare sbigottita all’idea, domandandosi quando abbia avuto il tempo per pensare ad una nuova trama dopo che aveva ucciso il protagonista dei suoi racconti, la gallina dalle uova d’oro come l’aveva definito Gina più volte.
“Qualcosina, preferisco lavorarci su prima che sfuggano.”
 
Riaprendo il portatile, appena terminato il pranzo, sente come una parte di sé riaffiorare. Gli è mancata la sensazione dei tasti sotto i polpastrelli, il ronzio della ventola di quel computer ormai non più nuovo, l’incepparsi della space bar ogni cinque o sei parole. Lo schermo si illumina lasciando intravedere appena sullo sfondo, sommerso dalle cartelle, una Alexis appena nata tra le sue braccia. Rapidamente controlla tra i documenti cercando le bozze dei suoi romanzi. Nulla sotto il nome di Nikki Heat, ormai deve rinunciare all’idea che lei sia reale.
Il cursore lampeggia sul foglio immacolato e gli resta solo da decidere di cosa scrivere. Di Kate, una detective che lentamente torna a riaprirsi alle gioie della vita innamorandosi di uno stravagante scrittore deciso a starle accanto. Della sofferenza per l’uccisione della madre e per l’alcolismo del padre che l’ha attanaglia per anni trascinandola sul fondo. Di quel capitano implicato nel caso e sostituito, alla sua morte, da Victoria Gates, decisamente poco incline a sopportare la presenza dello scrittore. Di quella cella frigorifera che sarebbe potuta essere la loro tomba, del lavoro a Washington che aveva rischiato di separarli per sempre, e di quella proposta di matrimonio che lei aveva accettato sapendo che era un segno d’amore e non un ultimo e disperato gesto messo in atto nel tentativo di tenerla con sé a New York. Riuscirebbe a scrivere fogli interi, pagine su pagine solo di lei. Delle sue movenze, dell’espressività dei suoi occhi, di quanto invitanti fossero le sue labbra quando le poggiava con delicatezza sul bordo della tazza in ceramica, o quando le inumidiva appena in quel semplice e rapido gesto prima di schiarirsi la voce e parlare.
In alternativa potrebbe parlare di Nikki e Rook. Una storia così simile, eppure totalmente diversa dalla sua con Kate.
Si massaggia le tempie in attesa di arrivare alla decisione che ben presto si fa largo nel suo cuore. I suoi ricordi con Kate sono troppo preziosi, così privati e segreti che non se la sente di mostrarli al mondo intero o, per lo meno, ad una parte di esso. Del resto la saga su Heat è indelebile nella sua mente e potrebbe davvero giungere ad avere lo stesso successo e seguito che lui ha, in un  certo qual modo, sognato e, forse, predetto.
Le dita prendono a muoversi con rapidità, le parole si formano nella sua mente con semplicità tale che interi paragrafi è come si scrivessero da sé. Capitolo dopo capitolo la trama si fa sempre più chiara. Il materiale raccolto in poche ore è sufficiente per portare un primo abbozzo alla Black Pawn. Riesce già ad immaginare la faccia esterrefatta e sorpresa di Gina al suo arrivo, la sua perplessitudine e riluttanza nell’accettare la bozza di un romanzo scritta in così breve tempo, probabilmente convinta che sia solo frutto della mente di un folle che da poco ha ripreso a camminare nel mondo dei vivi. Ma sa bene che, alla fine, la sua curiosità non la terrà lontana a lungo dal manoscritto.
Indossa la giacca, la sciarpa ed esce. Il sole rilascia un debole tepore riscaldandogli il viso. È da tanto che non passeggia completamente solo per le strade della città. Con la mano nella tasca dei pantaloni gioca con la piccola pen drive custode del suo lavoro.
Lo sguardo si perde sui volti delle persone che lo circondano, nello scintillio delle vetrine dei negozi. Degli skaters si destreggiano in salti ed acrobazie sul marciapiede di fronte, un uomo distribuisce volantini proprio accanto a lui per l’inaugurazione di un nuovo negozio di dolciumi. Il vento diffonde un forte e dolce aroma di caffè e l’idea di fare una piccola sosta non gli dispiace affatto. Insieme al profumo dei chicchi tostati, di cacao e cannella, l’aria frizzante porta con sé i petali degli alberi in fiore. Gli occhi si muovono rapidi fino ad intercettare il parco poco distante. I colori accessi delle piante e dei fiori nelle aiuole, che si intravedono dai cancelli d’ingresso spalancati, ravvivano il paesaggio altrimenti composto solo di asfalto grigio e palazzi maestosi.
Svolta l’angolo, la sua attenzione è altrove, il passo forse troppo veloce dal momento che non guarda dove sta andando. Si scontra con qualcuno, il caffè caldo gli si rovescia sulla mano, scottandola.
“Mi scusi, io... io non l’avevo proprio vista.” Si china rapido a raccogliere il brico del caffè finito disastrosamente a terra assieme al suo contenuto. Sollevando lo sguardo davanti a sé vede solo gambe, delle lunghissime e longilinee gambe.
“No, è colpa mia, non stavo guardando”, ribatte la ragazza.
Si alza lentamente, facendo leva sulle ginocchia. “Insisto, è...” le parole gli si bloccano in gola mentre una forte morsa si impossessa del suo stomaco. “Kate...” Non può credere che sia davvero lei. I capelli, leggermente ondulati, le arrivano appena sopra le spalle, decisamente più corti di come li rammentava. I lineamenti gentili e delicati, gli occhi così profondi ed espressivi, di quel particolare colore che lo aveva ammaliato dalla prima volta che credeva di averli visti.
“Katherine, veramente, mia madre è l’unica a chiamarmi ancora Kate. Ma ci conosciamo?”
Il suo sorriso è gentile e spontaneo. Potrebbe innamorarsi subito, sarebbe così facile innamorarsi di nuovo di lei. È così diversa, così serena e forse non ha bisogno di uno scrittore, conosciuto da tutti come un egocentrico playboy, che le porti la felicità. “Si, no... noi... no. No, non ci conosciamo.”
“Come sapevi il mio nome?”
Già, come lo sapeva, come può spiegare ad una sconosciuta di averla sognata ripetutamente?
“È semplice...” Lo è, davvero? Forse si sta solo incastrando con le sue stesse mani. “Il tuo viso, i lineamenti sono indiscutibilmente quelli di una persona che potrebbe chiamarsi Kate… ehm, Katherine.” La sua risata sottile e gentile le arriva alle orecchie tra il chiacchiericcio e la confusione generale che continua ad esserci attorno a loro. “Ti prego, lascia che ti offra un altro caffè.”
Katherine dà una rapida occhiata all’orologio. Il cinturino sottile, il quadrante rettangolare, non è certo quello di suo padre. Rick lo intravede appena sotto la manica della giacca del tailleur grigio che sta indossando. Il tessuto particolarmente aderente risalta le sue curve. Fatica a distogliere lo sguardo, a puntarlo nei suoi occhi e non sul suo corpo.
“Veramente dovrei andare.”
“Ci metterò poco, è una promessa. Per favore...”
La supplica senza aspettare una risposta, non ne ha il tempo. Si fionda in caffetteria lasciandola sola, sul marciapiede, ad aspettarlo. Il locale è gremito di gente, ma la maggior parte delle persone, già stata servita, si intrattiene unicamente per una breve chiacchierata prima di tornare al lavoro, a casa o a prendere i bambini a scuola.
Esce affannato, il caffè in mano, attento a non scottarsi nuovamente e a non rovesciarlo. La cerca, come perso, con lo sguardo, fino a che  suoi occhi non la trovano in disparte, all’ombra della tenda della caffetteria.
“Eccomi, come promesso ho fatto in un lampo.”
“Grazie...” prende incuriosita il brico portandoselo immediatamente alla bocca. L’aroma di vaniglia le riempie la bocca, il caffè le tinge appena le labbra. “E questo? Per caso ho anche la faccia di una che prende il caffè aromatizzato alla vaniglia e con zucchero di canna?” Domanda con ironia ed aria da saccente, arricciando le labbra per poi distenderle immediatamente in un dolce sorriso.
“Ho tirato a indovinare.” Risponde di getto. Lei si morde il labbro inferiore e ancora una volta il cuore di Rick perde un battito davanti a quel gesto così familiare.
“Adesso devo proprio andare, ma...” rovista nella tasca anteriore della valigetta in pelle. Gli porge il biglietto da visita portandosi poi i capelli dietro l’orecchio così da prendersi ancora qualche secondo. “Quello è il mio numero di telefono. Chiamami se ti va.” Si allontana, sorridendo come non ha mai fatto prima. Se fosse una bambina si metterebbe a fare una giravolta dietro l’altra in mezzo alla folla.
“Lo farò”, è la risposta che sente arrivargli alle spalle da quella voce armoniosa e profonda della quale si sente già dipendente. “Allora arrivederci signor Castle”, vorrebbe urlargli, ma perché dare adito al suo ego di espandersi ammettendo di averlo riconosciuto? Perché trovarsi costretta ad ammettere l’ammirazione che ha nei suoi confronti come scrittore? Forse, con il tempo, avrà la possibilità di scoprirlo da sé.
Rick la osserva rapito, dimentico ormai di essere lui quello rimasto senza aver soddisfatto la sua voglia di caffè, fino a che la sua figura non svanisce tra i passanti. È allora che abbassa lo sguardo sul cartoncino rettangolare bianco che tiene ancora stretto tra le dita. Corruga la fronte, inclinando di poco il capo alla sua destra.
Lui ha il ricordo di una Kate la cui vita aveva subito un cambio di rotta con la perdita di sua madre, quell’omicidio irrisolto da cui non riusciva a trovare pace, ma la ragazza che ha appena incontrato ha avuto la fortuna di non dover affrontare nulla di tutto quello. Lei ha continuato per la sua strada proseguendo gli studi di legge, ha seguito le orme della famiglia. Il suo posto è quello, tra giudici e avvocati, perché per lui non ha importanza il lavoro, non ha importanza se sia una detective piuttosto che la cameriera di un fast food.
Gli basta che sia lì.
I gesti, le movenze, il sorriso, la risata, persino la camminata è la sua. Kate è reale e c’è ancora speranza per quella vita che lui fino a qualche minuto fa credeva di aver perso per sempre. Così, con il sorriso stampato sulle labbra rosee, legge ancora una volta le parole scritte nero su bianco, in elegante stampatello, sul biglietto da visita prima di riprendere la sua passeggiata verso la Black Pawn.
 
Katherine Beckett, avvocato penalista.



Diletta's coroner:
Diciamo che ho stravolto un tantino la vita del nostro povero Castle, ma non ho potuto fare a meno di domandarmi, e se alla fine di tutto si scoprisse che è stato solo un "sogno"?
A voi la sentenza :)
Baci
  
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